Il “Meccanismo di Kythira”

I superstiti del naufragio assiepati alla base della scogliera. Le onde che li colpivano mentre tentavano di mettersi in salvo ne hanno risucchiati circa quindici. Otto risultano ancora dispersi in mare.

 

La mattina dopo il naufragio di Citera, mi sono messo a parlare con i migranti sopravvissuti, offrendogli una sigaretta o consentendogli di chiamare i parenti col mio telefono. Più d’uno mi ha detto: “io amo il mio Paese, non avrei mai voluto andare via!”, quasi per scusarsi. “Siamo tutti in fuga dal regime violento dei Taliban. Gli americani, andando via, ci hanno condannato a morte”.
Tra di essi c’è un Giudice per le indagini preliminari, che ha appena perso il fratello. “Per anni ho mandato in galera quei pazzi, ho sciolto 450 matrimoni di donne costrette a sposarli dalla Sharia. Ero nella lista nera degli assassini”. C’è Abdalla il pilota di caccia, giovane, disperato per la moglie e la figlia di 7 mesi lasciate in Afganistan: “ho studiato 18 anni per diventare pilota. Ora sono lontano dalle mie due ragazze, e ho buttato via tutto. Ma se restavo morivo”. C’è il giovane ingegnere che chiede una cintura, i pantaloni ricevuti dai volontari gli stanno larghi: “abbiamo venduto tutto per andare via, o saremmo stati uccisi. Tutti quelli che hanno lavorato a qualunque titolo col governo precedente”. Ci sono le due ragazze che non smettono un istante di piangere: “Sapete se nostra madre si è salvata? Vi prego, diteci qualcosa!”.
Uno di loro timidamente mi si avvicina: “scusami, mi dici dove siamo? Come si chiama qui?”. Gli spiego che si trova su un’isola.
Ieri, durante il giro per le medicazioni delle innumerevoli ferite ai piedi e alle gambe, lacerate dagli scogli, i sopravvissuti si sono riuniti tutti intorno ai volontari: “Grazie. Siete i nostri angeli. Non vi dimenticheremo mai”.

Per arrivare fino a quest’isola, a sud del Peloponneso, questa gente disperata è partita dall’Afghanistan. Mille ero a ogni frontiera: quella con l’Iran, poi quella con la Turchia, poi altri 900 per attraversare tutta l’Anatolia fino a Istanbul e poi Izmir, che da anni è il centro operativo dei trafficanti di uomini sulla frontiera di levante. Infine, 10.000 euro a testa per imbarcarsi su una vela di 18 metri.
Erano poco meno di cento, a bordo, tre giorni fa. Ragazzi e ragazze, per lo più. La loro barca si è incagliata in prossimità della costa, poi le onde l’anno fatta spezzare. “Ci siamo buttati in acqua per raggiungere a nuoto la costa” mi racconta Abdalla. E così si sono ritrovati tutti aggrappati su una scogliera verticale spazzata dal mare in burrasca, che uno a uno ha inghiottito quindici di loro. Solo dopo tre giorni di disumano ritardo è iniziato il recupero delle salme, lasciate a gonfiarsi e galleggiare in mare. Sono sette. All’appello ne mancano almeno otto.
Ma sarebbero stati cento, i morti, se pompieri e volontari di quest’isola buona non fossero accorsi subito. Soprattutto Michalis Protopsaltis, l’uomo divenuto il simbolo di questa straordinaria operazione di soccorso. Al primo allarme, di notte, Michalis non ci ha pensato su nemmeno un istante: ha preso il suo camion-gru con braccio telescopico e l’ha piazzata sulla scogliera. Solo grazie alla sua velocità e intraprendenza è stato possibile issare per oltre dieci metri i superstiti, uno a uno. Oggi la Grecia intera lo onora sui social network, inviando migliaia di encomi appassionati. Spero lo faccia anche l’Europa.

La barca stracarica di migranti è finita sugli scogli nel punto peggiore dell’isola perché il comandante non era un marinaio. I trafficanti di Izmir addestrano velocemente uno dei migranti, gli spiegano superficialmente come funziona una barca, lo mettono al comando. In cambio, un passaggio gratis verso l’Italia. Poi lo guidano via telefono lungo la rotta. “Il proprietario della barca e il reclutatore di migranti, due turchi, gli dicevano di passare in due posti diversi, uno a nord e uno a sud dell’isola. E lui era confuso. Discuteva con loro per telefono…” mi racconta Ahmad Khan, viso gentile, calmo ma ancora sotto choc. E così il “comandante” ha fatto rotta, di notte, col mare in burrasca, verso una scogliera invece che tra isola e Peloponneso, dove qualunque marinaio, anche uno della domenica, si sarebbe subito riparato da vento e onda di nord est.
Ma che fine ha fatto il “comandante”? I sopravvissuti dicono che sia morto sul colpo,“folgorato da una scossa elettrica”, eppure questa versione dei fatti non convince. La polizia indaga, ascolta i racconti. Dalla minuzia dei dialoghi e degli interrogatori, si capisce che ha dei sospetti.

I giornali ellenici oggi avanzano l’ipotesi di basi operative in Grecia. Tutto da verificare. Ma questo fa parte delle indagini, cioè dell’ora e del dopo. Sull’isola, che conta poco più di duemila abitanti, dove sindaco e autorità si sono rivelate ancora una volta del tutto impreparate e ancor peggio assenti e inadempienti con i soccorsi, i volontari hanno invece svolto un lavoro straordinario. Anche questo rimbalza per tutta la Grecia, come un monito e un insegnamento per redimere l’attuale deriva di insensibilità e disumanità di buona parte delle istituzioni e della politica. Quella che in Italia conosciamo bene, E l’esempio, qui, è stato fortissimo: in poche ore l’educata e sensibile comunità dell’isola (dove è in costruzione un “Museo delle migrazioni” dal grande valore culturale e sociale), ha offerto ogni bene di prima necessità: cibo, acqua, medicinali, vestiti asciutti, scarpe, mutande. L’intera gestione dei soccorsi e dell’accoglienza è stata svolta da quella che ormai si sta configurando come un’autentica associazione popolare. Qualcuno, sulle chat dei volontari, ha anche disegnato un logo e proposto un nome: “Il Meccanismo di Kythira”, facendo il verso al famoso ritrovamento archeologico della vicina Antikythira.

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Uno si chiama Ouares, un altro si chiama Abdalla Jabrel, o qualcosa del genere, un altro ancora … l’ho perso. Ma non dimenticherò facilmente le loro facce. Quelle dei ragazzi e delle ragazze che non sono rimasti a guardare in mare a pancia in giù. Volontari e soccorritori di quest’isola ancora umana e amorevole ne hanno salvato un centinaio, a non farcela sono stati tra quindici e venti, così dice la polizia informalmente.

Una barca di circa 18 metri, proveniente da Izmir, con forse 110 o 120 persone a bordo, è naufragata stanotte sul lato orientale di questa isola egea, di fronte a Capo Malea (Peloponneso). Aveva navigato per tre giorni e due notti, rotta sull’italia. Il comandante, un arabo abbastanza in là con gli anni, quando la barca si è arenata su una roccia affiorante ed è rimasta senza alcuna alimentazione elettrica, ha tentato qualcosa che gli è stato fatale: uno “choc elettrico”, così mi hanno raccontato i migranti, lo ha ucciso sul colpo.

Poco dopo la barca ha iniziato a imbarcare acqua e si è spezzata. Nella notte, con mare molto formato e onde che spazzavano la scogliera non lontano da Diakofti, tutti si sono gettati in acqua, tentando di mettersi in salvo. la scogliera in quel punto è alta e verticale, le onde li hanno sbattuti sulle rocce e poi risucchiati al largo. Un miracolo, e l’arrivo dei volontari, dei pompieri, di un braccio meccanico, hanno impedito che morissero tutti. Ricoverati in una scuola al centro dell’isola, i sopravvissuti sono stati accolti, fatti riposare, hanno ricevuto coperte, asciugamani, sapone, vestiti puliti che sono arrivati da ogni angolo dell’isola, rifocillati con cibo e acqua. Un ristoratore ha portato pasti per tutti, e la gente comune ha donato ogni cosa, dalle scarpe agli spazzolini da denti, dagli antidolorifici alla tintura di iodio, dai maglioni a qualunque altra cosa. in un lampo ci siamo trovati lì in tanti a smistare derrate, dividere gli abiti per taglia e genere, ascoltare quei poveri uomini e donne sotto choc.

Tutti in fuga dal regime violento dei Taliban.
C’è il Giudice per le indagini preliminari, che ha perso il fratello. “Per dieci anni ho mandato in galera quei pazzi, ho sciolto 450 matrimoni di donne costrette con la forza a sposarli. Ero ovviamente nella lista nera dopo la partenza degli americani, che ci hanno lasciato nelle mani degli assassini”.
C’è il pilota di caccia, giovane, disperato per la moglie e la figlia di 7 mesi lasciate in Afganistan: “ho studiato 18 anni per diventare pilota. Ora sono lontano dalle mie due ragazze, e ho buttato via tutto. Ma se restavo morivo a breve”.
C’è il giovane ingegnere che chiede una cintura, i pantaloni gli stanno larghi: “abbiamo venduto tutto per andare via, o saremmo stati uccisi. Tutti quelli che hanno fatto qualcosa durante il governo precedente. Abbiamo pagato 1000 euro per passare il confine con l’Iran, poi 1000 per quello turco, poi altri 900 tra Istanbul e Izmir. E poi 10.000 per salire su questa barca, e fare naufragio. A proposito, dove siamo, come si chiama questo posto?“.
“Grazie a tutti voi” ci dicono. “Siete gente che ha un cuore. Siamo esseri umani noi…”. Il giudice mi prende da parte: “So che tecnicamente sono trattenuto per aver commesso un reato e sono in attesa di essere o giudicato o dichiarato rifugiato… ma vorrei vedere il corpo di mio fratello, quando lo troveranno…” La voce gli trema. Gli assicuro che farò di tutto perché possa vederlo.
Quando vedono che fumo mi si fanno intorno tutti. Rollo ventisette sigarette più veloce che posso. Mi chiedono di chiamare a casa, gli do il mio telefono. F. è quasi in lacrime per due ragazze disperate che cercano la madre, che però non è né lì né in ospedale. “Che devo fare…?”.

Ecco il mio primo giorno. Appena tornato sull’isola bella.
Spero che il mare si alzi e non torni mai più calmo, che sbarri la strada a queste barche della morte.
Poi penso a Abdalla, che ha ancora un briciolo di speranza negli occhi: “Pensi che potrei fare il pilota in Europa…?”
Spero che tutti voi, non solo Abdalla, possiate volare in alto, staccare la vostra ombra da questa tragedia. Avete un debito con la morte. Ma un credito con la vita.

PS
Orgoglioso di vivere su un’isola così generosa, che oggi in poche ore ha donato una marea di roba, piena di gente che da stamattina a ora non si è fermata un istante. Bella gente, greci soprattutto, ma anche israeliani, italiani, tedeschi, australiani, tutti insieme.
PS2
Nel video i resti del naufragio. Inclusi alcuni cadaveri. Stamattina.
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Il mio discorso ai politici – Elezioni 2022

Il nostro Paese aspetta una “Nuova Frontiera“, un nuovo orizzonte. I problemi dei suoi cittadini non sono solo i soldi, il lavoro, la casa, ma il progressivo raffreddamento del comune cuore civile, delle nostre anime, del nostro immaginario esistenziale e sociale.
 
Questa era una condizione ideale per la politica, perché parlare a un Paese preoccupato, intristito, spaventato che non aspetta altro che una speranza è l’occasione migliore per farlo vibrare.
 
Eppure nessuno lo ha fatto.
 
Non uno dei candidati a queste elezioni 2022 ha saputo scaldare quel cuore, farlo fremere di rinnovata fiducia. Nessuno ha indicato una meta accessibile, ambiziosa, capace di far rialzare lo sguardo da terra.
 
Ma la via c’è. È un’altra da quella attuale. È affasciante, avventurosa, difficile, eppure ricca di vita. Una grande, necessaria, inesauribile opportunità.
 
Per l’indegnità politica di non averci raccontato nulla di questa via, per la mediocrità ideale con cui ci hanno parlato, per l’inadeguatezza con cui hanno chiesto il nostro voto (tutte premesse certe di una tragica azione politica e governativa domani) io non posso votarli oggi.
 
Il voto è una cosa seria, c’è morta della gente per garantircene il diritto. Non possiamo gettarlo nel fango in questo modo.
 
Auspico quindi un segnale generale: il 95% del Paese che diserta le elezioni.
E poi un nuovo inizio.
 
#laltravia
#discorsoaipolitici

 

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Così, per dignità

Leggo che in autunno si vogliono tenere i riscaldamenti più bassi, e anzi, impedire per legge che si vada oltre una certa soglia di ore e di temperature. Per risparmiare. Perché di gas ce n’è meno, e costa troppo.

Dunque fino a oggi, nonostante l’emergenza ambientale da allarme rosso, nonostante l’evidente bisogno di risparmio di tutti, non si poteva fare. Mentre oggi, costretti dal caro bollette, sì.

Quindici anni fa scrivevo che bisogna mettersi un maglione in più, d’inverno, non alzare il termostato; che è folle avere 28 gradi in una casa, noi ne abbiamo 18, e vicino alla stufa 38; che le fonti energetiche da utilizzare sono altre; che le economie di cui disponiamo sono enormi; che c’è libertà e dignità nella vita “in povertà” (“La povertà che non è miseria” di Goffredo Parise). Non ne scrivevo soltanto, praticavo già questa e cento altre buone metodiche per abbattere l’inquinamento, per ridurre i propri costi, per vivere in modo più sano, naturale, autonomo, svincolato. Libero.
Come già per lo smart-working e per molte altre questioni, di cui ho scritto e praticato da lustri e che ora avvengono in modo coatto, vedo che arriviamo a decisioni molto semplici, di base, ovvie perfino, sempre e solo per necessità.
Cioè non per amore, ma per forza.
Quando la smettiamo di vivere applicando pedissequamente “lo schema”? Quando lo mettiamo in crisi pensando, ragionando, analizzando, scegliendo? Quando ci decidiamo a vivere in modo autentico, libero? Quando prendiamo in mano il timone? È così necessario vivere come il somaro, a testa bassa, che corregge la direzione solo quando riceve una scudisciata sulle orecchie? Possiamo fare qualcosa di meglio? Così, anche solo per dignità.
(nella foto, uno dei ruderi della ghost-town qui sull’isola. Una storia affascinante, tragica, misteriosa, che ha a che fare coi pirati del ‘500, e che prima o dopo vi racconterò)
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Quello a cui le donne non pensano

“Il piacere femminile è un tabù”. Aurora Ramazzotti dixit. (Signore, prendi me, immediately!)

Ma come un tabù…? Sono decenni che non si parla d’altro!
Attendiamo ancora un libro, o qualche testimonianza almeno, sul piacere maschile, di cui invece non si è mai iniziato a parlare. Per primi gli uomini non ne parlano, anche se potrebbero raccontare infinite storie, alcune anche esilaranti (altre piuttosto tristi…).

Delle donne, dei vari punti G, delle anatomie, dei tempi, dei modi, dei diversi piaceri, orgasmici, non orgasmici, vaginali, clitoridei, della sofisticata oscillazione circadiana e mensile dell’eccitazione, della grammatica dell’approccio, di quella durante, di quella susseguente, della fenomenologia sessuale nel suo complesso, sono stati scritti camion di libri, sono stati fatti infiniti simposi, seminari, incontri…. e aggiungo “grazie al cielo”, naturalmente, perché c’era e c’è sempre un enorme bisogno di approfondire per conoscere e per capire la complessità dell’altro. E esiste, come ben sappiamo, una profonda complessità dell’essere donna.
Poi però bisognerebbe sfatare l’immagine che le donne hanno (più precisamente, le femmine, perché riguarda anche le giovanissime) degli uomini, che come si sa è (mediamente…) quella di meccanicistici animaletti tetragoni, monocigliuti, trinariciuti, cioè esseri primordiali, semplici, a cui va bene tutto “basta che…”. Le donne che conoscono l’anatomia del piacere maschile si contano sulle dita di poche mani. Chiedessimo a una donna “sai qual è il punto del piacere del tuo uomo”, avremmo risposte confuse, cincischi, e forse perfino qualcuna discuterebbe la domanda. Le donne che si preoccupano del piacere maschile avendo la capacità di riconoscerne l’intensità, le tipologie, i tempi, gli effetti… sono anche meno.
Io (e con me un esercito di uomini silenziosi, che non hanno ancora capito che bisogna parlare, se si vuole essere percepiti) NON SONO una specie di sex-machine dove metti la moneta e parte la musica. E soprattutto, c’è per me (e per tanti) una differenza abissale tra la musica che piace e quella che fa solo rumore. Abbiamo una complessità vasta e articolata, anche noi, che le donne lo sappiano o lo riconoscano oppure no, e che noi stessi lo sappiamo riconoscere lo sappiamo raccontare oppure no. Dunque siamo, nella migliore delle ipotesi, almeno correi. Anche se, partendo dalla propria complessità, le donne un sospetto di una nostra complessità bisognerebbe che lo avessero. A meno di non essere convinte che donna=ricco/articolato/complesso e uomo=banale/semplice/streotipato. E purtroppo lo dico per paradosso ironico, perché ahimè è proprio così ancora.

A ogni modo, articoli come questo a me fanno l’effetto di leggere la cronaca politica ai tempi di Tanassi. Roba vecchia, di cui si è parlato tantissimo, sostanzialmente trita e ritrita. Mentre c’è molto da dire ancora, in campi sconosciuti, ma a nessuno viene neppure il dubbio che esista.
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La politica ha deluso. Colpa nostra

Oggi grande indignazione: la politica sembra aver deluso, amareggiato, ferito la gran parte del Paese. C’è da preoccuparsi, in effetti, e molto. Solo non vorrei che fraintendessimo l’ordine delle cose, il che sarebbe gravissimo: per quanto stracciona e mediocre, la nostra politica è così perché il Paese è così, perché noi siamo così. Dunque non facciamo troppo gli stupiti, né gli scandalizzati né i delusi: da oltre tre lustri io e tanti altri andiamo dicendo che così non va, ma mai, o quasi mai, ci avete sentito rivolgerci ai politici o a chicchessia. Per me posso dirlo con certezza: ho sempre parlato di me, di noi, a me e a voi.

Le scelte quotidiane non fatte, il non pensare, il preferire divertentismo a senso, denaro a vita, lavoro indefesso e inevitabile a percorso umano, intellettuale, psicologico… ecco cosa ha generato tutto questo.

Cedere ogni giorno sovranità sulla propria vita, lasciando che a decidere per il nostro destino fossero le famiglie d’origine, l’impresa, il giudizio degli altri, il dover essere, invece che il nostro coraggio, le nostre propensioni… ha generato tutto questo.

Rimandare, invece di decidersi, sottovalutare invece di rimettere le cose in ordine, il dire “sì è vero!” senza poi far conseguire azioni… ha generato tutto questo.

Sentir dire “porti chiusi” senza sentire quella affermazione come indecente, mentre la gente moriva per mare…. ha portato a tutto questo.

Capire che avevamo bisogno di iniezioni di metodo e di disciplina senza però applicarci. Sapere benissimo dov’era il punto delle nostre esistenze, senza mettere il dito in quel punto… ha generato tutto questo.

Voltarci dall’altra parte, girare pagina in un giornale, sottovalutare, mentre c’era da restare con lo sguardo dritto su quella pagina, dando il peso dovuto alle cose… ha generato tutto questo.

Vendersi per due monete d’oro inutili, piegarsi alla dittatura del tempo imposto, dei luoghi insensati, tralasciando relazioni, benessere, studio, idee… ha generato tutto questo.

Ascoltare le grandi e tragiche notizie sull’urgenza di cambiamenti comportamentali per evitare la catastrofe climatica, ma senza cambiare di un’unghia le nostre abitudini… ha generato tutto questo.

Rubare, mentre venivamo derubati, dunque assecondare i ladri invece che preoccuparsi di salvaguardare… ha generato tutto questo.

Lasciar correre sui diritti delle persone accanto a noi, attivandoci solo quando toccavano i nostri… ha portato a tutto questo.

La politica rispecchia sempre gli uomini e le donne che la esprimono e questo non è un dato variabile: è sempre così, per sua stessa definizione. Alle cose avremmo potuto e dovuto dire “no”, molto tempo fa, in tanti. Avremmo dovuto dire “Adesso basta” quando era il momento giusto. Non averlo fatto ha portato a questa degenerazione, non altro, e se domani andranno al potere i portabandiera della stessa politica, della stessa cultura che ha reso possibile Bolzaneto… di chi sarà la colpa?

Dunque oggi non indigniamoci troppo, non facciamo quelli che cadono dall’albero della cuccagna stupiti e meravigliati. Sono molti, molti anni che parliamo di queste cose, e tirarsi fuori ora con la scusa che “loro” hanno detto, fatto, tramato, è la più indecente delle deduzioni. Un uomo che cambia, cambia il mondo. Quante volte l’ho scritto, quante volte ne abbiamo discusso?

Ecco, siamo qui. E come in mare, quando ci si accorge di non aver fatto qualcosa che andava fatto prima, la reazione non può mai essere: “è andata…”. Semmai sbrigarsi a fare ora, tardivamente, con maggior solerzia e impegno, quel che andava fatto prima. “Ma ormai è tardi!” dirà qualcuno, compresa la voce in fondo al cuore, il “timoniere della Pinta”. No, era già il tempo, oggi lo è solo di più.

(apparso sul Fatto Quotidiano del 23 luglio 2022)

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Il resto verrà

Un mese e mezzo lontano dall’isola. Una settimana di presentazioni del mio libro, poi a navigare, sostanzialmente. Ma anche per aeroporti, stazioni, qualche passaggio nelle città. Interessante, perfino troppo. Ora, nel ritrovato silenzio e nella sacra quiete dell’Egeo, comincio a ripensare un po’ a tutto.

Troppe persone. Troppo è termine relativo, implica una comparazione. Io la faccio con me stesso, la mia dimensione. Troppa gente. Così tanti, uno accanto all’altro, non riesco. Forse le questioni dentro di me si vanno ancor più radicalizzando. Ci devo riflettere. Sta di fatto che la condizione per me ideale è quella dell’eremita. Laico.

Lo Stato. Assente o eccessivamente presente. Quasi sempre invadente, proteso, estroflesso, abnorme nell’atto di verificare, controllare. Le norme. Quelle che definiscono, misurano, analizzano, sanzionano, approvano… la normalità. Dalla norma non si può uscire. Ma genera un immediato, invincibile desiderio di evadere.

Il denaro. Fuori controllo. Vivere nel consesso umano implica costi folli. E immotivati. Sensazione di essere stato, in questi 45 giorni, al centro di un meccanismo speculativo a spirale. Inevitabile, a aumento progressivo. Il recupero della condizione anacoretica è necessario anche per questo. Nessun costo, solo quelli scelti. Niente di indotto. Un modo per dire “no”. E anche “sì”.

I luoghi di concentrazione: stazioni, aeroporti, porti, quartieri dell’intrattenimento. Lo sciame fa impressione. Le code sembrano marce funebri. Le attese intruppati, il silenzio, o peggio, ascoltare. Prua all’orizzonte, l’unico strumento di difesa. Sarà un caso che su tutti ricordi le 90 miglia in altura tra Gozo e Lampedusa.

Le paure. Vederle permeare così in profondità tra le persone. Un velo che offusca, rende opaco, fa da coperta sul calore. La paura è l’arma più affilata, dalla quale la maggioranza si difende con maggior fatica. E ha effetti chiari. Ha un colore, che li copre tutti.

Il tempo. Sincopato, struggente nella sua velocità. Tempo che termina proprio quando inizia, è già scaduto prima di scorrere. Tempo relegato e recluso. Senza tempo. Senza che vi sia tempo. In questa nostra età il tempo è finito.

Le parole. Pare che restino solo loro. Ma parole dette tanto per dire, a caso. Parole che non implicano alcun accordo, alcuna promessa. Parole che liberano invece di collegare, che si staccano, non riescono a articolare. La dimensione umana residua è contraddistinta da parole colla, parole snodo, parole esoscheletro.

La gabbia. Immagine non chiara questa. Una gabbia dalla quale è non solo impossibile, ma inutile uscire.

Il ritorno. Ritorno dove, di chi, mi chiedo. E dopo essere stati dove? E perché?

Ho la sensazione che ci sia molto altro.
Verrà. Da sé.

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Rispetto. E considerazione

Mesi a lavorare. Lavorare vuol dire: prendersi il tempo dagli impegni, prenotare un aereo low cost che ti porti a Trapani, andare, lavorare, fare da mangiare, lavare i piatti, interagire con gli altri, tornare, stanchi, poi riprendere le proprie cose.
Cinque squadre, per cinque settimane (più Nunzia che ha fatto tutto per tutti, grazie Nunzia), tra gennaio e maggio. Perché tutto questo sbattimento? Per poter ripartire, un altro anno, un anno ancora, con Mediterranea.

Piccolo esempio di cosa c’è dietro qualcosa che da dieci anni va avanti, senza ausili, senza sovvenzioni, senza sponsor, con la tigna, la maledetta convinzione che Mediterraneo “è una gran cosa”, il suo mare (da studiare, analizzare, esperimentare), la sua cultura (organizzare interviste, incontri, scrivere, comunicare), la navigazione (insegnare, parlare, raccontare, spiegare mille e una volta ogni cosa, a tutti) lo stare insieme (in un altro modo, con un nuovo modello di vita, con un altro appoccio, meno io, più noi, meno soldi, più fatica).

E quindi ecco che oggi riparte Mediterranea. Grazie a ragazzi e ragazze di grande tenacia, di grande spessore, gente che ha capito che su Mediterranea siamo noi a dover fare qualcosa per lei, per tutti quelli che ci lavorano, non lei per noi.
Rispetto. Sempre.
Considerazione.
E grande voglia di vivere.

Così si fa con i sogni veri. Altrimenti, solo pugnette.

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Accettare tutto e poi fare finta di incazzarsi è roba da schiavi assuefatti. Irrecuperabili.

Aver accettato per decenni questo modello di sviluppo, senza metterlo in discussione, questo modello economico, averlo sostenuto e interpretato…
E aver accettato di omologarsi a esso, senza rifiutarne l’imposizione dei tempi della vita, la dittatura del denaro, la centralità totalizzante del lavoro…
Aver accettato senza nemmeno stupirsi di andare in vacanza tutti insieme due sole settimane l’anno d’estate, poi una a Natale…
Aver accettato di non studiare ciò che si amava, di non aver praticato ciò che era la propria natura, ma ciò che “andava fatto” per inserirsi in questo schema…
Aver accettato di vivere fuori da ogni comunità di relazioni autentiche, nelle città disumanizzate, nella totale superficialità delle relazioni sociali…
Aver accettato che il cibo diventasse insano, non aver mai messo in dubbio la sua provenienza malata (altro che sospetti su un vaccino!)…
Aver chinato il capo all’egoismo sociale che deriva dalla mancanza di condivisione e aiuto, credendo ciecamente nel racconto del pericolo e della paura…
Aver subito la persuasione occulta della pubblicità, che ha mostrato come normale comprare milioni di bottiglie di plastica che contengono solo acqua…
Aver detto sì ogni giorno all’uso dissennato dell’energia prodotta in modo ormai definibile come criminale, o a usare mezzi di trasporto inquinanti (uno solo per macchina!) tutti nello stesso giorno del “ponte vacanziero”, a comando…

E perfino aver accettato la farsa reiterata del voto, chiamati tutti a vidimare con la propria scheda l’esistenza e il potere di politici che facevano e fanno affari coi dittatori…

e tutto questo, e molto altro… senza mai alzare la testa, senza mai nemmeno sperare di vivere diversamente, senza neppure tentare un’altra via, schiavi della comunicazione, del consumo, dei simboli che modificano perfino l’immaginario…
… senza la dignità e la determinazione di dedicare neppure dieci minuti al giorno alla propria anima, alla propria spiritualità…
… senza il nerbo di rimanere atti all’azione manuale, diventando tutti inabili a qualunque forma di autoproduzione orgogliosa…
… osservando le peggiori nefandezze civili, essendone parte attiva senza neppure rendersene conto… devastando comunità, famiglie con una conduzione insana dei rapporti d’amore, di amicizia, e con se stessi…
… accettando come “non grave” che ogni stimolo culturale, del sapere della ricerca umana venisse marginalizzato, reso inoffensivo verso questo stato delle cose…
e poi, oggi, solo oggi, aver fatto i finti incazzati contro un vaccino, contro una mascherina… che valevano il tempo limitato a un’emergenza… e che a breve diventeranno un ricordo, o peggio un tassello della normalità…
… e già essere tornati (senza neppure un dubbio!) all’identica vita di prima, senza aver nemmeno dedicato un’occasione all’elaborazione di un piano di fuga da questa matrice preordinata… senza il desiderio di vivere diversamente neppure nei sogni…
… Be’, ecco, questo paradosso: accogliere tutto in modo prono, automatico, e pretendere poi di contrabbandare la propria rabbia per ribellione, per rivolta… sperando che chi ha testa non comprenda, e che almeno i distratti o i superficiali vi prendano sul serio… è insostenibile.
Della vostra finta disobbedienza, quella che si attiva sulle cazzate e poi si spegne sulla vita, quella che accetta tutto tranne il dettaglio temporaneo, quella che vede il passo ma non il percorso.. non resterà traccia.
Io non ci ho creduto, fin da principio. Non mi sono bevuto la favoletta del vostro “sì a tutto, ma stavolta no”. Era solo una posa irrazionale, un birvidino. Perché bisognava fare esattamente l’opposto, dire no a un mucchio di cose storte, e trattare tutto questo, oggi, con sufficienza.
Vi siete fatti dettare perfino l’agenda dell’ultimo grammo di orgoglio che avevate.
Chiunque abbia provato soddisfazione o un qualche benessere in questo paradosso, è perduto.
Per le stirpi condannate a cent’anni di obbedienza, questa era l’ultima opportunità sulla terra.

(Per riprenderci un po’… Nella foto: un mezé armeno, mangiato nel quartiere armeno di Aleppo, tanti, tanti anni fa. Limone sul genere “Amalfi”, che ci sono anche qui, tagliato al vivo e fatto a cubetti o fettine appena spesse, ben salato, pepato, con abbondante origano fresco e olio d’oliva dal sapore piccante e amaro. Dopo cinque o sei ore di marinatura, mantiene la sua asprezza, ma è un aperitivo delizioso)

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Un podcast bello lungo. Per voi.

Ecco qui, su Spotify, un lungo podcast (1h e 37′) parte della serie “L’Ultima Domanda“.

Tema complessivo, a ampio raggio, in cui viene fuori un po’ di tutto sui temi più attuali.
Pensavo che qualcosa lo tagliassero, non fosse altro che per stringerlo, e invece no, hanno lasciato proprio tutto… Ma forse è meglio così, restituisce il senso anche del tono.
 
Non devo dirvi io, ancora, quanto questi pensieri siano urgenti, necessari, e come proporsi, sottoporsi, suscitare a se stessi una nuova opzione di vita, sia ormai diventato una necessità (era un’opportunità, ai tempi, ma le cose cambiano).
 
Buon ascolto.
 
#laltravia
 
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