Libri di altri

Qualche libro, tra i tanti, che mi farebbe piacere anche altri leggessero:



Libro che mi ha rivelato di aver scritto un romanzo quantistico. L’ho letto pochi giorni dopo aver consegnato alle stampe “Il Quoziente Umano”, che in cuor mio pensavo essere una storia “fantastica”. Mi sbagliavo. E il mio errore derivava proprio dall’ignoranza quasi totale sulla meccanica quantistica, la nuova fisica, che dal 1923 ha superato (e quasi annullato) la fisica classica.

Scritto come un romanzo (a tratti) e poi come un saggio divulgativo, “Helgoland” è la storia di come un ragazzo di quasi vent’anni, su un’isola spazzata dal vento, riesce a venire a capo di un problema di fisica molto complesso. Solo che trovando la soluzione a quel problema, quel ragazzo, che si chiamava Heisemberg, avrebbe rivoluzionato la fisica.

















“Chi semplifica questa complessità, spesso commette una porcata”.
Scelgo questa breve citazione a epigrafe della lettura di un bel libro, appena terminato. Si tratta di “La Frontiera Spaesata” (Sottotitolo “Un viaggio alle porte dei Balcani” – Exorma editore) di Giuseppe A. Samonà, scrittore, traduttore, professore. Un siciliano-romano che vive a Parigi, sogna il Sudamerica e scrive da conoscitore (e amante) di Trieste, dell’Istria, cioè dell’apice nordoccidentale balcanico. Strane appartenenze, che, come l’autore ricorda, “non si subiscono come una fatalità, si scelgono”.

Un libro complicato (a mio parere) da un andamento fin troppo insistentemente indicativo (“svolta a destra” “sali fino alla chiesa” “prendi a sinistra verso la piazza”) che tuttavia riesce a accompagnare il viaggiatore (immaginario o reale) in modo perfetto, tra letteratura, interpretazione, immaginazione, suggestione.
Questa, signori, è geosofia, psicografia, cioè quello che la scrittura dovrebbe essere sempre quando serve davvero a chi vuole davvero viaggiare, conoscere, soprattutto se si reca fisicamente nei luoghi in questione. Un vero libro per viaggiatori, come non ne esistono più, come dovrebbe essere sempre. Dunque un libro, prima di tutto, ben scritto, con uno stile originale, una voce strana e chiara, e poi capace della necessaria inconsuetudine della visuale, tipica di chi ha tanto letto, tanto studiato, ma poi ha dimenticato tutto per far spazio a un’interpretazione. A “ciò che di quel luogo ha sentito e capito”.

Tra le molte cose da scrivere per definire questo bel libro, che non scriverò per necessità di sintesi, ne sottolineo una: la capacità dell’autore non solo di trasferire al lettore l’incanto e il profumo indefinibile (ma dettagliato) della “Porta dei Balcani” sul lato nordoccidentale, impresa già complicatissima, ma di muoversi con equilibrio e piena consapevolezza nell’interpretazione della Storia. Una storia di divisione, di fratture, di sangue, di crudeltà, che ha delle motivazioni chiare, e una propedeuticità. Per capire i Balcani questo libro è utile. E se fossi l’autore ne sarei davvero orgoglioso.

Manderò a Samonà “Rapsodia Mediterranea”, perché credo che sia giusto che il suo libro sia nella mia biblioteca tanto quanto che il mio abbia un’angolo nella sua. E anche per lanciargli (oltre a molti complimenti e una sincera ammirazione) un garbato e affettuoso rimprovero, soprattutto perché l’autore è siciliano, ma non solo: ciò di cui non si capacita Samonà quando trasalisce, ciò che invoca quando esulta, ciò che lo colpisce quando si appassiona visitando e amando i Balcani, dunque tutto il suo “spaesamento” accorato e fecondo… sono cifra distintiva del Mediterraneo, che lui quasi mai esplicitamente collega. I “suoi” Balcani, di cui è bello non saper riconoscere i confini precisi, e che per me sono l’esotico antonomastico delle mie infanzia e adolescenza, altro non sono che uno dei salienti ingredienti del Mediterraneo. E non riuscire a definirne il limite, o averli così sfumati e fecondi da far perdere loro ogni senso di inizio e di fine, semmai di orizzonte permeabile, ne è la più cifrata e inoppugnabile delle prove.
Da leggere.

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Che un belga debba venirci a raccontare il nostro mondo, lo trovo davvero irritante. Ma è quel che capita con questo libro. Anzi, è quel che capita sempre coi grandi autori, che anche quando giungono da un luogo alieno sanno viaggiare, sanno vedere. Soprattutto, sanno raccontare.

Colpisce, di “Il Mediterraneo in barca” di George Simenon, la visione chiara di un mondo diverso. Diverso dal nord Europa, più umano, più resiliente, più semplice, più accessibile. Lo scrittore guarda intorno a sé navigando a vela tra la Francia, l’Italia, Malta e la Tunisia e sembra colpito dalla “ricetta” sociale, psicologica, esistenziale che il sud povero e “depresso” applica alla vita: migliore, più efficace di quella da lui conosciuta.

E il paradosso di questo libro è che oggi tutto sembra passato, non più vero. I motivi d’interesse, i valori del Mediterraneo che decantava decenni fa Simenon, oggi sono quelli che rimpiangiamo, ciò in cui ci stiamo estinguendo. E allora ci viene a mente che se un belga “vedeva”, forse avremmo dovuto vedere anche noi. Se un nordico “apprezzava” il niente ricco e fecondo con cui vivevamo più felici di lui, avremmo potuto valorizzarlo. Antica questione: Pasolini, Bianciardi, Vittorini, Pavese, Calvino, Parise e tanti altri, non fecero lo stesso forse, ognuno diversamente, ognuno a suo modo, ognuno su temi chiave della nostra vita?

Beh, sul Mediterraneo nessuno più del belga Simenon lo comprese, lo scrisse. Ed è un peccato che questo libro, che consiglio, sia venuto alla luce solo da poche settimane (Luglio 2019), almeno in Italia. Perché è uno di quei libri utili, oltre che belli, e direi necessari. Uno di quei libri che fanno capire, che non mancano dunque alla missione fondativa della scrittura: descrivere l’indescrivibile, perché tutti lo colgano.

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Nell’attuale periodo di massima decadenza della cultura marina, nautica, e aggiungerei insulare, costiera, piscatoria etc, capita molto di rado di avere per le mani un libro che possa essere dignitosamente e meritoriamente definito “di mare”. Dove cioè il mare e l’intero mondo che lo circonda e attraversa sia, a tutti gli effetti, il protagonista.
Iancura”, di Paolo Casuscelli, fa da felice eccezione a questa triste norma.

Si tratta di un libro meticcio, rapsodico, narrativo eppure memorialistico, eppure anche saggistico, e costituisce una testimonianza autentica di un mondo in estinzione progressiva e accelerata: la cultura di mare. Scritto assai bene, da chi evidentemente mastica lingua e scrittura, è un racconto tenue, a tratti leggero (per volontà stessa dell’autore) ma mai banale o superficiale, dell’esperienza personale, ma emblematica, di un uomo che ama un’isola, che ha cittadinanza su di essa, che vive la natura marina e insulare di una più ampia (e a me assai cara) “cittadinanza mediterranea”.

Fuori dai denti, senza paura del politically uncorrect né dell’accusa di un certo snobismo, Casuscelli racconta semplicemente ciò che vede: un’isola amata, una personale appartenenza, oggi. Ne emerge un quadro spesso critico, ma a tratti ispiratissimo, del nostro mondo vacanziero, che considera il mare una sorta di massificato e occasionale parco giochi, da vivere nel disamore, distrattamente, con grande sofferenza di chi quel mondo lo percepisce come casa.

Iancura” è il “biancore”, in siciliano. Con questo termine si definiscono certe giornate ferme, quando mare e cielo sembrano quasi privi di un orizzonte e delimitarli (a Genova si chiamerebbe “Makaia”, seppure con lieve differenza semantica). Una condizione sospesa, quasi indefinibile, metafora delle mille e una sfumature con cui è possibile guardare al mare, viverlo, sentirlo. A dispetto da chi il mare lo immagina sempre uguale, quasi un’immagine fissa, da cartolina.

Ideale per gli appassionati di pesca in apnea e per chi fa l’insegnante (l’autore è stato ed è entrambe le cose), consiglio anche questo libro a chi abbia bisogno di respirare un po’ del nostro mondo mediterraneo, quello vero e autentico che ha sempre costituito il nostro orizzonte. Ad esempio a tutti i “cittadini”, come li apostrofa Casuscelli, forse con troppa poca compassione (o forse no). Ma lo consiglio, e assai, anche a chi anela una vita diversa, chi immagina un tempo e uno spazio di diversa dimensione, e per chi ha paura della solitudine, del cambiamento, e soggiace all’immobilismo per non rischiare lo spaesamento. Iancura è un buon antidoto a tutto questo, e credo spinga più di quanto trattenga.

Nel mio personale Parnaso letterario di scrittore, appassionato lettore e marinaio, “Iancura” entra con pieno titolo, recando con sé la voglia di leggere anche altro della stessa penna, e una certezza: che prima o poi incontrerò Casuscelli. Magari su un’isola. Magari col tempo e nel luogo ideali per bere una Malvasia. E chiacchierare.

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Bella copertina…

Il titolo è forse un po’ pretenzioso, con la sua aura esaustiva. E quando te ne rendi conto, lo ammetto, un po’ ci resti male. Forse sarebbe stato più denotativo: “Breviario delle Lofoten” o “Il Libro del Vestfjorden”, visto che l’autore, Morten A. Strøksnes, ambienta in quella porzione nord occidentale di Norvegia la quasi totalità dei suoi racconti. Ma va detto che si tratta appena di un’alzata di ciglia, che dura solo un istante.
Il genere è il non-fiction novel, ovvero un racconto basato su fatti realmente accaduti su cui, tuttavia, si imbastisce “come un romanzo”. E di questo filone, “Il Libro del Mare” è un bell’esempio, più riuscito del cugino “Atlantico” di Simon Winchester. E ha un pregio, che guarda caso è il reciproco del “difetto” suddetto: prende una parte, abita in un porto, non vaga superficialmente nel dovunque, e secerne invece puri liquori settentrionali, sparge effluvi scandinavi, offre sapori precisi su un mare poco noto (almeno per me, che a nord ho navigato solo nel Baltico).
La storia è esilissima: il protagonista Morten, per alcune primavere, raggiunge l’amico artista Hugo e va, con lui, a pesca del misterioso squalo della Groenlandia. Morten non vive alle Lofoten, ma ne è parte elettiva, le capisce e le “sente”. È dunque viaggiatore, un esploratore osservatore, ma non è estraneo al mondo che frequenta, semmai è amante di quel microcosmo, una piccola porzione di mondo terracqueo del tutto peculiare (tutto il Vestfjorden, incluso l’arcipelago delle Lofoten, è grande come metà della Corsica, tanto per darci una misura). E di questo ci racconta, con appena qualche escursione per un altrove che dura appena un istante, subito di ritorno nel suo amato fiordo, ricco di aneddoti, storie, leggende. Gran parte delle quali, noi uomini delle basse latitudini, non conosciamo.
E ci fa impressione ascoltare i racconti sullo Squalo della Groenlandia, grande come lo Squalo Bianco, mostruoso e brutto, misterioso e longevo (fino a 600 anni!), o dei leviatani riportati dalla Storia dei popoli settentrionali di Olao Magno, o delle violente e perenni burrasche, delle maree capaci di inghiottire uomini o intere greggi di pecore. Così come le leggende dei Selkies, gli uomini foca che in terraferma si trasformano in esseri umani normali, o quelle del Draug (curiosa similitudine con Dragut), lo spettro del mare, braccia lunghe, testa a matassa di alghe, occhi “rossi morti”, fantasma di un pescatore disperso in mare. Immancabili, come in ogni tradizione letteraria marina, gli ancoraggi di navi ed equipaggi sul dorso di enormi mostri galleggianti addormentati, che quando si svegliano…
Pagine che offrono la suggestione dell’esotico, quella che è giusto e bello (e raro) che un buon libro ci regali. Voci da un altro mondo, il cui racconto è sempre affascinante perché a tratti pare (a noi uomini del mare) una canzone conosciuta, a tratti suona invece come ignota, spingendo la nostra fantasia un poco oltre sulla superficie del già noto. Ciò che sappiamo del mare non è affatto tutto, anche se lo leggiamo, navighiamo e mastichiamo da decenni, e non solo perché nelle profondità degli abissi si annidano ancora migliaia di segreti inesplorati, e neppure perché certi mari non li frequentiamo abitualmente: ma perché serve sempre e solo un racconto, serve una voce!, per conoscere davvero qualcosa, oppure un saldo principio d’avventura (e d’immaginazione letteraria) per generarsela autonomamente. E questa voce, l’autore del “Libro del Mare”, inequivocabilmente ce l’ha. Libro che, al termine, lascia la voglia di qualcosa ancora, ma che si è felici di aver letto e merita a pieno titolo un posto nella biblioteca di ogni appassionato del mare.

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Oceanografo, ma anche penna in grado di esprimere ottima non-fiction. Dunque un personaggio interessante, il giovane ricercatore del CNR-ISMAR di Venezia Sandro Carniel, sul genere di certi divulgatori anglosassoni, un po’ tecnici (come si deve) un po’ naturalisti e viaggiatori (come si usava) e un po’ narratori (come si spera ogni volta che si apre un libro). Il risultato, così raro, si chiama di solito “divulgazione”, che troppo spesso è solo “volgarizzazione” e troppo raramente “accesso” alla cultura. Anche e soprattutto quella scientifica.

Il suo “Oceani” (Hoepli), vincitore, tra l’altro, del Premio Costa Smeralda per la saggistica, è proprio questo: un libro piccolo ma molto “rotondo”, che offre non una visione di parte, e neppure un troppo spesso inefficace (seppure giustificato) allarme, ma un quadro certo e piuttosto completo di tutto quello che un uomo e una donna sensibili verso il loro mondo devono sapere. Devono saperlo sia per potersi comportare come è necessario, sia perché questo nostro ecosistema muore anche di insensibilità. Ecco perché i saggi e la non-fiction scientifica di qualità, come “Oceani” di Carniel, sono così importanti: non solo perché informano, non solo perché danno dati e notizie chiari e comprensibili, ma perché consentono a tutti di entrare in ciò che un non-scienziato può leggere sulla scienza e consentono di capire quel che serve per “sentire” la terra, il mare, l’ambiente. Sapere non equivale a sentire, altrimenti non esisterebbe la letteratura. Ma per sentire, spesso, bisogna sapere, almeno quando si parla del nostro mondo e chi scrive sa farlo a dovere.

Saluto con buona gioia, dunque, la nascita di una nuova bella penna nel nostro firmamento divulgativo, e attendo Sandro Carniel al varco della sua prossima fatica editoriale.

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Fabrizio De André è uno di quegli artisti da  cui mi sono sempre aspettato la poesia del mare, della navigazione, dei marinai della pesca, del commercio flottante, dei grandi viaggi, dell’orizzonte. E sono rimasto largamente deluso. Come Biamonti, come tutti in questo paese, ha finito anche lui col dirsi più affascinato dal mare che non navigante, più ispirato dal mare che in grado di viverlo e parlarne. La poesia di Faber è quasi tutta rivolta al sentiero che scende verso il mare, o alla città che si affaccia sul mare, o alla mentalità di chi il mare ce lo dovrebbe avere nel sangue e invece quel sangue lo ricorda soltanto (e chissà che da questa nevrosi non derivino tanti dei problemi di Genova). Fatto sta che Fabrizio De André è, come lo definisce Stefano Tettamanti in questo libro, un vero intellettuale italiano del Novecento. Io aggiungerei, senza originalità, uno dei maggiori poeti del Novecento.

Ma data questa premessa, occorre dire di questo libro una cosa molto precisa e piuttosto rara. È quello che ogni libro su un luogo dovrebbe essere. Una città fascinosa, un artista illuminato, uno scrittore che mette insieme il tutto e una fotografa che inchioda luci e momenti dove tacciono le parole. Non manca nulla. Questo, signore e signori, è ciò che io chiamo una Guida. Una vera Guida, con la “G” maiuscola, ben altrove rispetto a quei tragici sottoprodotti editoriali turistici che tutti conoscete. Il genere è quello di “Lisbona” di Fernando Pessoa, solo per intenderci, ma con in più (e non è poco) le immagini fotografiche.

Il protagonista di questo libro è Genova. Fabrizio De André è la voce narrante, il Virgilio che (come pochi altri) può farci immergere nelle viscere di una complessità fatta di sfumature e interpretazioni talmente sottili da risultare quasi indicibili. E grazie al cielo, per quel non detto, ci aiuta Patrizia Traverso, con fotografie talmente “genovesi”, dunque perfette, da richiedere parole a supporto per i lettori non genovesi. E grazie al cielo, per questo, ci aiuta Stefano tettamanti, che invece, oltre che scrittore e grande protagonista della scena editoriale italiana, genovese è.

Dal coro che vi ho descritto emerge un libro inevitabile per chi voglia sentire sul palato e sotto la lingua una città che fa di tutto per negarsi, conquistandosi facilmente il titolo di città meno comprensibile del mondo. E per chi ami così tanto De André da essere in cerca del dettaglio per andare ancora più giù, ecco quello che mancava: il tentativo di osservare, con gli occhi del cantautore e poeta, una città che pochi hanno saputo guardare, ancor meno davvero vedere. Un libro, per questo, completo e riuscito, che informa ma suscita, offre ma senza eccedere, e che per una volta, senza alcun ritegno, definirei bellissimo.

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Ci sono bambini a zigzag – David Grossman

Un po’ Mister Vertigo, un po’ Tom Sawyer, ma con l’immancabile vena di umoristica follia ebraica. Non solo: con una smisurata dolcezza che trapela da ogni personaggio. Una storia che prova a diventare profonda e alcune volte ci riesce, anche solo per brevi frasi, lasciandoti pensieroso. E commovente, tanto da risultare quasi impossibile, per qualunque lettore, non terminare questo libro con gli occhi lucidi.

Ma nel frattempo, un grammelot “finto” poliziesco, o forse ancor più un feuilleton cappa e spada, a tratti, che rapisce per la voce del protagonista, il tredicenne “Nono”, la cui incredulità e smaliziata maturità si alternano insieme a quelle del lettore, che regredisce bambino e poi diventa detective, in una Palestina che una volta tanto smette di essere luogo di scontro e intolleranza, ma palcoscenico di una splendida fiaba.

Ed è questo che mi ha spinto a rileggerlo, dopo aver incontrato David Grossman a Herzliya, qualche mese fa. Mentre dialogavamo lui ha tirato fuori un concetto che trovo profetico e al tempo stesso privo di una risposta plausibile: “Chissà quando nascerà una letteratura ebraica senza guerra… forse quel giorno sarà tutto possibile”. Credo di essermi riavvicinato a questo testo, per rileggerlo dopo quasi vent’anni, perché a me sembrava di ricordarlo proprio così, romanzo sospeso in luogo che era solo sede di domande sui propri genitori, sulla propria identità, sul proprio destino, come qualunque altra terra. E non mi sbagliavo. Quel libro c’è già, caro David, quella letteratura esiste già. Se per questo sia tutto ancora possibile, compresa la pace, non lo so. Lo vedremo insieme

A tutti: da leggere senz’altro. Il prima possibile.

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Istanbul – Michel Peraldi

Un etno-antropologo che non si fa abbagliare dall’esotismo del Mediterraneo, ma ne cerca le relazioni, interessato soprattutto a come gli uomini che ci vivono, vi si incontrano, si scambiano destini, umori, passioni, sperimentino la vita. Un vivisezionatore di monologhi, di racconti di sé, nel caos dei quartieri del commercio della città più tumultuosa e molteplice del Mediterraneo, nella dissonanza dei vicoli più duri e negli interstizi delle vite più rocambolesche e difficili. Una Istanbul completamente diversa da quella di Orhan Pamuk, come nota giustamente Salvatore Palidda nella chiosa al libro, ma che proprio per questo potrebbe essere inserita di diritto tra i due o tre libri imprenscindibili per chi si rechi nella Città delle città.

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Le nostre anime di notte – Kent Haruf

La poesia infinita del darsi qualcosa di vero, di autentico, l’un l’altra. La dolcezza di farsi compagnia, di comunicare sempre, ogni giorno. L’insensibilità della società quanto ti impedisce queste piccole emozioni, questo calore, per i limiti che ha a concepire la vita. L’ineluttabilità del tempo, che non consente seconde possibilità sulla terra. Sono questi gli ingredienti di “Le nostre anime di notte”, ultimo romanzo di Kent Haruf, prima di morire nel 2014. Un romanzo sui nostri bisogni quando non abbiamo più risorse, e dunque su quanto sia prezioso l’amore, se è fatto di comunicazione e compagnia autentiche, non solo di sé ma anche dell’altro. Un piccolo sogno infranto, che lascia languidi e malinconici. Col sentimento tragico di osservare che nella vita di relazione c’è sempre qualcuno che, più dell’altro, inizia e finisce le cose. E questo è terribilmente crudele.

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Bel titolo, nel suo paradosso.

Solo la crisi ci può salvare . P. Ermani – A. Strozzi

Paolo Ermani mi fa incazzare, quasi sempre. E sapete perché? Perché è cocciuto come un mulo, testardo fino a farti uscire dai gangheri, coerente come neanche un monaco buddista, e soprattutto perché ciò di cui parla lo fa. Non riesci a trovargli dei punti deboli, non riesci a prenderlo in castagna, non lo trovi mai con le mani nella marmellata. E se c’è una cosa che fa incazzare, a questo mondo, è la gente come lui. Cioè le stesse ragioni per cui finisci con l’adorarlo e volergli bene. Soprattutto, lo stimi e ne hai rispetto.

Ma mi fa incazzare, sia chiaro. Non condivido un mucchio di cose del suo approccio che a parer mio è eccessivamente radicale (la sua avversione per alcuni vizi, ad esempio, che io adoro umanamente, e anche per i media, che lui guarda con sospetto e io invece penso che vadano usati), approccio che considero vagamente millenaristico, e che non tiene conto di un paio di cosette molto importanti. Sarà che io sono un anarchico nichilista e individualista, che suppongo faccia incazzare lui di me.

Vedo con piacere nella sua ultima fatica saggistica che Andrea Strozzi, cofirmatario, lo piega un po’ ai numeri, alle analisi macro, e trovo che il sodalizio tra i due sia decisamente fervido e produttivo. Mi fa piacere. Quando ho scritto “Ufficio di scollocamento” (Chiarelettere) con Paolo ho sudato sette camicie per evitare che quel libro diventasse un manifesto oltranzista. Dunque massima solidarietà a Andrea, immagino che non sia stato facile neanche per lui.

Va detto, dopo questa premessa, che la mia stima per Paolo Ermani è totale. Vive come scrive e scrive come vive, prima di tutto. E questo, scusate, ma nella fiera dell’ipocrisia imperante non è poco. Soprattutto vive come dice che bisognerebbe vivere da oltre venticinque anni, cioé quando la Decrescita manco si sapeva che esistesse, o quando la fede nelle magnifiche sorti e progressive della crescita non era quasi intaccata dal dubbio. Ne sa davvero tanto di ciò di cui si occupa e solo per la sua assurda repulsione per i media non è diventato un guru contemporaneo (non per le masse, almeno, anche se tantissimi lo considerano davvero un punto di riferimento). Questa di non andare in televisione, ad esempio, è una delle questioni su cui abbiamo litigato più volte.

Ma veniamo al libro. In questo “Solo la crisi ci può salvare” (Edizioni il Punto d’incontro) Paolo e Andrea danno fondo a tutto quello che sanno. Uno ex bancario, l’altro esperto di resilienza e cultura alternativa da sempre, affrontano e smontano i capisaldi della cultura della crescita, dall’alto e dal basso, e ragionano, ove mai ancora possibile, su ciò che eventualmente fosse rimasto fuori dalla vasta letteratura di “Adesso Basta”, che chiamo così solo per farmi capire ma che ha luminari e grandi firme assai maggiori di me e di noi al suo attivo.

Un saggio non del tutto sistematico, che saltabecca tra questioni macroeconomiche e piccoli dettagli contemporanei, e fa bene a fare così, perché quando bracchi un animale in una battuta di caccia non è il tuo percorso che devi seguire, ma il suo. I due cacciatori non lasciano scampo alla loro preda, infatti. Rincorrono l’illogico e l’assurdo delle nostre vite in tutte le pieghe della nostra società, e riescono a catturarlo. Ci spiegano alcuni retroscena del Sistema e di come tutto sommato non sia impossibile, neppure difficile, cambiare rotta. Se non ci trovate dentro troppe cose sull’individuo, sulle sue crisi interiori, sulla sua storia umana di essere mediocre che si dibatte come tutti noi tra destino, aspirazioni e bisogni irrazionali, non vi preoccupate: potete tornare su questo punto ad altre letture. Quello che conta qui è l’ipotesi concreta che questo sia il momento giusto per cambiare vita, per se stessi e per il pianeta. Appuntamento non da poco.

Conosco un mucchio di gente che si sentirà spiazzata leggendo questo libro. E questo, lo so per certo, è l’effetto rivelatore della giustezza di un libro.

Questo libro è da consigliare a tutti quelli che hanno amato e si sono sentiti provocati da Adesso Basta, Avanti Tutta e Ufficio di scollocamento, perché vi troveranno pezzi, pezzulli, pezzoni o pezzettini di ciò che è rimasto fuori da quelle pagine e solo i due autori, con le loro complementari esperienze, potevano aggiungere.

Da mettere nella propria libreria. E già che ci siete, da leggere senza indugio.

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Due viaggi in Rojava raccontati da un autore sufficientemente onesto e acuto

Io non sono un fumettaro. Cresciuto coi fumetti della Marvel (l’Uomo ragno, soprattutto, un po’ innamorato di Gwendalin Stacy), a quattordici anni ho letto “Così parlò Zarathustra” e la mia infanzia si schiantò sulla vita. Fine. Lo dico perché non ho letto questo fumetto per affinità, semmai il contrario: l’ho letto nonostante

Avevo già sfogliato qualcosa di questo autore romano trentenne, come di altri, in libreria. Non mi era parso migliore o peggiore. Certamente dotato, ma senza doverlo memorizzare in alcun modo. Mi riprometto di leggere altro. Intanto ho letto il suo “Kobane Calling” all’ancora in una baia orientale di Cipro, a qualche decina di miglia dalla Siria. Forse anche questo ho il suo peso…

Ad ogni modo: mi è piaciuto molto. L’ho trovato onesto quanto sufficiente (con alcune sbavature di parte), e intelligente più di quanto prevedibile. Ci ho trovato lo slang attuale dei trentenni, le battute e i modi di dire taglienti dei romani (Satura tota nostra est), ho riso almeno dieci volte in modo pieno e profondo, cosa che non ricordo di aver mai fatto almeno dopo la lettura del primo libro di Fantozzi. Ma ho anche riflettuto, ho imparato alcune cose, ho avuto un quadro anche diverso della situazione curda. Il che, se mi consentite, in questa epoca di follia mediatica mediocre e fuori controllo, è moltissimo.

Kobane Calling è il reportage di due viaggi nel vicino e poi dentro il Rojava, stato autoproclamato tra confine turco, siriano e iracheno, dove i curdi hanno liberato una striscia di terra, combattendo contro l’Isis e i suoi tanti occulti e palesi fiancheggiatori, aiutati (proforma o davvero) da alcuni sostenitori internazionali. Ma dove, soprattutto, un popolo di religione musulmana sta combattendo una battaglia civile, culturale, di dignità per impostare un mondo diverso. Rispetto delle donne (uno degli assi portanti della lotta dell’Ypg e Ypj), rispetto di ogni differenza etnica e religiosa, rispetto del nemico e dei morti di ognuno, confederazione democratica tra diversi, coesistenza civile, rispetto per l’ambiente. Tutti temi presenti da sempre nella questione curda, ma oggi più che mai attuali per l’avanzata dell’Isis e il tentativo, strenuo, di resistergli.

Non sono in grado oggi, come ieri, di esprimere giudizi sulla questione curda in senso fondamentale. E parafrasando l’acuto e coerente Lorenzo trombetta, non dimentichiamoci che si tratta di una guerra, e inneggiare questo o quello, pure con buoni argomenti, fa a cazzotti col rifiuto di essa e con la cultura della pace. Tra l’altro, questo errore, lo faccio di rado, anche sulla questione israelo-palestinese o su altro. Bisogna sapere troppe cose, informarsi troppo in profondità, per troppi anni, essere troppo liberi dalle emozioni, prima di parlare senzientemente di cose come queste. E ripeto, per quanto la proposta politica e sociale del Rojava sembri interessante, faccia perfino sognare, quando si parla di assiri e turcomanni, arabi e curdi, turchi e siriani, in quell’area, in questa epoca, parliamo sempre di gente che si spara addosso, che fa operazioni di potere, che sequestra dighe e chiude i rubinetti al nemico. Tuttavia, che in seno alla guerra civile sunniti-sciiti, e che nell’area dilaniata del medioriente arabo tra interessi petroliferi, grandi potenze, sanguinari assassini vestiti di nero, vi sia, secondo infinite testimonianze, un esperimento duro e tragico di costruzione di un modo diverso di convivere e rispettarsi, è notizia da prima pagina, che invece trovo solo (o quasi) in un libro. E quando di un libro si può dire questo, be’… siamo davvero nella condizione di segnalarlo.

Zero Calcare continua a sembrarmi il figlio illegittimo adottato dallo snobismo dei quartieri alti della cultura e dell’editoria romana e italiana che fa i sorrisini di fronte alle parolacce e si fa venire il brividino lungo la schiena nelle cene per bene, dunque non sospendo una mia sostanziale ritrosia verso il fenomeno, ma tutto sommato questo riguarda il salotto, non lui, e tanto meno questo libro, che invece saluto con un plauso incuriosito.

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Copertina… invitante!

Quando finisco un romanzo, soprattutto uno per cui ho letto e studiato tanto, per anni…, ho bisogno di due o tre letture distensive, che mi portino altrove. Un’amica mi ha invece regalato questo libro, sapendo dei miei interessi gastronomico-letterari, e allora l’ho letto. Uno dei tanti “Zenzero e Nuvole”, nati e cresciuti dopo che il mio libello aprì per primo (1995) la strada della relazione tra erotismo, viaggio, storia, e cibo. Qui, in salsa storica, e in ciò sta la sua originalità. Scritto bene, questo libro, con ricette tradizionali e a volte inusitate, girovagando tra ottomani e napoleonici, nelle pieghe di momenti chiave come l’esilio all’Elba dell’imperatore francese, la resa di Granada, i massacri dei conquistadores. Un divertimento dell’autore, esimio professore di storia e buon gourmet (si vede…), scritto bene, con aneddoti gustosi. Può star bene in una biblioteca, a patto che non si consideri il cibo come mero nutrimento. Lo segnalo senza dubbio.

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Citazione da Piperno che farà il suo effetto in libreria

Quattro amici dai tempi del liceo. L’abitudine di vedere insieme i Mondiali di calcio. Un’idea: scriviamo su un bigliettino cosa vorremmo che si realizzasse nei quattro anni a venire, prima dei prossimi Campionati.

Ma non si possono fare i conti senza la vita, senza la fatale Yaara, senza la dispettosa, sorprendente simmetria dei desideri di chi cresce insieme, si vuole bene, oltre ogni ostacolo. Il silenzioso Yuval arriverà a non odiare il brillante amico Churchill, che gli ruberà il sogno? Si può riuscire a non odiare chi ti fa la peggiore bastardata immaginabile e ti toglie tutto ciò che hai? Sì, quando c’è molto di vero in comune, sembra confermare l’autore di “La Simmetria dei Desideri”, l’israeliano Eshkol Nevo. Sì, si può. E forse se non si può vuol dire che è andata bene così, era giusto così, perché il destino esprime sempre quello che c’è davvero, quello che siamo, anche se su quel biglietto d’auspicio avevamo scritto tutt’altro.

Romanzo sull’amicizia, apparentemente, in realtà romanzo sul rapporto che ognuno di noi ha con la conoscenza di sé, con la propria natura ineludibile, col destino che apparentemente scompiglia le carte, mentre in realtà si impegna disperatamente a rimettere in ordine quello che noi facciamo di tutto per confondere. E alla fine, ci riesce sempre.

In un Israele ovattato, Nevo lascia sullo sfondo i clamori delle intifade, degli attentati, dei drammi sociali, e riesce nell’intento, apparentemente irrealizzabile, di riportare l’attenzione su quello che è sempre la nostra vita: un continuo tentare, una Prima senza prove, un esperimento senza possibilità d’errore. Perché per le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non c’è mai una seconda opportunità sulla terra.

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Davis Bonanni, Il buon selvaggio, Marsilio

Copertina orrenda, secondo me. Ma il libro vale.

Vi consiglio un libro: “Il buon selvaggio”, di Devis Bonanni. Ve lo consiglio prima di tutto perché l’autore è un montanaro, della Carnia, ragazzo carino e simpatico, con cui dopo una presentazione insieme a Trieste e una bella serata con alcuni amici e lettori mi sono preso una sbronza degna di memoria. Ricordo che verso l’una di notte, già parecchio alticci, iniziammo a bere grappa e io pensai “ora il montanaro ci mette tutti a dormire”. Dopo un’oretta, quando stavo tutto sommato ancora in piedi, lo vidi socchiudere gli occhi e crollare a corpo morto all’indietro, dove grazie al cielo c’era un letto. Il marinaio non è facile sdraiarlo con l’alcol, ma soprattutto Davis ha molte lune meno di me sulle spalle, e per bere, in certe notti, serve avere esperienza. 

Ma a parte i ricordi personali, vi consiglio il nuovo libro di Devis perché trovo assai cresciuto il suo autore. Dalla timida eppure interessante testimonianza di Pecoranera (sempre per Marsilio) in cui riferiva come avesse abbandonato l’attività di tecnico informatico per mettersi a fare l’agricoltore, registro una sua crescita marcata, il permanere di una fondamentale autenticità e sincerità, la metamorfosi della sua esperienza in coscienza pedagogica. La sera della sbronza mi parve incerto circa l’intento politico della mia testimonianza, e vedo che si è ricreduto. Ottimo segno.

Il libro inizia a pag. 79, cioè dopo un lungo e fin anche piacevole excursus di ordine antropologico botanico. Da lì in avanti le cose crescono, la testimonianza si fa puntuale, i racconti sui suoi compromessi vengono almeno accennati (forse qui sarebbe dovuto essere più dettagliato), e sopratutto usa l’acronimo PIL solo a pag 270, che è già un ottimo segno.

Dopo molti anni ormai, Devis, come me, non ha mollato. Semmai ha accentuato e vivacizzato la sua esperienza di alternativo, il più possibile controcorrente, fabbro del proprio sistema di vita, essere senziente che cerca di capire e agire in concordanza perfetta. Hanno mollato invece i suoi detrattori, come anche i miei. Non hanno avuto costanza sufficiente nel pretendere coerenze, ortodossie e non contraddizioni che loro non avrebbero saputo assicurare per se stessi. Li ha sconfitti l’evidenza: sono passati anni, noi siamo ancora qui, e loro che hanno fatto?

Non condivido molte delle cose che scrive Devis, naturalmente. Il mito rousseauviano del buon selvaggio non mi ha mai convinto, certo come sono che l’uomo sia un essere assai più complesso di quel che lui stesso crede, così come del fatto che la naturalità sia solo una componente della nostra anima universale. Inoltre, sono un marinaio, dunque un nomade, e se amo la terra, amo l’orto, amo la natura, gli alberi, il bosco, non posso abbracciare la filosofia agricola se non come ingrediente periodico della mia natura metamorfica. Tuttavia rispetto chi lo fa. Particolarmente rispetto chi, come Davis, lo fa con indipendenza intellettuale, idee proprie, autenticità, ed è consapevole della portata rivoluzionaria della propria azione. Bravo Bonanni, alla via così.

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Layout 1

Tradotto coi piedi. Ma bello.

Tbilisi, Georgia. Anni Ottanta. Sette ragazzi. E una grande voglia di libertà.

La storia di Dato Turashvili, romanzo tradotto in molti paesi e ancora best seller georgiano, fonte per uno spettacolo teatrale di grande successo, è vera.

Sette ragazzi dotati e talentuosi, che avrebbero potuto trovare una via nel mondo della Georgia soggiogata dal tiranno sovietico, decidono di partire. In gran segreto, e in modo molto dilettantesco, ordiscono un dirottamento aereo, coinvolgendo anche Tina, la ragazza di Gega, incinta di tre mesi e appena diventata moglie del giovane attore che fa da protagonista alla storia. Sarà lei ad evitare il metal detector per il pancione dove oltre al figlio che non vedrà mai la luce della vita nasconde anche le armi.

Ma il Grande Fratello sovietico sa già tutto, e al momento del dirottamento l’aereo inverte la rotta, torna a Tbilisi, viene assaltato dai corpi speciali in quella che viene ricordata come una delle peggiori carneficine della cortina di ferra. Il Presidente Georgiano, Shevarnadze (in seguito “eroe” della Perestroijka con Michail Gorbachov), vuole dare un segnale forte a Mosca e ci va col pugno di ferro. Muore un dirottatore. Un altro si suicida. Decine tra i 58 passeggeri del volo vengono falciati senza riguardo dalle raffiche della polizia. E cosa accade agli altri? Hanno dirottato un aereo, ma non hanno torto un capello ad alcun passeggero. Ma la politica ha altri obiettivi, e non si cura delle conseguenze…

Storia tragica, romantica, appassionata, tradotta malissimo ma piena di simboli che la rendono emblematica. Un documento sulla follia dell’uomo quando pensa di limitare la libertà, che per molte persone, non per tutte, vale più della vita. Un film, che dopo il teatro, speriamo qualcuno giri, prima o poi.

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pescatore d'islanda - Nutrimenti

La copertina più brutta degli ultimi dieci anni.

Di diritto tra i classici della letteratura di mare, questo romanzo ci richiama alla mente un po’ Olmi, un po’ Saramago (quello di “Una terra chiamata Alentejo”). E’ il “Pescatore d’Islanda” di Pierre Loti (viaggiatore, romanziere, radioestesista d’atmosfere esotiche), ovvero un quadro dell’Ottocento. Sapete quei quadri con soggetto rurale, contadini, donne con la cuffietta, covoni di fieno, carri trainati dai buoi, masserie tra il granturco, quelle scene di vita agreste che spiegano più su un’epoca e una società di chissà quanti saggi storico-antropologici? Ecco, un’immagine del genere, ma sulla costa e sul mare. Anzi, sulla transumanza piscatoria tra l’Islanda e la Bretagna, sorta di cammino d’espiazione e di minute, profondissime gioie dove Gaud e Gaos percorrono la loro incerta, sofferta, sublime marcia amorosa.

Una storia d’amore dolcissima, struggente, semplice e al tempo stesso incomprensibile, resa incerta da una solenne promessa fatta al Mare, dalla timidezza, eppure sostenuta da un amore limpido, di quelli che infatti non esistono, ma di cui ognuno di noi ha (chissà perché, chissà come) una latente e interiore matrice, che ce lo fa comprendere, seguire, sperare. Fino all’ultima pagina, quando…

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cop

Copertina fascinosa ma un po’ vista

“Il viaggio del sestante – Storia dell’invenzione che ha spostato i confini del mondo”, David Barrie, Rizzoli.

A volte i titoli non aiutano. E’ il caso del libro di David Barrie “Il Viaggio del Sestante”, che a un titolo fuorviante aggiunge un sottotitolo ancor più erroneo: “Storia dell’invenzione che ha spostato i confini del mondo”. Il testo non è quel che il titolo indica, per sua fortuna, ed è assai migliore della copertina. Anzi, è uno dei libri sulla navigazione che vanno inseriti di diritto e a pieno titolo nel novero dei testi obbligati, cioè dei libri che chi va per mare o ami l’argomento nautico deve necessariamente aver letto. E per molte ragioni, non ultimo lo stile, tipicamente anglosassone, a metà tra l’avventura, il resoconto scientifico, il libro di viaggio. Genere molto poco praticato, dalle altre culture, ma davvero efficace, puntuale, avvincente. 

La prima ha a che fare col titolo, questa sì. Il sestante, così come il cronometro di Harrison, è uno dei pochi strumenti che hanno rivoluzionato la navigazione dell’uomo. Non che non si fosse navigato, e valorosamente, anche prima della fine del ‘600. Ma la possibilità di misurare il mare e la posizione delle isole e delle coste, dunque di poter disegnare il mondo, che scaturì dall’invenzione e dal perfezionamento di Isaac Newton e seguenti, consentì di capire il pianeta, spingendosi fino nei suoi meandri più sconosciuti. Non solo. La navigazione astronomica è e resta un argomento imprescindibile per ogni marinaio che debba solcare il mare con una barca sotto la sua responsabilità diretta, e se anche oggi è stata superata dalla tecnica (tanto da spingere l’accademia navale USA a toglierla dall’insegnamento) è assai bene studiarla, conoscerne almeno gli assunti fondamentali, e rinverdirne i capisaldi di tanto in tanto.

Tuttavia, questo libro voluminoso e ricchissimo ha il pregio di compiere un excursus sulla storia della marineria transoceanica che non può e non deve passare in secondo piano rispetto alle nozioni che approfondisce sulla teoria e tecnica della misurazione astronomica di posizione. Al contrario, ne è l’elemento di maggiore valore.

In scia ai tanti che studiarono e inventarono i metodi per geolocalizzare una barca e le terre emerse, Barrie compie un volo a bassa quota su alcuni dei più grandi navigatori della storia e sulle loro incredibili avventure. Da Magalhães a La Perouse, da Bougainville a Blight, da FitzRoy e dal Beagle all’Endurance di Shackleton, raccontandone avventure, gesta, problemi, aspirazioni, entrando non di rado nella loro mente di marinai eternamente divisi tra spinta verso l’esplorazione, paura, coraggio, fatica, rimpianto.

Come ho spesso sostenuto, navigare è un’operazione intellettuale, per di più complessa, che sollecita l’uomo all’osservazione, all’ascolto, alla misurazione dei dati, alla soluzione di problemi tecnici, alla cura della psiche dell’equipaggio, attraverso le proprie conoscenze e quelle della storia. Troppi e troppo orgogliosamente ne fanno una questione solo tecnica, o peggio solo riferita alla tenuta fisica o al coraggio. Navigare senza conoscere le avventure della Boudeuse o dell’Endeavour, inclusi gli errori dei loro comandanti Bougainville e Cook,  è come essere ciechi e voler andare al cinema: una cosa inutile e insensata.

Ecco perché questo libro va inserito negli imprescindibili. Quel che si può leggere al suo interno contiene molti elementi utili al navigatore. Primo tra tutti il sentimento che lascia nel suo cuore alla fine della lettura: un misto di rispetto e timore verso il mare e i suoi più grandi frequentatori.

Unica (grave) pecca, la voluminosa lacuna riguardo la storia della navigazione dagli albori fino al 1500.

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Il club Dumas

Bel libro per chi cerca storie da cui non puoi staccarti

Pérez-Reverte è la più bella scoperta degli ultimi mesi, e fa l’effetto di quando conosci una persona e ti chiedi come hai fatto a non incontrare prima tuo fratello. Inviato di guerra, autore coltissimo, col sacro fuoco dell’avventura nelle vene, oltre naturalmente a grande amante del mare e navigatore a vela (guarda un po’…). Il suo “Le barche si perdono a terra” (che recensirò) è un concentrato di invettive e rampogne sui valori della navigazione e dell’autentico amore per il mare. Ma si tratta di una raccolta di articoli giornalistici, dunque lascia solo intravedere le capacità dell’autore, e credo andrebbe letto come quarto o quinto libro di questo autore prolifico e dotato di propria voce. Il Club Dumas, invece, è un romanzo compiuto, articolato, ben scritto, colto, ricchissimo, un po’ Codice da Vinci (non fate gli snob…), un po’ Nome della Rosa, un po’ L’Ombra del Vento (altro spagnolo…). Ha dentro il gusto e il culto dei romanzi francesi di cappa e spada, ma la complessità del contemporaneo. Crea un personaggio che, tuttavia, non diventa protagonista unico, a quel che ne so, dei suoi libri seguenti. Con questo romanzo si impara, si spera, si trema, ci si rilassa quando la nebbia si dirada. Romanzo gotico e thriller da bibliofili, riflessione sulla sconclusionata complessità della vita e, al medesimo tempo, avventura godibile e incerta. Pérez-Reverte va necessariamente messo nel nostro scaffale, almeno se pensate che la letteratura debba avvincere pur senza essere di genere e se amate i grandi eroi del passato letterario. Con tutta l’ombra di temibile spirito d’emulazione che sanno proiettare sul nostro presente. Da legge senza alcun dubbio.

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Disegnare il vento. L'ultimo viaggio del capitano Salgari

Titolo splendido.

“Disegnare il vento” è, per ammissione dell’autore Ernesto Ferrero, un “romanzo con personaggi veri”, dunque un’opera letteraria nel senso più alto del termine e della missione. Materiali reali, studiati attentamente, catalogati con precisione millimetrica e sabauda, e storia romanzesca, personaggi che smettono di essere toponimi biografici e diventano vivi testimoni, dotati di occhio e voce. Oltretutto, additivo raro ed essenziale nella letteratura, Ernesto Ferrero è dotato di una magnifica penna.
In nessun altro modo, credo, sarebbe stato possibile scrivere in breve una storia verosimile di Emilio Salgari, uomo e scrittore in cui la mancata biografia genera realismo narrativo, più vero della realtà.
Per uno scrittore e navigatore, ma credo per chiunque, conoscere la storia di Salgari fa precipitare in un baratro d’imbarazzo. E’ giusto amare come per vere le storie meravigliose dell’autore? Oppure è giusto irritarsi sapendo che l’uomo ha mentito a se stesso e al mondo per una vita intera, sostenendo di essere stato un avventuriero, di aver solcato oceani, di aver incontrato pirati, cose mai accadute nella realtà? Cosa conta di più, il piacere del lettore che ama essere ingannato dalla finzione o il dispetto del lettore che pretende per vera la fonte della sua meraviglia? Salgari, in questo, è un autentico italiano, perché non consente di sciogliere il dubbio. Lascia divisi e incerti, mai del tutto di qua, neppure di là. E Ferrero non ci aiuta per nulla a risolvere l’incanto. Se avesse tentato di farlo il suo libro sarebbe fallito.
Invece è molto bello, avvince come un romanzo, spiega l’inesplicabile, fa respirare l’umore di un’epoca e di una famiglia, restituisce tutto l’esotismo salgariano senza sradicarlo dalle pianure e dalle città italiane. Non esalta il grande Salgari, né lo deprime. Non lo svergogna, ma neppure lo cela.
Io sono sempre stato diviso su Emilio Salgari. Come tutti ho amato alcuni suoi romanzi, letture giovanili mai dimenticate. Ma sono anche stato vittima della sua menzogna. Avevo ventuno anni, era il 1987, e viaggiavo per la Malesia, da solo. All’università studiavamo Calvino, il Cinquecento, dunque di Salgari ero stato soltanto fanciullo lettore, non sapevo niente su di lui e le sue meravigliose menzogne. Sulla cartina geografica che avevo nello zaino cercavo Mompracem, Sarawak, Labuan. A chiunque chiedevo che mi parlasse di Sandokan e di Brooks. Ma nessuno li conosceva. Non erano mai esistiti i pirati/guerriglieri della Malesia, gli unici pirati che io conoscessi. Erano un’invenzione. Ero caduto nel tranello salgariano, svelato anni dopo studiando l’autore e soprattutto l’uomo. Tornai da quel viaggio con la spiacevole sensazione dell’inganno e della fiducia mal riposta, e per anni non volli più sentire il nome di quel truffatore. Io che avevo sognato e sperato, che ero stato in ansia, avevo tremato per le sorti di Yanez e dei feroci Dajakki, ero caduto in una trappola letteraria.
Eppure devo molto a quel disincanto. Nella mia carriera di autore, la domanda su quanto valgano realtà e verità verso la finzione, non mi ha più abbandonato. A ogni riga, a ogni pagina, con una consapevolezza impossibile senza la truffa subita, mi sono domandato, mi sono interrogato, ho dovuto ammettere quando “mentivo”, quando far ricorso alla finzione per dire la verità, oppure quando raccontavo, uscendo mai vincitore da quel capestro. Ma ne ero cosciente.
Per le vittime della “trappola” salgariana, il bel libro di Ferrero è un unguento. Genera compassione e rispetto per l’uomo e le mette accanto all’ammirazione per lo scrittore. E’ molto per un libro.

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Vita e morte di Nino Bixio

Diciamo che qui il grafico, per la copertina, non si è proprio sprecato

Sappiamo tutto di Che Guevara e Camilo Cienfuegos. Sappiamo tutto dei Vietkong, di Sendero Luminoso, del Subcomandante Marcos. Sappiamo tutto di Simon Bolivar, della lunga marcia di Mao Tse Tung. Sappiamo tutto perfino di Brave Heart, del Maresciallo Tito e della resistenza antifrancese algerina. Ma non sappiamo niente dei nostri eroi, degli uomini della nostra storia, dei partigiani, ad esempio, dei quali, a parte Pertini (e perché è diventato presidente della Repubblica), sapremmo a stento fare tre nomi. Non sappiamo niente o quasi di Garibaldi (il nome della moglie, certo, o dov’è morto, ma che faceva il marinaio, che fu corsaro e pirata nei Caraibi, che combattè con Josè Martì a Cuba, che fu scrittore di romanzi nautici, ad esempio?). Non sappiamo niente di chi fosse Nino Bixio. Se lo chiedi a qualcuno per strada ti dirà: “è il nome di una via di Milano” o di chissà quante altre città (tra cui la Spezia).

E invece il genovese Nino Bixio è un personaggio da romanzo, che pare uscito dalle pagine del più valente narratore d’avventura. In special modo, è più conradiano lui di qualunque figura  dello scrittore polacco. In lui c’è Kurtz, la Linea d’Ombra, c’è Tiphoon, c’è Almayer. Genovese di nascita, fu mozzo a dieci anni, per l’Atlantico, poi ufficiale e infine giovanissimo comandante di navi a vela. Viaggiò per tutti gli oceani, prima e dopo essere stato il più importante generale italiano della spedizione dei Mille, l’eroe di Maddaloni (sorta di nostrana Termopili in salsa borbonica), il discusso autore delle fucilazioni di Bronte, e poi generale dell’esercito regolare italiano contro gli Austriaci dopo il 1860. Ferito da una palla al petto continuò a combattere, poi si incise col coltello e strappò la palla dalle sue carni con le dita. Lo fa anche Stallone in Rambo, questo invece lo sappiamo tutti. Nessuno invece sa che Nino Bixio fu parlamentare, senatore in odore di ministero, che pronunciò avventati e avveniristici discorsi in aula, e che intravide per primo l’esigenza di navi miste, a vela e motore, per facilitare i commerci intercontinentali. Chissà cosa direbbe oggi, che dopo decenni di motore si sta pensando di ridotare di vele i grandi cargo. Ebbe una visione a dir poco tempestiva di quanto il Made in Italy dovesse essere portato in Oriente, promosso, venduto in modo integrato e unitario. Fece costruire in Inghilterra la più bella e moderna nave dell’epoca, il Maddaloni, che fece scrivere di sé i giornali e seppe affrontare una coraggiosa campagna commerciale durante la quale, a Sumatra, Bixio morì di colera. Le sue spoglie andarono perdute, se si eccettua un mucchietto di ossa di dubbia provenienza che vennero cremate e rimpatriate con adeguati onori.

Bixio fu soprattutto un uomo forte, coraggioso, che senza una lira propria riuscì a dar corpo ed esercizio al sogno di una grande campagna nautica e commerciale. Un uomo, si potrebbe dire, come non ce ne sono più nel nostro Paese, che non piangeva, non si lamentava della propria sorte, ma tenacemente difendeva le sue idee e smascherava il retropensiero dei suoi interlocutori con frasi fulminanti. Bixio fu un italiano prima che ci fosse l’Italia, e lo rimase dopo che smisero di esserci gli italiani. In lui albergavano il professionista, l’uomo capace di tener fede agli impegni, il visionario, l’avventuriero, il patriota, il generale, l’imprenditore. Bixio sapeva le cose che faceva, e aveva tutta la forza per non invocare mai divinità o sconti di giudizio. Come quando navigava, Bixio si faceva il vento da solo. Lo ricordano bene i piloti di Port Sudan e del neonato Canale di Suez, che ricevettero un secco rifiuto quando offrirono i loro servizi per guidare il Maddaloni tra le secche. La sua amata nave, Bixio, la conduceva da solo. Come la sua vita.

Il libro di Mino Milani “Vita e Morte di Nino Bixio”, con lo stile del grande narratore, salva dall’oblio tutto questo, ristabilisce la verità storica di un uomo che Staglieno e Sciascia hanno forse troppo sbrigativamente giudicato come un violento e un irascibile, e restituisce a noi una delle personalità più forti e appassionate della nostra storia recente. Come in un romanzo.

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Promemoria. 15 anni di storia d'Italia ai confini della realtà. Con DVD

Bella faccia da schiaffi. Ma bravo.

Marco Travaglio, “Promemoria”, PromoMusic Books. Libro (con o senza DVD).

Compratelo subito, cercate di evitare che finisca o che vi dimentichiate (appunto…). E’ essenziale che lo abbiate, e che di tanto in tanto lo rileggiate. Serve per non perdere il contartto con la realtà. Serve per ricollocare al centro le cose come stanno, come stavano, per evitare di tornare ad essere benevoli verso qualcosa, qualcuno, che ancora circola, che sta per ricandidarsi, che non ha mai smesso di farlo, che deve essere disprezzato senza sconti. Serve, soprattutto, per ricordare che il motivo per cui il nostro Paese è in bancarotta, non è un fulmine sulla Banca d’Italia o l’eredità di un’onerosa (ma inevitabile) Guerra Fredda, bensì il risultato del sistema delle tangenti, cioè della politica malata. L’economista Mario Deaglio, nel 1992, calcolava che il sistema Tangentopoli costasse ai cittadini intorno ai 10 mila miliardi all’anno, generando un indebitamento pubblico tra i 150 e i 250 mila miliardi, con 15-25 mila miliardi di relativi interessi annui sul debito. Per questo, esattamente per questo, il rapporto debito-pil è al 60% nel 1980, al 70% nell’83, al 92% nell’87, al 118% nel ’92. Cioè, appunto, la bancarotta.

Se avete problemi col lavoro, se la crisi vi strangola, se le tasse sono alte, se i servizi pubblici sono mediocri, se non potete permettervi una casa, se siete incerti nella valutazione della politica, se vi sembra che il nucleare sia una follia, se siete incerti tra speranza in un’Italia migliore e disperazione, avete bisogno di un Promemoria per ricordarvi come sono andate le cose. Un libricino di poche pagine in cui si capisce bene come stavano le cose: potevamo essere tutti al riparo dalla crisi oggi, avere tutti un lavoro da 5 ore al giorno, tutti una casa, servizi efficienti, un Paese ordinato, pulito, senza spazzatura nelle strade, senza neppure il bisogno di pensare al nucleare, senza inquinamento. Se questo non è avvenuto è colpa nostra, solo ed esclusivamente colpa nostra: abbiamo aperto la porta a un paio di generazioni di ladri, che sono entrati cortesemente e ci hanno depredato. Senza lasciarci niente. Neppure la memoria.

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Se Iperborea pubblicasse italiani io pubblicherei con loro. Lo dico sempre alla sua proprietaria…

Joe Speedboat – Tommy Wieiringa – Iperborea

Se non ti innamori del protagonista di una storia di ragazzini che crescono insieme, affrontano la vita, si schiantano sulla realtà, cercano di farcela… di chi ti innamori? Se poi il narratore è finito sulla sedia a rotelle, non può più parlare, può solo fare tornei di braccio di ferro e adora il suo amico Joe Speedboat, emblema dell’intelligenza, delle doti, della libertà, dell’anticonformismo, della volontà e del dinamismo, come fai a non seguire la storia con partecipazione? Se in mezzo ci finisce PJ, ragazza splendida, venuta dall’Africa, amata segretamente dal protagonista, avuta da tutti tranne che da lui, che conserva un segreto, quasi un diabolico progetto esistenziale, come fai a non cercare di capire come finirà? Tra Salinger e Auster, con qualcosa di esotico trapiantato nel nord, questo romanzo avvince e fa sorridere, strugge e fa trasalire. Dunque, un gran bel romanzo.

La copertina di Ada d'Ambra

La copertina di Ada d’Ambra

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3 pensieri su “Libri di altri

  1. Simoneeee…..che figata….una selezione critica di libri fatta da te: vere chicche la storia del sestante e il testo di Franco Cardini; di Zerocalcare invece conosco teneramente tutta la sua produzione, però quando qualcuno mi fa uscire fuori quelle sonore risate (che anche tu hai esperito) azzero ogni altra considerazione critica…
    Cmq domani grazie a te faccio un salto da Feltrinelli….

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