Il Ritorno

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Un molo

Vieni via. Senza motivo apparente, anche solo per fare un gesto. Sei stato troppo tempo dove non dovevi. Torna a casa, quella che non hai mai ritrovato. La casa vuota e mai vista che attende il tuo ritorno. Lascia gli ambienti vuoti che non ti appartengono, porta con te solo lo stretto necessario, troverai tutto quello che ti serve dove stai andando. Non è la tua casa, forse, la meta? Il fatto che tu non l’abbia mai frequentata, non cambia le cose. E non avvisare. Non spiegare. Non raccontare il tuo itinerario. Nessuno che abiti le stanze vuote può capire il tuo ritorno, e nessuno ti seguirà. Né ti mancheranno gli amici. Li incontrerai, nuovi eppure già conosciuti, adatti come mai prima a incrociare il tuo viaggio. Vivono là dove non sei mai stato, camminano per le tue vie sconosciute, che dovevi conoscere, così nuove e prive di incognita. Senza bagaglio, solo, potrai finalmente impossessarti di ciò che è tuo, provare la sensazione dell’appartenenza.

Non pensare al ritorno, perché un ritorno è impensabile. Si può tornare dopo che si è partiti, non dopo. Potrai salpare, invece, finalmente, perché per muovere serve un porto d’armamento. Per questo i tuoi viaggi sono sempre parziali, sempre illusioni. Prima, devi cercare la casa. Quando l’avrai trovata, potrai andare.
Vieni via.

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Quello che dovreste…

L’ho già scritto, ma lo ripeto, perché vedo che ce n’è sempre più bisogno: “Quello che c’è si vede. Quello che non si vede, non si vede perché non c’è”. Ecco un mantra chiaro, semplice, verificabile. Ripetiamocelo, convinciamocene. Basta col mondo che dice cose che poi non si vedono. Basta con la gente che dice cose che poi non sa fare. Quando uno non sa fare qualcosa deve ammetterlo, e ritirarsi, per quanto doloroso possa essere. Smettiamo di dire cose che poi non avvengono. Smettiamo di sognare i sogni impossibili, irrealizzabili e soprattutto inadatti a noi. Smettiamo di credere che quello che diciamo (o ci viene detto) è vero nonostante non lo si riscontri nella quotidianità, nella pratica, nella concretezza salvifica dell’azione, delle parole dette, dei gesti, dei toni, delle decisioni.

Credetemi, quello che c’è si vede. Se non vedete qualcosa, è solo perché non c’è. Non vi dite stronzate tipo “c’è, lo so, ma adesso, in questo momento specifico, non si vede… Ma vedrai che…”. Non credete all’invisibile, all’incredibile, non datevi giustificazioni, non giustificate. Vi state mentendo. State perdendo tempo. Non state facendo quello che dovresteBasta con le cose che non si manifestano. Sapete perché non si manifestano? Perché non ci sono. Fine.

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Fuori

I miei libri hanno una funzione sociale, sono utili. Ecco uno dei loro tanti, possibili impieghi sperimentato su Mediterranea

Quando c’è qualcosa di grosso nell’aria, la dinamica della comunicazione (qui, come altrove) finisce con l’essere sempre la stessa: prendere un filo del discorso e stressarlo per vedere dov’è il suo punto di rottura. Si chiama gioco a rompere, ovvero il tentativo di inceppare un ragionamento che, se funzionasse, se non avesse bachi grossi, potrebbe chiamarci all’azione, a cambiare la nostra vita. Che è una cosa molto faticosa, con un premio altissimo, che implica coraggio, fatica, energia, tenacia.

Faccio tre esempi, ma potrei farne mille.

1) LAVORO: ma cos’è veramente smettere di lavorare? E’ possibile farlo del tutto? Chi può e chi non può? Alla fine la verità è che non si può DAVVERO SMETTERE. Dunque smettere di lavorare è impossibile;

2) LIBERTA’: ma chi è davvero ibero, ma si può essere davvero liberi? Nessuno è mai davvero libero, la vera libertà non esiste;

3) SISTEMA: si può essere fuori dal Sistema, fuori dalle sue regole e logiche? In fondo siamo comunque tutti dentro, anche se ne siamo ai margini, no?! Ecco: nessuno può davvero essere fuori dal Sistema, chi ci prova in realtà lo sfrutta. E via così…

Morale: non si può smettere di lavorare, la vera e totale libertà non esiste, dire che si può uscire dal sistema è una chimera.

“Meno male!”, circolava la tragica notizia che ci fosse qualche speranza, che ci fosse da faticare, farsi un mazzo tanto e poter vivere meglio. Noi, tutti noi salvo rarissime eccezioni, siamo terrorizzati dall’ipotesi che ci sia molto da fare per poi poter vivere meglio, e ancor più che a fare dovremmo essere noi, proprio noi come individui. L’ideale è: stare tutti maluccio, nessuno escluso, e che sia colpa d’altri, non nostra, ma soprattutto che non ci sia nessuna possibilità di cambiare le cose nostre e altrui e trovare qualche buon elemento per smontare chi ci prova con le definizioni, i sillogismi, le controdeduzioni.

Qualcuno mi ha chiesto cos’è ESSERE NEL SISTEMA. Ecco, è ragionare così. Cercare tutti i motivi (logici, culturali, pratici…) per NON agire, adesso, sotto la nostra responsabilità individuale, e dunque NON FARE TUTTO QUELLO CHE POSSO (Adesso!) per essere fuori dalle logiche omologate, per essere il più libero possibile, il meno assoggettato possibile alle regole del lavoro-guadagno-consumo-spreco-inquino. Essere FUORI DEL SISTEMA è l’opposto: inceppare il meccanismo con la volontà, con l’immaginazione e l’azione, dire NO dove ci si aspetta che diciamo SI’. Fare altro, che nessuno si aspetta da noi. E’ industriarsi in ogni modo possibile, sfuggire alla disperazione del “non si può”, alla miseria delle dimostrazioni capziose per sostenere che chi ci sta provando bara, o almeno mente. E’ sentirsi un testimone che se fa e poi dice quel che ha fatto, FA POLITICA. Quella vera: 1 uomo=1 movimento.

Gino Strada nell’intervista che gli feci per Un’Altra Vita (RAI5) diede un saggio del pensiero opposto a questo: “La gente mi dice che sono pazzo, che è impossibile curare tutte le vittime delle guerre, ma io rispondo: cominciamo a curarne uno, questo qui, poi un’altro, poi un’altro ancora. Oppure mi dicono: è impossibile che sulla terra non ci siano le guerre, ma io dico: cominciamo a non fare questa di guerra, poi anche quell’altra accanto…”

Quando ho migliaia di chilometri da fare, che posso davvero fare verso una meta, devo farli. Se non voglio farli, se quel viaggio mi spaventa, cercherò certamente di stabilire, prima di muovermi, che la meta è irraggiungibile, e che dunque non vale la pena partire. Io invece, su questi argomenti, la penso come Gino Strada: dato che ho tantissimo da fare per tentare la via della libertà, dell’uscita dal sistema, del rifiuto del lavoro-capestro com’è configurato oggi, del rifiuto delle logiche del consumo così come mi vengono imposte, cambiando mobilità, inventandomi strumenti per vivere diversamente casa, riscaldamento, cibo, tempo libero, relazioni… inizio il prima possibile e faccio tutta la mia parte, che è enorme e che durerà una vita intera, avendo risultati straordinari. Se non la faccio, se non copro la distanza che mi è consentita, non ho neppure diritto di lamentarmi. 

In questo modo rispondo anche a una domanda che nessuno mi fa (le domande più interessanti non me le fa mai nessuno, mannaggia… Avrei un mucchio di cose da dire!), e che invece io mi faccio quotidianamente: dato che sono venuto al mondo senza volerlo, che non ho ricevuto in dote un manuale d’istruzione, che per di più tra relativamente poco tempo morirò: cosa posso fare nel frattempo, come posso dare senso e dignità alla mia vita, come posso cercare di contribuire, per conseguenza, alla vita del mondo intorno a me attraverso una testimonianza? Alla sola ipotesi di passare il tempo che mi è dato lamentandomi e non tentando, cercando di smontare il lavoro di chi ci prova, mi sentirei morire…

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Fuori

 

Arrivano i primi commenti. “Bello come descrivi l’animo umano…” “Bella la trama, piena di cose…”. Qualcuno mi dice “Un Codice da Vinci alla marinara” (che sembra quasi una pizza…). E’ indescrivibile l’alchimia tra autore e lettori. Ognuno coglie quello che vuole. Ognuno legge il SUO romanzo, non il mio. Un libro è riuscito quanto più i lettori ci trovano dentro quello che l’autore non voleva scrivere, o non sa di aver scritto. Per me “L’Equilibrio della farfalla” è una storia sul limite, sulla frontiera, sul confine da superare o da non oltrepassare. Un romanzo sull’equilibrio tra violenza e resistenza, tra entrare e uscire, tra perseverare oppure ammettere il fallimento. Per molti vedo che è una storia d’amore, per altri una storia sul cambiamento. Poi c’è Silvia… personaggio che meriterebbe una storia tutta sua, come protagonista. Forse, un giorno….

Pomeriggio sarò in tv sul canale svizzero. Poi presentazione a Bellinzona. Domani… il giro prosegue. Alla pinacoteca di immagini devo aggiungere Roberto, il giovane ed energico presidente di Slow Food, con la voce da baritono, Fulvio, che non vedevo da forse quindici anni, e Massimo, il giovane assessore incontrato con Giovanni Soldini. Ma prima c’è ancora tanto, luci, una smorfia sul viso, un cane. Cosa avrà pensato il cucciolo di gatto brado che ho preso in mano e che si dimenava come un tarantolato? Cosa penserei se un gigante mi prendesse di peso e mi alzasse a venti volte la mia altezza da terra?

Tra poco più di quindici giorni finisco di viaggiare e presentare. Accumulerò ancora immagini di questo tour, prima di ritrovarmi nuovamente nella quiete. Ci sarà da girare il programma, poi preparare la barca e salpare. Il tempo corre troppo veloce. Non lo sentite come corre? Bisognerebbe rallentarlo. Oppure uscirne. E’ possibile uscire dal tempo? L’ultima volta che ho fatto una domanda simile, su facebook qualcuno ha commentato: “ma che roba si fuma questo?”. Eppure era una domanda importante, una delle cose a cui penso di continuo. Quante domande ci facciamo, pensando che siano domande comuni, e pochi, invece, pochissimi le condividono? Fuori dal tempo, c’è qualcuno come me, come noi? E chi è?

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