Il silenzio del mare

Il mare non è mai né troppo né poco. Dipende dalla barca, dall’equipaggio.

Previsioni meteo: onde di tre metri, vento neppure troppo. Tutto da ovest, e noi salpando da Beirut avremo prua a sud. Sono cambiate, doveva essere tutto più tranquillo. Uno scenario comunque “potabile” per navigare con una imbarcazione come la nostra, anche se mentre controllo la meteo mi viene subito una domanda: “perché?”. Quello che insegnavo nei corsi per comandanti (ne ho tenuti per anni, ora “insegno” gratis quel che so su Mediterranea, a chi ha voglia di ascoltarlo) è sempre questa domanda semplice: “perché?”. C’è un motivo imprescindibile per navigare con condizioni più dure? Chi sale a bordo oggi, domani starà male, i meno esperti si spaventeranno, forse… Ma ho qualche urgenza vera, anche solo, che so, un aereo da prendere? No. E allora non si salpa. Tutto rimandato di 24h, anche perché alle 15.00 di domani c’è l’inversione, e da lì comincia pian piano a calare.

Penso ai morti di Rimini, velisti per mare con condizioni dure, il tentativo di entrare in un porto aperto a bora. Non so come siano andate davvero le cose, i giornali dicono solo che sono usciti col forte e hanno tentato l’atterraggio in un porto che tutti sanno essere pericoloso con quel vento e quel mare. Forse un’avaria? Non ho abbastanza elementi per giudicare. Però mi chiedo: perché? E mi torna in mente Andrea Doria, che si rifiutò di prendere parte all’assedio di Tunisi, dunque disse “no” al più potente imperatore cristiano, da cui dipendeva in tutto e per tutto, Carlo V, perché “a ottobre, a sud, si rischiano le mareggiate”. Carlo era giovane, ancora acerbo e arrogante, e volle andare senza di lui. Fu un massacro. Ma a uccidere metà dell’esercito e a distruggere due terzi delle centinaia di navi della flotta non furono gli ottomani, i berberi e gli arabi. Fu il maestrale.

Umiltà, paura, rispetto. Queste sono le mie regole quando navigo. Dal giorno in cui, in piena libecciata a nord di Ille Rousse, sentii la voce del mare (la sentii davvero…) gli chiesi: “cosa vuoi da me?” e lui mi disse cose che forse un giorno racconterò. Stipulammo un patto, che vale ancora oggi, dopo tanti anni. Il mio “Patto con il Mare”, che mai infrangerei, neppure sotto tortura. Le morti di Rimini rattristano, perché la morte è nera e orribile, soprattutto quando avviene in mare. Ma anche amareggiano. Il nostro Paese ha dimenticato il rispetto, la cura, la considerazione del mare, nonostante abbia la più antica tradizione marinara del mondo (gli inglesi navigano, diciamo così, dalle metà del XVI Sec). La nostra società ha dimenticato la natura, la cultura di chi non sfida, di chi china il capo di fronte all’enormità. Non siamo più umili, solo frasi nervose e arroganti, tutta fuffa, chiacchiere, finto rispetto, finto cordoglio, finta saggezza. Col mare si fa l’amore, non lo si sfida per mostrarsi più forti. E se c’è forte si sta in porto. Bisognerebbe gridarlo e testimoniare, giocandocisi anche la faccia se necessario, per spiegarlo a chi non lo sa, per far ragionare chi ne ha bisogno, per far insorgere il dubbio in chi ha troppe certezze, per invertire l’ago con una preziosa controcultura del mare. Mi piacerebbe sentire in questi giorni un coro di marinai rispettosi del mare che colgono l’occasione per farlo, senza temere conseguenze o nascondersi dietro le buone maniere o i fatti propri. Morire in mare è orribile. Il silenzio, talvolta, anche. La solitudine delle idee, sempre.

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Nei suoi venti

 

Porzione di copertinaScrivo ormai dalle 6 alle 18, pausa breve, o dalle 8 alle 19, come oggi, e presto dovrò iniziare anche la sera. È durissima, mi fa male tutto, non sto più neppure andando a correre. Ho gli occhi in fiamme, le spalle che quasi non le sento più, le dita delle mani anchilosate. Nella testa parole che si schivano, l’angoscia di una ripetizione, il terrore di quella frase che non va, non torna, non viene.

Rais chiede questo per nascere. Vuole sudore, sacrificio, vuole vedermi piegato, capire quanto reggo, fin dove sono disposto a spingermi. Rais vuole vedermi in burrasca, osservarmi che governo col forte. Vuole vedermi ferito, in ginocchio, senza equipaggio, vele che stanno per cedere, senza cibo, senz’acqua.

L’ho sfidato io, non posso neppure lamentarmene. Io ho voluto osare quel che non avevo mai tentato, spingermi per un oceano così immenso, senza carte o strumenti, dovendole disegnare io mentre navigo, semmai. Il rais è duro, violento, abituato allo scontro, e sono nelle sue acque, nelle gole dei suoi venti. Conosce le baie, i ridossi, sa dove fuggire mentre io navigo alla cieca.

Non immaginavo, non credevo di rischiare di soccombere. Le parole sono le mie, la storia è la mia, pensavo. Ma non è così. Un ammutinamento, ben presto, mi ha tolto il comando. I personaggi sono fuggiti di notte, lasciandomi senza battello di servizio, senza armi, si sono impossessati di una galera veloce, hanno issato vela. Sono dovuto salpare, rincorrerli per ogni isola, per canali, mari interni, tener dietro alla loro folle corsa, perlustrando porti, insenature.

Ora sono giorni, settimane, mesi che li tallono. Cercano di darmi i rifiuti del vento, di coprimi quando è debole, spingermi in altura se sale. E sta arrivando la notte decisiva

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