Quello a cui le donne non pensano

“Il piacere femminile è un tabù”. Aurora Ramazzotti dixit. (Signore, prendi me, immediately!)

Ma come un tabù…? Sono decenni che non si parla d’altro!
Attendiamo ancora un libro, o qualche testimonianza almeno, sul piacere maschile, di cui invece non si è mai iniziato a parlare. Per primi gli uomini non ne parlano, anche se potrebbero raccontare infinite storie, alcune anche esilaranti (altre piuttosto tristi…).

Delle donne, dei vari punti G, delle anatomie, dei tempi, dei modi, dei diversi piaceri, orgasmici, non orgasmici, vaginali, clitoridei, della sofisticata oscillazione circadiana e mensile dell’eccitazione, della grammatica dell’approccio, di quella durante, di quella susseguente, della fenomenologia sessuale nel suo complesso, sono stati scritti camion di libri, sono stati fatti infiniti simposi, seminari, incontri…. e aggiungo “grazie al cielo”, naturalmente, perché c’era e c’è sempre un enorme bisogno di approfondire per conoscere e per capire la complessità dell’altro. E esiste, come ben sappiamo, una profonda complessità dell’essere donna.
Poi però bisognerebbe sfatare l’immagine che le donne hanno (più precisamente, le femmine, perché riguarda anche le giovanissime) degli uomini, che come si sa è (mediamente…) quella di meccanicistici animaletti tetragoni, monocigliuti, trinariciuti, cioè esseri primordiali, semplici, a cui va bene tutto “basta che…”. Le donne che conoscono l’anatomia del piacere maschile si contano sulle dita di poche mani. Chiedessimo a una donna “sai qual è il punto del piacere del tuo uomo”, avremmo risposte confuse, cincischi, e forse perfino qualcuna discuterebbe la domanda. Le donne che si preoccupano del piacere maschile avendo la capacità di riconoscerne l’intensità, le tipologie, i tempi, gli effetti… sono anche meno.
Io (e con me un esercito di uomini silenziosi, che non hanno ancora capito che bisogna parlare, se si vuole essere percepiti) NON SONO una specie di sex-machine dove metti la moneta e parte la musica. E soprattutto, c’è per me (e per tanti) una differenza abissale tra la musica che piace e quella che fa solo rumore. Abbiamo una complessità vasta e articolata, anche noi, che le donne lo sappiano o lo riconoscano oppure no, e che noi stessi lo sappiamo riconoscere lo sappiamo raccontare oppure no. Dunque siamo, nella migliore delle ipotesi, almeno correi. Anche se, partendo dalla propria complessità, le donne un sospetto di una nostra complessità bisognerebbe che lo avessero. A meno di non essere convinte che donna=ricco/articolato/complesso e uomo=banale/semplice/streotipato. E purtroppo lo dico per paradosso ironico, perché ahimè è proprio così ancora.

A ogni modo, articoli come questo a me fanno l’effetto di leggere la cronaca politica ai tempi di Tanassi. Roba vecchia, di cui si è parlato tantissimo, sostanzialmente trita e ritrita. Mentre c’è molto da dire ancora, in campi sconosciuti, ma a nessuno viene neppure il dubbio che esista.
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Dati e fenomeni

La domanda finale...

 

Uno dei maggiori esperti di comunicazione che abbia conosciuto, e che fu mio maestro, era solito scendere in strada per chiedere ai passanti cosa ne pensassero di questo o quel problema che dovevamo analizzare. Gli vidi fare quel teatrino anche sotto l’ufficio della multinazionale dove lavoravamo, all’uscita da una riunione in cui avevamo appena commissionato una ricerca costosissima e assai articolata. Un mese dopo, alla presentazione dei dati, li confrontai con quelli che aveva scritto a penna su un foglietto, risultato delle domande fatte ai passanti. Alzai lo sguardo. Dall’altra parte del lungo tavolo riunioni, il grande esperto di comunicazione mi sorrideva. Erano quasi identici.

In molte altre occasioni, quando lavoravo, ho ripetuto il test fai-da-te per poi confrontarlo con i dati raccolti in modo scientifico: malgrado gli errori, la tendenza emergeva sempre con chiarezza. Per questo ho voluto fare un piccolo sondaggio sul tema che mi interessava, la “scomparsa” degli uomini, e l’ho diffuso attraverso la mia pagina Facebook e qui sul blog. Hanno risposto circa 500 donne, per il 95% tra i 30 e i 50 anni, per il 45% per cento nel Nord Italia, per il 30% nel Centro e per il 25% nel Sud e isole. Nessuna pretesa scientifica, naturalmente, ma molte cose interessanti.

I dati per esteso di questo sondaggio li ho inseriti e commentati nel mio libro-inchiesta “Dove sono gli uomini?” (Chiarelettere). Qui mi soffermo soltanto sulla domanda finale, che suona come un tragico plebiscito. Quel che emerge, lo ripeto ancora, non è una fotografia con dati scientificamente attendibili, e neppure l’immagine di come siamo veramente. Un messaggio tuttavia ce lo manda, forte e chiaro. Qualcosa che a me, uomo tra 30 e 50, fa un po’ incazzare, e comunque riflettere.

La domanda era: «Definisci gli uomini tra i 30 e i 50 anni che conosci o di cui senti o sai attraverso amici/amiche e/o i media, con un aggettivo (massimo tre)». La lista era lunga, suddivisa in egual misura fra positivi e negativi, l’uno l’opposto dell’altro per evitare preferenze automatiche o involontarie.

I più votati, e di gran lunga sugli altri, sono stati «non in evoluzione», «impauriti» e «dipendenti da famiglia e altro». Queste tre definizioni hanno letteralmente sbancato il sondaggio con percentuali bulgare. Subito dopo non compaiono aggettivi positivi, ma «insoddisfatti» e «immobili». Per trovare il primo timido aggettivo in controtendenza si deve andare molto in giù nella classifica («dotati di una grande passione», che solo una donna su sei ha indicato).

Che conclusioni dobbiamo trarre da questo sondaggio per nulla scientifico e del tutto parziale? Forse nessuna, o forse molte. Ognuno potrà farsi una propria opinione. Certo, questo lungo elenco di aggettivi negativi fa effetto. Se non suona come una campana a morto, poco ci manca.

Eppure, ciò che mi ha colpito di più in tutta questa storia, non è il singolo dato, ma un fenomeno: la mobilitazione delle donne sul web il giorno in cui ho messo in rete il questionario. La loro reazione è stata sorprendente, impetuosa, tanto nei toni quanto nell’argomentazione. A pochi istanti dalla pubblicazione fioccavano già le prime risposte. Non solo. Arrivavano messaggi da tutte le parti: chi non capiva come rispondere, chi voleva sapere se a 51 o 29 anni potesse comunque partecipare (c’era scritto «riservato alle donne tra i 30 e i 50»), chi scriveva in pubblico per dirmi «era ora, parliamone!» oppure «mi raccomando, vogliamo vedere i dati, alla fine!».

In tanti anni di onorata partecipazione alla rete non avevo mai visto una notizia, un link o un tag accolto con un calore e una simultaneità simili. Per settimane e mesi, fino a oggi, ho continuato a ricevere, a ricerca ormai chiusa e a dati già analizzati, questionari fuori tempo massimo, che per forza di cose non sono rientrati nelle elaborazioni citate. Molte delle donne a cui era giunto il link attraverso le loro amiche mi hanno scritto per sapere chi fossi, perché facessi un’indagine così e che cosa stessi preparando. Volevano seguire. Molte hanno capito che stavo scrivendo un libro su questo argomento. Mi chiedevano quando sarebbe uscito! Alcune di loro mi hanno sollecitato a pubblicarne un estratto in anteprima.

Essere visto così, come molte ci vedono, non mi piace per niente. Non mi piace neppure che a noi serva una domanda, un sondaggio, un articolo, un libro… per renderci conto della “fame” di dialogo delle donne su questi punti, e delle loro profonde perplessità. Essere in difficoltà è già penoso. Distratti e lontani, non va per niente bene…

 

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