Tentare la diversità

Qualcosa sul senso del nostro infinito combattere, anzi, sulla sua insensatezza. Cambiare vita. Smettere di opporci a tutto, fare pace con il mostro che ruggisce dentro. E soprattutto, tentare la diversità, per conoscere le nostre molte identità. Cambiare.

Da Rais (Frassinelli), durante la presentazione alla Libreria “Il Mare” di Roma. Buon ascolto.

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Arboricoli

Meno male che poi guardo il prato

Periodo di crescita e di riflessioni. (Crescita: quando in ciò che non ti piace cerchi i tuoi errori, e rinunci alla tentazione di chiamarli torti subiti). Soprattutto su un punto: la deformazione della realtà, cioè tutte le volte che ho avuto la tentazione di vedere solo il lato migliore delle cose, o delle persone, cieco sul resto, e poi la tentazione opposta di vedere solo il peggiore, cieco sul resto. Capita con le amicizie, gli amori, il lavoro: prima meraviglia, dopo delusione e rancore. Quella cristiana (o quel cristiano, o quel progetto) non erano santi prima e non sono demoni adesso, sono esseri umani, progetti fatti da umani… peccato che facciamo di tutto per non vederli (cioè per non vedere noi stessi in loro). Polarizzare il giudizio su qualcosa (tutto buono e poi, dopo, tutto cattivo) è una forma di menzogna grave. La peggiore, quella detta a noi stessi. Occhio, dunque, quando diciamo che qualcuno mente o ci ha delusi: credere a qualcosa di diverso dalla realtà (cioè solo a qualcosa che vediamo, non anche al resto che vediamo ma non vogliamo cogliere) è mentirsi a prescindere che ciò che vediamo sia vero o no.

Ieri un amico (molto saggio e consapevole) mi ha ricordato quando un giorno, a bordo di Mediterranea (Mediterranea è soprattutto un esperimento sociale, a bordo si fa una specie di autocoscienza in continuo, 24hxday), aveva cercato di spiegare questo concetto a due amici comuni, un ragazzo e una ragazza. Non ricordavo quell’aneddoto, ma discussero a lungo sul tema della responsabilità. I due non capivano, o comunque non accettavano, come tutto (ma tutto eh, non qualcosa soltanto) sia la proiezione di ciò che vediamo, sentiamo, determiniamo agendo. Tutto (qui di solito scatta l’iperbole per difendersi: “eh sì, tutto… e se ti prende un fulmine?!”. Quando qualcuno per spiegarci quel che dice ricorre all’iperbole ha matematicamente torto. Le cose vere si spiegano senza iperboli). A distanza di anni, tuttavia, le cose si vedono chiaramente. Cosa è accaduto? Piccolo dettaglio: essendo passati anni dobbiamo assumere che: 1) il tempo è trascorso e non torna; 2) se almeno si è capito qualcosa il futuro sarà migliore; 3) se la si pensa ancora così siamo malmessi.

Sulla quarta del mio primo romanzo c’era scritta una sola frase, citazione dal testo: “Una sola vita non basta”. Era stata scritta per significare tutt’altro, e cioè che siamo molteplici e non riusciamo a compierci vivendo una sola delle nostre vite (poi dici: da dove viene “Adesso Basta?”, ecco… diciamo: da molto lontano). Ma oggi la rileggo anche in altro modo: in una vita non si fa a tempo a compiersi sulle dinamiche principali, quelle da cui deriva benessere e malessere. Figuriamoci sul resto.

Trovo solo noioso e avvilente che si debbano ancora dire queste cose nel 2017. Finirà che considererò il mondo diviso in due: da un lato la (poca) gente normale, dall’altro gli arboricoli psicologici, tenacemente ciechi, inossidabilmente eteroriflessi, immarcescibilmente convinti di qualcosa di assurdo, tragico e palesemente non vero. E finirò col diventare intollerante. La loro “lightning philosophy” (la sindrome del fulmine, come la chiamo io) è una tossina sociale.

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Anche per

“Come eravamo”

Ricevo lettere come questa, e ne ricevo molte, per la prima volta per un romanzo e non per un saggio: “Causa Rais , mi sono accorto di aver ristretto per anni i miei orizzonti. Non capivo cosa non andasse, ma ero bloccato e stantio. Dopo Rais ho realizzato che ero arenato da solo. Adesso mi sono rimesso in moto, tra le varie andrò ad imparare a (…) da un pazzoide dalle mani d’oro. Quel libro è fatto meglio di quello che sembra. Grazie.” Che bello…

Mi chiedo quanto poco ci manchi, quanto poco siamo distanti dalla “linea d’ombra” e quanto poco serva per oltrepassarla. Un romanzo, una storia, una rappresentazione, può aiutarci perfino in questo? Dunque non è solo la pala d’oro per scavare il tunnel della comprensione sulla vita, sui suoi grovigli inestricabili di emozione e speranza. È perfino una mano a cui aggrapparci per venire fuori dal fosso?

Carica di grandi speranze, tutto questo, ed enormi responsabilità. Ma soprattutto mi fa pensare a qualcosa: non sarà che se fossi rimasto là, se non avessi dato spazio libero alla mia idea di me, qualcuno non avrebbe avuto modo di fare e poi scrivermi cose così?! Eppure poteva accadere. In un momento, per le mille ragioni che ci trattengono, quella linea d’ombra avrei potuto seguirla invece che oltrepassarla. Piccoli passi, grandi effetti. Non solo per me…

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No alla droga

Splendida foto, non mia. Eiettiamoci dal sellino. Da soli.

Un paio di storie sportive, nel recente passato, mi hanno dato qualche buona speranza. Ho atteso a scriverne perché ci stavo riflettendo su. Ma se Flavia Pennetta e Nico Rosberg hanno lasciato dopo aver vinto qualcosa d’importante, forse una speranza c’è.

Mi piacciono due cose di queste storie. La prima è che i due campioni non fossero dei predestinati, con doti soprannaturali, certamente muniti di buon talento ma che hanno perso tanto prima di vincere. Gente che per vincere ha dovuto dare tutto quello che aveva, trovare quel che non sapeva neppure di avere, dunque esseri umani come noi, come chiunque, con qualche buona dote e altrettanti difetti, primo tra tutti: la paura di non farcela mai. La seconda questione è il fatto che si siano ritirati dichiarandosi soddisfatti, avendo ottenuto quel che di importante potevano e volevano. Da quel momento, a parte i soliti articoli ammirati e un po’ di clamore, sono rientrati nell’anonimato. A breve nessuno si ricorderà più di loro, se non le statistiche e gli amanti della storia sportiva. Tornano, probabilmente, in un limbo di anonimato che è il contrario esatto del centro dei riflettori. Diranno, faranno, brigheranno certamente, ma non più “nella scena”. C’è un altro sportivo che vorrei avesse fatto, o facesse la stessa cosa: Alex Zanardi. Il compimento di una parabola meravigliosa, per lui, oggi, sarebbe dire: “ho fatto di tutto, adesso voglio compiere un ultimo miracolo: tentare di vivere in armonia senza la droga delle vittorie”. Lo so, con i campioni pretendiamo sempre troppo….

Sarà che a me non piacciono i “malati di”: i malati di lavoro, che dimenticano tutto il resto; i malati di riposo, che dimenticano di stancarsi; i malati di libri, che dimenticano la vita; i malati di azione, che dimenticano la contemplazione; i malati di “ciò che non ho”, che dimenticano “ciò che ho”; i malati della famiglia, che dimenticano l’amicizia e se stessi; i malati del cibo, incapaci di godere di ogni altra cosa non commestibile; i malati dei figli, che parlano solo di figli; i malati della libertà, che non sono capaci di legarsi; i malati della vela, che non capiscono nulla tranne fare vela; i malati di felicità che parlano solo di “happyness”, spaventati da chissà quale loro naturale tendenza a perdersi; i malati di musica, i malati di finanza, i malati di viaggi, che non sanno starsene fermi in un posto senza provare il bisogno di andare più in là; i malati di chiacchiere, che non contemplano mai il silenzio; i malati di potere, i malati di volontariato, i malati di soldi, i malati del vino; i malati delle “cause” sociali; i malati di politica, che ti accusano di fregartene quando se c’è qualcuno che ha confuso il mezzo col fine sono proprio loro; i malati di sesso (che sono quelli che capisco di più, a dire il vero… Sto scherzando!); i malati dell’estate, che non capiscono che la cosa più bella di ogni stagione è che cambierà, i malati della montagna, che non concepiscono altro che salire; i malati dei record, i malati degli abiti, i malati della semplicità, i malati della comodità, i malati dell’economia, i malati del dialogo, i malati del silenzio

Mi piacciono la Pennetta e Rosberg perché sembrano sani. Chiunque sappia dire “basta!” rivela che faceva qualcosa con passione, con partecipazione, con dedizione, era pronto a grandi sacrifici, ma non era drogato. Come ha fatto quel sentiero, può farne un altro. Anzi, vuole, è curioso di un altro sentiero! Non essere il percorso che facciamo, non soggiacere ai dettami di un solo mondo, della biologia, dell’età, della cultura di riferimento, dell’etnia, della religione di appartenenza, delle mode dell’epoca… ecco una forma di salute che mi affascina. A cui tendere.

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Vuoto

Energia, per questo anno di riempimento.

Dove non mettiamo cose, resta vuoto. E le cose, lì dentro, le mettiamo solo noi. Dopo puoi lamentarti quanto ti pare, perché quello ti ha trattato male, perché l’altro ha disatteso le tue aspettative, perché il lavoro è deludente, perché “non incontro mai nessuno interessante” (come se qualcuno, incontrando te, dovesse dire il contrario), che tuo marito ti ignora, o di essere solo. Ma il fatto è che ti sei dimenticato di mettere fiori nel vaso, fagioli nel barattolo, idee in testa, legna nel camino, vele sulla barca. E infatti è tutto fermo.

In un passo di Rais scrivo: “Khaled Imari lo aveva messo in guardia: non fidarti ragazzo mio, tu troppo capiente, ma troppo vuoto e Keithab piccolo ma pieno, e aveva ragione, grande piccolo, vuoto pieno, lo scontro delle magnitudini, solo ora forse comprende quelle parole Dragut, anche se pieno e vuoto ancora non afferra e forse non capirà mai cosa significhino“. Tutto è derivato da quei vuoti che non abbiamo riempito. L’eco di quelle assenze risuona. Proposito: riempire. Occupare gli spazi interni. Che il tempo ci trovi intenti, indaffarati, assidui, intensi. Quello che avviene fuori non ci deve distrarre. Seguiamolo, perché no, ma con la coda dell’occhio. Tanto, per la maggior parte, sono ombre. E stiamo tranquilli: ciò che non è ombra, ciò che conta, lo coglieremo proprio perché non lo stiamo guardando. Ci distrarrà davvero, dovremo girare la testa a forza, non potremo resistere. E allora vedremo quel che dobbiamo vedere. Ma quella vista, quell’attenzione, sono facoltà che avremo affinato proprio perché eravamo attenti, ma a noi, dentro, qui, alle nostre mani (alle mani!), per fare il miglior lavoro possibile, con precisione, attenzione, nel miglior modo possibile. E con partecipazione.

Calvino scrisse che il segreto del Millennio entrante era fare cose complesse, applicandosi la massimo, farle bene, nel miglior modo possibile, dedicandosi interamente. Io penso che intendesse questo: riempire quei vuoti. Riempirli di idee proprie, progetti, escogitando da soli il modo per realizzarli, dedicandosi anima e corpo a quelle attività. Qualcosa che ci renda interessanti ai nostri occhi, e degni d’interesse quando qualcuno ci incontrerà. Ci sarà qualcosa da guardare, non il vuoto. E questo genererà desiderio di frequentarci, che non è desiderio di altri, ma desiderio nostro di stare con noi, che gli altri avvertono, senza cercare costantemente qualcuno, altri, chiunque siano, pur di non trovarci da soli. Vuoti.

(9° anno della nuova vita. 640° pezzo su questo blog. 82° quest’anno)

Da domani…

 

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Sound of silence

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Sott’acqua per non affogare

Quando manca il silenzio non senti che manca qualcosa, al contrario, ti pare di aver evitato il peggio, di essere in salvo, anche se in realtà qualcosa scappa, viene sottratto, lo perdi, il pensiero che potevi fare, o il ronzio che poteva condurti al pensiero seguente, e poi all’altro ancora, l’amplesso ventresco che poteva emergere al cervello senza spreco, generando da una fecondazione omologa: una riproduzione, una procreazione, questo consente il silenzio. Il rumore sterilizza. Le parole dette a cazzo per fare rumore, per impedire la creazione, inertizzano. Inerti e sterili, ci pensiamo in salvo solo perché c’è rumore. Ma non è così. È solo tutto rimandato.

Chiudo canali, sempre, quando posso. Eppure mi arrivano le parole vuote, di tanto in tanto. Quelle del giudizio senza comprensione, dette per salvarci, anzi per salvarsi, perché io compio empietà, come tutti, ma quelle parole non le dico, e se le penso le sussurro, me ne pento, per compassione verso me stesso, tramite loro. Stessa battaglia, stessi mezzi scabri, stesse sconfitte, malattie, solitudini, cosa c’è da dire l’un l’altro? Commenti tra identici che manifestano differenze minime deformate dalla paura di sé.

Non evitare il silenzio, preferiscilo, tanto non ci riuscirai mai per sempre. Un giorno inaspettato sarà un’onda irresistibile. Inabissati prima, volontariamente e a mare calmo, per provarti che un fondo c’è, adagiati sulla sabbia, senza respiro, occhi in su, annulla la mente come dovessi restarci per sempre, immobile per non consumare energie. C’è più pace là sotto che sputando rumori e parole che ti condannano. Stai sempre parlando di te, ricordatelo. Ogni cosa detta sei tu, ogni insofferenza è di te. Ogni rifiuto è a te. Ogni fuga è da te, che però ti rincorri, indivisibile. All’infinito.

“Il vero avversario, la frontiera che include, è il giocatore stesso. C’è sempre solo l’io là fuori, sul campo, da incontrare, combattere, costringere a venire a patti. Il ragazzo dell’altro lato della rete: lui non è il nemico: è più il partner della danza. Lui è il pretesto o l’occasione per incontrare l’io. E tu sei la sua occasione. Le infinite radici della bellezza del tennis sono autocompetitive. Si compete con i propri limiti, per trascendere l’io in immaginazione ed esecuzione. Scompari dentro il gioco: fai breccia nei suoi limiti: trascendi: migliora: vinci. Si cerca di sconfiggere e trascendere quell’io limitato i cui limiti stessi rendono il gioco possibile. E tragico e triste e caotico e delizioso. E tutta la vita è così, come cittadini dello Stato umano: i limiti che ci animano sono dentro di noi, devono essere uccisi e compianti, all’infinito”. 

Da “Infinite Jest”, David Foster Wallace.

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Senza neppure supporre

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Quel giorno, nel Golfo, prima di sapere…

Siamo talmente sofisticati e complessi, che secoli di filosofia sembrano aver appena scalfito la crosta dell’enorme toma del nostro universo esistenziale. Ben lontani dalla polpa più interna, ci dibattiamo sulla superficie. E la cosa più emblematica è che neppure sappiamo supporre. Del resto, i giocattoli, lo shopping, gli aperitivi compulsivi, le vacanze, il lavoro…, a questo servono: evitarci di presumere o intuire quell’oceano.

Basta una fessura, tuttavia, un indizio seguendo il quale arriviamo a intravedere la nostra complessità (così simile all’idea che la teologia ha elaborato di Dio), che un baratro si spalanca di fronte a noi. Laggiù ci sarebbe quel che cerchiamo da sempre (comprendere, o almeno farsi un’idea… della vera realtà) ma è talmente arduo pensare di gettarsi in quel marasma senza fondo, che la reazione è la ripulsa. Ci ritraiamo storditi.

L’esperienza che ho fatto in questi quasi nove anni di vita da uomo tendenzialmente libero è stata proprio questa: scoprire la complessità, quel groviglio segregato, nascosto, occultato per non destabilizzare. Tolti i giocattoli e le corazze offerte dalle “droghe” esistenziali (denaro, relazioni appoggiate, promiscuità, caos, lavoro, rumore, responsabilità, alienazione…) non ho potuto più essere “estraneo”. Ho dovuto necessariamente appartenere alla mia natura. Le “droghe” generavano desiderio di una vita migliore, ma solo apparentemente. In realtà solidificavano giorno per giorno la peggiore, allontanandomi dal cambiamento. Dopo, invece, ho scoperto la voragine, ho capito perché avessi esitato tanto a cambiare vita, e ho dovuto trovare il coraggio alla cui assenza le “droghe” avevano supplito.

Credo che quando morirò sarò soprattutto soddisfatto di aver visto la parte posteriore dell’arazzo, la sua trama sconclusionata, l’ordito misterioso e assurdo del tempo, e della nostra vera natura. Senza conoscerla, non sarebbe stato vivere davvero. Ripensando indietro, a prima…, non supporne neppure l’esistenza (credetemi, non supporne neppure l’esistenza…) mi appare solo artificiale, un incubo fatuo. Un falso.

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Senso

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Per altro qui non si sta mai soli un attimo tra granchi di fiume e scoiattoli dalla lunga coda pelosa…

Sono molto contento che stamani ci sia il sole, che scalderà casa mia, che si è svegliata fredda come al solito, e contento di non poter scegliere il menù del giorno, perché ho ancora pomodori e melanzane dell’orto da consumare, e che la legna che userò per scaldarmi insieme al sole sia la mia, tagliata e trasportata da me, e che oggi sarà un’altra giornata a costo quasi pari a zero, perché non ho bisogno di nulla per divertirmi e onorare il tempo, e che non dovrò andare a lavorare per guadagnare denaro inutile a rendermi felice, perché basta vivere diversamente e il tempo si libera, perché oggi è un’altra giornata unica, una gemma preziosa che non torna, e io scriverò per parte del mio tempo, che è quello che devo fare, e poi leggerò il mio Rais, appena uscito, che è bellissimo rileggere avendolo scritto proprio per questo, e che stasera davanti al camino sentirò di essere vissuto al meglio che potevo, facendo errori ed evitandoli, certo, come tutti, ma mai al di fuori della mia storia, ben dentro invece, cioè nel solco dell’autenticità, guardando fuori questa splendida campagna a ridosso del mare, in cui ho la fortuna di trovarmi, pensando pensieri buoni o meno buoni, ma non inquinati da argomenti inessenziali che non ho scelto, in contatto con sole persone che amo e che mi amano, e non con gente imposta che non ho scelto, studiando (perché bisogna studiare sempre, per imparare, per sapere, per avere un pensiero proprio), scrivendo, progettando rotte, sognando (sogni che intendo realizzare) e avrò avuto il tempo e la disponibilità di ascoltare chi mi chiamerà, e anche me stesso (perché noi ci chiamiamo ogni giorno, solo che mai rispondiamo a quelle chiamate), che di cose ne ho da dirmi parecchie, un lungo discorso mai interrotto che se non lo ascolto divento un alienato, come tutti, e io invece vorrei essere collegato, non alienato, e tutto questo, a me pare, ha un senso.

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Giorni così

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Una delle cose che mi aiuta a generare energia, ad esempio, è il Barbaresco

Stamattina mi sono svegliato con una serie di frasi dette dalla propria voce di Dragut nelle orecchie. Parole forti, come noci che si rompono, legna che si spacca. E mi è venuta su un’energia antica, gli occhi della tigre. In due ore ho avuto due buone idee, lanciato messaggi, fatto proposte, chiesto informazioni. Ho fatto sgommare la mia vita, le ruote hanno fatto fumo, hanno cantato, poi un balzo in avanti. Quando lavoravo erano i giorni in cui i miei collaboratori volevano nascondersi sotto la scrivania. Pensavo poco fa che siamo come il nucleare: energia, oppure bomba. Dipende chi è che la usa.

La cosa più eccitante, al mattino, è leggere quello che ho scritto. Trovarci dentro quello che so, quello che volevo da sempre trovare in un libro. Poi smetterà di essere così, avrò bisogno di altre pagine, e allora dovrò scriverle. Ma ora, ancora, Rais è il mio libro, mio come lettore intendo. E al mattino quelle parole che scoppiano, le schegge che vanno dovunque, ti trafiggono il cuore, scatenano un boato dentro. Le ho scelte a una una perché generassero questo, e ora mi godo la detonazione.

Un’amica a cui dico che ho deciso due o tre cose e che oggi sto così mi risponde: “Bravo… che la vita scorre”. I giorni come oggi mi dicono un mucchio di cose. Su di me, su quanto ci vuole per arrivare a essere in movimento, su quanto chi sta fermo dovrebbe evitare di parlare del mondo, della vita: “Prima ti muovi tu, paghi il prezzo, consumi energia, costruisci, generi cose che non c’erano, imposti progetti, mondi! e poi apri bocca“. Pensiero, idee, progetto, azione, una concatenazione difficile da mettere in fila, ma che quando c’è accende i razzi del destino. Mi ricordo: il mio destino l’ho sempre fatto in giorni così. E per onestà, dato che me ne ricordo, non mi lamento mai degli altri, della sfortuna, di niente. Solo di me. Perché la vita la fanno questi giorni, e anche quelli prima, quelli senza detonazione.

Io so da dove viene questa energia, ci ho studiato tanto su questo. E se mai si dovesse sostenere che qualcosa della vita l’ho capito, è proprio questo: l’energia, cos’è, quanta ne serve, da dove viene, come generarla, a che costo, con quale efficienza tra combustibile e risultato finale. Attenzione perché è lì il punto, il resto consegue. La benzina del motore-vita. L’energia. Voi… da dove viene, come generarla, quanta ve ne serve… lo sapete? Pensateci, è essenziale.

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Dance

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Vietato ballare

Ognuno la canticchia, senza sapere il motivo, o la suona, senza conoscere gli accordi, per renderla commestibile, digeribile, ogni mattina, ogni mattina, ogni mattina, sempre, sempre, ma a masticare non è sempre la stessa bocca, non digerisce sempre lo stesso stomaco, dunque cambiare cibo per sfamare tutti gli uomini affamati d’altro non riesce, questa, appunto, è la vita (questo lo capiscono in pochi), perché la stessa pietanza non va, non può andare, neppure la migliore (questo lo capiscono in pochissimi), e tu che ci hai fatto fede tremi perché sai, per certo, che cambierà ancora, e ancora, e puoi o illuderti (ingenuo…) o temere (pusillanime) ma per sempre, la realtà è quella, tu volevi che fosse semplice, ma non lo è, puoi fare finta, ma non ci riesci che talvolta, puoi anche battere i piedi ma tanto è così, perché siamo esseri antitetici e se siamo bravi, ma bravi veramente, impariamo solo a danzare in bilico sul paradosso, sulla contraddizione (che è tale fino a che non la vivi, poi diventa ricchezza), senza occultarla, senza farle generare sotterfugi, senza che ci zavorri nell’abisso delle identità negate, ma dandole aria, acqua, ferro, fuoco, patendola, perché no, ma a viso aperto, il tempo della vita è corto, forse, proprio per questo: impararla, questa danza, renderebbe santo il pirata, e pirata il santo, e questo somiglierebbe troppo, troppo, troppo… a Dio.

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