Da Gino Strada, dalla sua azione, ho imparato

Ai margini del campo profughi del Darfour, dove siamo andati a visionare la situazione

In Sudan sono stato perché mio cugino fu assunto come logista volontario in Emergency e andò per molti mesi a Khartoum. Andai a trovarlo, naturalmente, e conobbi lì, toccandolo con mano, quel che faceva l’associazione di Gino Strada. Poi ne scrissi anche, sul Fatto Quotidiano e sul mio blog.
Mi colpirono tante cose. Ma una di più delle altre: dovunque mi girassi per la città c’erano SUV bianchi delle Nazioni Unite, puliti, perfetti, nuovi, in un posto dove di nuovo e perfetto non c’era niente, nemmeno l’aria. Rimasi impressionato.
C’erano tutti, qualunque sigla con davanti le lettere “UN”, nazioni unite. Mi spiegarono che quel Paese era un buon trampolino di lancio anche per le carriere diplomatiche di vario genere. Una specie di gavetta, di campo base, per i giovani rampolli di belle speranze.
C’erano tanti soldi che giravano, evidentemente. E me ne accorsi soprattutto quando ci invitarono (chissà perché) a una festa,in una villa di un’ambasciata. Un’ora di fila indiana per tutti i SUV, tutti da controllare uno a uno con gli specchi sotto la macchina, i cani, per essere certi che non avessero esplosivi applicati e nascosti da qualche parte. Dentro, a dispetto del clima e della desolazione circostanti, prato all’inglese, buffet, alberi, alcolici che scorrevano impetuosi (in un paese in cui l’alcool è proibito).
Mi spiegarono che il campo profughi del Darfour, che vedete nelle foto “rubate” (andammo a visitarlo solo perché “eravamo” di Emergency, accompagnati da loro, altrimenti entrare in quel campo sarebbe stato troppo pericoloso) era così da vent’anni e oltre, e che il denaro stanziato ogni anno (una ventina di miliardi di vecchie lire) per rimpatriare quelle povere persone, non si sa dove finisse. Forse a tenere in piedi le grandi strutture dell’ONU, uffici, scrivanie, carriere. E feste.
Poi però c’era Emergency, che quei denari non prendeva. E anzi, che era sempre al limite per trovare quelli che gli servivano a operare. Anche perché oltre all’ospedale nel campo profughi (ultimo baluardo rimasto a occuparsi dei dannati della terra), l’associazione di Gino Strada aveva appena aperto un centro ospedaliero d’eccellenza per le malattie cardiache (una delle foto sotto). Un posto meraviglioso. Gino Strada lo aveva voluto non solo funzionale al bisogno, ma anche bellissimo e attrezzatissimo. La sua filosofia era quella del fare ma anche del testimoniare: “Perché in Sudan devono accontentarsi di un piccolo ospedale che fa quello che può? Perché non devono avere il meglio, le sale migliori, le macchine più avanzate, e fuori giardini verdi, panchine all’ombra, esattamente come noi?”.
Imparai molto da quello che vidi e dalle parole che ascoltai. Imparai che non basta fare. Bisogna anche fare politica, cioè testimoniare. E bisogna mirare alto, fare cose emblematiche, provocare, se necessario, per incidere non solo con quello che si fa, ma anche con significati e concetti taglienti come bisturi.
Imparai soprattutto che si poteva andare controcorrente, pensarla diversamente, fare diversamente, parlare diversamente. In ogni caso: fare e raccontare. Fare cose grosse, diverse, controcorrente, e poi parlare diversamente, con parole nuove, nuovo coraggio, nuova visione.
Ecco perché sono così triste della scomparsa di Gino Strada, ma al contempo molto sereno sulla sua eredità ideale, intellettuale, valoriale, dunque operativa ma anche politica. Uomini e donne come lui lasciano orme profonde. E quando ci sono le orme, basta seguirle, la strada è aperta, basta incamminarsi. E non “facendo come lui” necessariamente. Ma comportandosi secondo la sua ispirazione. Ognuno a suo modo, ognuno con i suoi mezzi e le sue gambe, ma tutti nella stessa direzione.

Qui ho fotografato il campo profughi del Darfour. Un inferno tra i viventi…

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