Qualcosa di reale

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Che rotta fai? Non lo so…

Che romanzi scrivi?” Quando me lo chiedono vorrei essere lontano… Sarebbe come se io domandassi: “Che vita vivi?” “Ma no dai, intendevo: che genere…?” Ecco, appunto…

Vita dramma, vita comica, vita avventura, vita d’amore, vita tedio, vita obblighi, vita libera, vita studio, vita fuga, vita errore, vita tradimento, vita speranza, vita sogno che non mi posso consentire di sognare, vita che quel giorno speravo mi dicessi quella cosa, vita che non me l’hai mai detta, vita che quando ho capito che dovevo dimenticare ho ricominciato a vivere. Vita buttata, vita errore, vita di cose che non so, vita che mi piacciono solo le cose che già so, e non saprò mai il resto, vita che oggi sto bene ed è bella, vita che oggi sto male e non mi ammazzo solo grazie a te, vita che è andata, vita che ancora ce n’è. Vita che non c’è stata mai. “Che vita vivi? Drammatica? Umoristica? Avventurosa? D’amore? Storico-aneddotica? Poliziesca? Rosa, noir, gastronomica, manualistica, di viaggio, di formazione?”. E io di cosa dovrei scrivere? Guarda che scrivo a te

Ogni volta che per capire chiudo, segmento, recinto, sfoltisco, so già che non servirà a niente. Ogni volta che per ascoltare devo aver già capito, ho una fitta al cuore. Ogni volta che mi chiedono di spiegare sento che non ce la farò: non avrò parole, o ne avrò troppe, e chi ho di fronte non resisterà. (Di che parla il mio romanzo? Allora…). Ogni volta che quella cosa non me la dici, vorrei capire perché. Ogni volta che l’attendo, anche. Quando mi chiedo che tipo sei, mi domando: “che ci faccio qui?”.

Quasi tutto quello che merita attenzione, non può essere definito se non con un lungo giro di parole vane. Io non saprei definirlo, ecco, diciamo così. Ogni cosa che scrivo vorrei non fosse definibile, perché somigliasse a qualcosa di reale. Altrimenti per capirlo dovremmo uscire. Mentre scrivere, come leggere, come vivere, è entrare.

Lei non vede il mondo. È più recluso di me, perché io, schiava, osservo ciò che non sono, mentre lei, libero, vede soltanto se stesso.” (Rais, Frassinelli, 2016)
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– 0. Avvertenze di lettura

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Antipasto a due colori per Rais

Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero….“. Inizia così, in modo sorprendete e splendido, il famoso romanzo di uno dei maggiori scrittori di sempre. E io vi dico la stessa cosa. Sedetevi comodi, nel vostro angolo preferito, lasciate che tutto rimanga fuori, state per iniziare a leggere Rais, l’ultimo romanzo di Simone Perotti, storia d’amore e inganno, di pirati e avventure, di mare e di esplorazioni, di amicizia e tradimento, di speranze, perdizioni e redenzioni. Mettetevi dove volete, raggomitolati o coricati, purché stiate bene, con le gambe stese, e forse una copertina addosso, che al freddo si legge malvolentieri, ma non troppo, perché il caldo è anche peggio. Spero che ci sia luce, perché leggere al buio è fastidiosissimo. Le sigarette a portata di mano, se fumate, e il portacenere. Che c’è ancora? Dovete fare pipì?

Soprattutto, fate all’autore e a voi stessi una grande concessione. Se dedicate a un libro una mezz’ora, fatelo con concentrazione, essendoci. Smettete di pensare a Pino e Mariuccia, al capoufficio, al vicino di casa che fa sempre rumore. Fare l’amore non dura molto di più, ma non lo fareste mai distratti. Mangiare non dura tanto di più, ma mai vi perdereste un boccone. Un libro è una storia, leggete lentamente, non abbiate fretta. Come la rotta per Itaca, che il viaggio duri tanto, che Itaca non si profili troppo presto all’orizzonte, riducendo le nostre avventure. Una storia non è “come va a finire”, ma soprattutto come va.

Le parole vi porteranno lontano, ma non sono solo un ponte. Sono un fine e uno strumento al medesimo tempo. L’autore le ha scelte a una a una, talvolta azzeccandole, talvolta meno, ma sempre chiedendosi molte cose prima di scrivervele. Vi riguardano, sono una lunga lettera rivolta a voi. Non perdetevele, non tirate lungo con l’ansia di arrivare chissà dove. Una di quelle parole potrebbe innescare un pensiero, e come una farfalla che batte l’ala scatenare altrove una burrasca. Leggere è la via per quella burrasca, e le parole sono la vostra navicella.

Le prime cinquanta pagine di ogni romanzo ambizioso, che valga la pena leggere e poi rileggere, sono le più importanti. Entrati in quelle vi sarà difficile uscire dalla storia. Concedete all’autore di seguirlo in quelle prime pagine, con maggior attenzione, con quel pizzico di vuoto-intorno che oggi è negato a quasi ogni cosa che facciamo. Sarete autorizzati a maledirlo, se vi deluderà, ma non fatevi biasimare da lui per la vostra estraneità.

Potete leggere il libro come io l’ho scritto, dato che, come diceva Saramago: “Ogni buon romanzo è soprattutto una questione di montaggio“, e a volte seguire una sola delle voci narranti, perché un romanzo è una mappa, ma il lettore fa il suo viaggio, seguendo le sue suggestioni, con le sue soste, le sue accelerazioni.

Se posso permettermi un consiglio, leggetelo di mattina. O comunque non alla sera. Ci arriverete dopo aver letto centinaia di pagine sul computer o il telefono, i vostri occhi saranno stanchi, la mente ingarbugliata, e non vi godrete nulla. Al mattino, tra sogno e realtà, avrete ancora la possibilità di fingervi, cioè di sognare, cioè di sentire. I romanzi, soprattutto quando parlano di noi, al mattino sono tutti più belli.

Ora godetevi la storia, la sua magia, la speciale immersione nel suo mondo fatato. Per un antico paradosso letterario, se siete bravi, se l’autore sarà stato all’altezza, troverete lì dentro qualcosa di vostro. Magari proprio QUELLA cosa, che andate cercando da così tanto tempo… O la perderete, finalmente… A me sono capitate entrambe le cose, scrivendo.

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L’occhio di Istanbul

“Ogni volta che ho fatto una foto, ho cercato di andare in profondità nell’uomo. Io sono un fotografo dell’uomo”.
“Nessuno può sapere quali foto di Capa siano sue effettivamente, né quante siano state fatte dalle sue compagne. La famosa foto del miliziano spagnolo, ad esempio, non è la sua“.
Questa città è magica… ma vive un’epoca di demolizione”.
“Guarda questa foto. Questo è il Mediterraneo“.
“Fare foto è una questione di composizione. E la composizione è nella mente”.

Intervista all’ultimo mito della fotografia ancora vivente. Ara Guler, nell’AraCafé di Istanbul, il suo bar.

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Il punto e la linea

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Mettendosi il quartiere di Fathi alle spalle, verso sud…

 

Istanbul. Fa impressione guardarla conoscendo la sua storia. Somiglia alla vita, viaggiatrice distratta e sciupona, che dimentica perle nel cavo delle rocce, nelle corolle dei fiori che attorniano il sentiero, ma tinge di sangue i propri passi per la ferita che non si rimargina, trascina le viscere fuoriuscite dal ventre fino a perderle qua e là, camminatrice vuota è la vita, come questa città, cimitero d’interiora e di gemme, obitorio di cuore spaccato e gioielli. Ricordo di aver pensato a queste immagini a Gerusalemme, ignominia dell’umanità, condominio iracondo di devoti che predicano bontà mentre ammazzano, conseguenza della folle immaginazione del nulla, la grande scusa, la grande metafora del vuoto su cui, per giunta, bastonare e uccidere. Laggiù, nel profondo levante, era per Dio. Qui per cos’è? Per cosa queste case meravigliose e cadenti, questi vicoli stretti e illogici, mai pensati prima di essere segnati, dove sono corsi tutti urlando, e dove oggi protestano tutti sotto lo sguardo di schiere di giannizzeri abbigliati a soggetto da divise o vestiti, agenti o studenti, l’eterno braccio ufficiale e borghese del potere? Cosa è accaduto quaggiù per ogni epoca?

Istanbul, la città della gente, la babele di razze, il coacervo di alfabeti, di lingue, parole, silenzi e danze sull’asse di una gamba soltanto, che ruota, testa reclinata, ma anche rezza, orgoglio, pregiudizio, sospetto, tutto troppo vicino, tutto in movimento, tutto che si sfiora, si affianca, s’invita a entrare. Città di tempo mutevole, città di vento e creste, unita dal mare, l’unica forse che il mare non ha mai tenuto separata, perché due labbra prima o dopo si chiudono, rinunciano al bacio per ritrovarsi. Città di giovani gentili, qualche schiaffo immeritato, sogni, incoscienza di ciò che precede, l’immemore risorsa, l’eterno rischio della dimenticanza, belli e smemorati che osano serenamente, non sanno di farlo, forse perché chi proibisce è sempre più angosciato di chi disobbedisce.

Istanbul, inferno per i topi, città di gatti, curati, una coppetta di latte ogni palazzo, crocchette che puoi comprare sfuse scegliendo i sapori, come fossero riso, pasta, bulgur, pesce del Bosforo, gatti sereni, senza allerta, troppo caos fa rasentare l’incoscienza, sfrontati coi pochi cani, vezzeggiatori di uomini, gatti parlanti, struscianti, invocanti, sorridenti, stonati come i Muezzin eppure cantanti.

Istanbul che freme, città sull’orlo di un collasso, terremotata come nessun’altra, bruciata come nessun’altra, lignea, carbonica, fossile, oleosa, fangosa, nevosa, polverosa, e nel contempo lucida, lineare, disegnata, sfavillante, ritta sul pontile, con lo sguardo a mare, una mano a tenersi il cappellino, un’altra a trattenere il vestito leggero, a fiori, che il vento stende e fa vibrare a bandiera, in attesa di un traghetto che la conduca da un amore che è sempre sulla sponda sbagliata, sempre su un’altra riva, sfuggente e desideroso, dunque che non raggiunge, ma attende. Si farà trovare? Chissà. Nessun motivo è buono per non tentare.

Istanbul che non ruba, semmai truffata e incolpevole, fatta tutta d’ascese e calate, di fiato e sospiro, mai impaziente, affaticata e ristorata, profumata di cibo, invitante, esperta della promessa più che della conferma, perché lo sguardo è più facile del bacio, la parola del palpito. Città di quartieri, paesi nella città, capitoli del libro, identici ingredienti d’infinite portate, distinzioni minime tra strade che offrono tutt’altro, distretti di artigiani che forgiano lo stesso oggetto da sempre, nella stessa via, nella stessa bottega, esperti d’una cosa soltanto, una vita dedita a una catena, un’elica, un coltello che invece di tagliare lacci, li lega.

Istanbul città del Mediterraneo, cerniera, simbolo, bandiera, molteplice come lui, azzurra come lui, umida come lui, salmastra come lui, divisa come lui, immane, d’improvviso clamorosa e silenziosa come lui, con la stessa sdrucita e maestosa saggezza, che dà retta a chi ha torto qualunque sia il suo credo, più saggia di chi è vicino a Dio, dunque, più divina di lui, e infatti come il Mediterraneo benedice salme ogni giorno, battezza neonati, assiste malati, teatro stesso del ciclo vitale, che per lei è più ampio, dalla cellula all’immensità, e per noi è il solo viaggio della più insignificante delle cose dell’universo: la nostra vita.

Istanbul città faticosa, sudata senza maleodorare, pulita ma che non si lava, un po’ colpevole senza peccato, peccaminosa comunque, perché solo l’alto mare e il deserto sono innocenti, città che fiata a raffiche il suo sfinimento, il suo stordimento, il suo spaesamento. Istanbul da prendere a modello, chi di noi avrebbe mantenuto l’incanto dopo quello che ha visto? Noi capitoliamo per molto meno, ci arrendiamo e diciamo che basta per un nulla, a confronto, mentre la vita qui non si ferma, gli amori non diminuiscono, i sogni si fanno progetti in cui è sempre possibile trovare qualcuno che crede. Come fa Istanbul a rigenerare le sue cellule morte da secoli, calpestate, arse, svanite, sparse nel vento della Marmara? Come fa a crederci ancora, come fa a non ridere d’amaro disincanto, dopo tutto quello che è trascorso? Non ci è dato saperlo.

La telecamera cala su di lei dal cielo, vuole vederla da vicino, capire… Prima dell’atmosfera non la distingue, poi la vede macchia sulla mappa, poi netta sul profilo del mare, l’obiettivo stringe velocissimo sui quartieri, su uno soltanto, sul reticolo di un isolato, su una via, su una persona, sui suoi occhi, su uno. Il punto non può capire la linea. E soprattutto non sa che la linea non conosce la matassa intricata. Per addormentarsi, la sera, ormai tardi, Istanbul prova da sempre a contarne una distesa infinita

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Assaporare

Venditore di sottaceti

Un angolo de La Città, dove essere sereni

 

Poco fa mangiavo una buona insalata, e mi struggevo di pensieri. Istanbul sfiatava lieve fuori dalla finestra aperta di questa improvvisa primavera. Un nave sul Bosforo, qui di fronte, lanciava il suo stanco lamento di sirena. D’un tratto ho pensato che dovevo assaporarla quell’insalata. Dovevo sentirla tra la lingua e il palato, nei lati della bocca, godere della sua freschezza mentre la deglutivo, la facevo scorrere sul palato molle, la inghiottivo mentre nella bocca finivano il loro affresco il peperoncino, il taramà, l’olio, la soia, l’aceto dei cetrioli aromatizzati. Ho chiuso gli occhi, ho cercato di rendere onore a quello che stavo facendo, senza bistrattarlo, senza tradirne il senso, distrattamente, pur nella mia nuova e forte consapevolezza.

Lavoro al computer da stamani, poi sono uscito per un’intervista fino all’Istituto Italiano. Ho scritto molto, tre resoconti, un documento concettuale sul Modello del Mediterraneo a cui sto lavorando. Ho cercato di tenermi impegnato tutto il giorno. Tra poco cucinerò la cena. Di oggi, tuttavia, ricorderò quel boccone di insalata. Un boccone sapido, sentito, che non mi si è infilato nel corpo di soppiatto, l’ho colto, non l’ho perduto. E in quel momento, per un istante, sono stato totalmente sereno.

(non bisognerebbe mai aggiungere qualcosa dopo aver scritto un post. Ma sto sentendo questa canzone… Bellissima: https://www.youtube.com/watch?v=ktClVtDxBOw)

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