Due mesi

di vani…

Due mesi di grande lavoro, fisico, dunque spirituale. Mi ero ripromesso di scrivere di molte cose, individualmente, ma poi tutto si è aggiunto, tutto ha appassionato. Impossibile dividere.

Ristrutturare, fare lavori per cambiare d’uso, faticare per coibentare, intonacare, dare luce, ha portato via metà del tempo. Rendere un ambiente il più simile possibile a ciò che si è, a come si sente e si vive davvero, è uno sforzo immane sul tema della diversità. Le nostre case stanno lì a raccontarci la nostra schiavitù: somigliano troppo a come viveva gente diversa da noi. Più di metà dei metri quadrati che le compongono sono luoghi dove non stiamo, dove non viviamo, dove non facciamo ciò che amiamo fare, dove non possiamo essere confortevolmente ciò che siamo davvero. Un uomo a cui interessi, ad esempio, cucinare e dormire, cosa se ne fa di un salotto dove ricevere gente? Eppure ce l’ha, anzi, è lo spazio principale, il più grande. Cambiare un luogo perché il nostro corpo, la nostra anima, la nostra mente lo viva pienamente, non è edilizia, non è neppure solo arredamento o architettura: è esplorazione creativa. È autoanalisi. Filosofia.

Come tirare in secca una barca, estrarla a forza dal ponderoso mare in cui è immersa. Azione innaturale, forzatura, eppure atto di compassionevole cura, oasi. Una barca va fatta respirare, di tanto in tanto. Va osservata da vicino, va analizzata senza l’interferenza della risacca, auscultata. Asciugata. Poi inizia il lavoro lungo delle viti, delle resine, dei sigillanti, della carta vetrata, del legno. Staticità e dinamismo, in una vela, sono ipotesi estreme. La sua natura inseparabile dall’uomo che la governa, è l’equilibrio. Solo che l’uomo che se ne prende cura l’equilibrio lo cerca, proprio tramite una barca. Circolo di bisogni e inadeguatezze. Eterno ritorno dei desideri. Il mare renderà tutto appena più assurdo, lasciando i cuori di tutti a metà.

E poi la stanchezza, e alla fine la malattia. Roba di stagione, tutto sommato breve, pochi giorni. Stesi, ci si guarda indietro, si rivede il film. Le mani hanno una patina d’insensibilità, segno che hanno lavorato. In testa tante scemenze non ci sono più, lavoro fisico (e ascesi del lavoro) hanno pulito gran parte della superficie profonda. Tante remore cadono, e immediatamente si vede. Quanto tempo è stato gettato via senza questa metodologia essenziale del lavoro sugli spazi, sugli equilibri? Quanti anni non sono stati igienizzati dal briciolo di consapevolezza di sé che prelude all’isolamento, alla solitudine compresa, accettata?

Due mesi. Volati via per bene pieni di senso. Domani esco, l’influenza è passata. Sempre così.

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