Scrivo e correggo mentre navigo nell’Egeo. Un libro anomalo, sulle isole. Linguaggio di ricerca, parole prima pensate, poi create e sperimentate, forzate al senso estremo del loro significante. Facevano così i maestri d’ascia, che per ogni lavoro prima si costruivano lo strumento. Ieri col vento che spingeva bene, ho cercato di descrivere i suoni che ascoltavo, il ciangottio della poppa, il fruscio della chiglia, il tintinnio dei grilli, le campane delle drizze, gli stocchi delle torsioni del legno. Le parole raccolte sul mare hanno una precisione particolare: spiegano anche molto coi suoni. Dunque, precisamente, non sono solo parole, ma anche note.
Vengo da Levante, dopo Cipro, Libano e Israele, dandomi il cambio a bordo con altri marinai con cui, ognuno per le sue tratte, abbiamo percorso con calma 800 miglia in cinque settimane, fino a Kythira, sud Peloponneso. In migrazione, come i pelagici, seguo venti e correnti, sfruttando ogni possibile angolo tra la prua e i flussi. Navigare a vela è una questione goniometrica e di scorrimenti.
Ma non solo pelagico, anche in grado di fermarmi, dunque dialogico: comunichiamo, silenzi e parole, note e pause del grande spartito. A bordo e negli sbarchi conosciamo, tornando come gli assassini sui passi dei nostri transiti più o meno sanguinosi. Ci rappacifichiamo con le baie patite, scopriamo rade tralasciate in remoti giorni di agitata navigazione. Come pescatori eternamente intenti, rammendiamo reti, cuciamo strappi alle vele, sorprendendoci assai spesso. Vivere in mare è questione artigianale, che si fa con le mani.
Passare molto tempo in mare: lo “strumento” più simile al “fine” che io conosca. Come l’imbarcazione, che mentre porta lontano offre cittadinanza, consente l’immaginazione di sé negli altrove senza patria che un giorno, forse, saranno casa. Ma solo se verranno sognati: il mare favorisce sane nostalgie, proietta il pensiero, ma fa derivare senza meta se il marinaio non riesce a vedere l’invisibile.
Per questa rotta, da levante a ponente, così facendo, così sentendo, così cercando, non incontro isole né approdi, che pure rincorro per il mio libro. Con le vele e con la mente sperimento la condizione insondabile e temporanea da cui vengono le idee, le immagini, e soprattutto le parole:
“Erede dell’oro e protagonista della miseria, il marinaio è ricco della moneta fuori corso con cui si acquistano i sogni e si vendono le nostalgie. In bilico tra la vita e la morte, non abita mai ciò che è suo, è sempre costretto ad abbandonare ciò che gli appartiene, e risiede lungo la rotta stimata tra i diversi. Per questa rara facoltà, paradossale e metafisica, condanna che brucia sulla sua pelle più di qualsiasi ferro rovente, l’uomo di mare è l’unico a saper sillabare l’inconsapevole alfabeto del senso. Un’odiosa balbuzie, il suo racconto del Mediterraneo…”