Sono stati bravi…

Li vediamo arrivare per caso, gettando un’occhiata sul mare immobile di questa splendida giornata a Kos, Grecia orientale. Li vediamo come si scorge per pura fatalità un tronco a pelo d’acqua. Come fossero un oggetto. Invece sono esseri umani. Remano lentamente, non ce la fanno più. Hanno un motorino elettrico che deve averli abbandonati da molte ore. Uno di loro mi sorride. Gli dico “Welcome!” lui mi ringrazia con la mano sul cuore. Gli faccio segno che l’entrata del porto è dalla parte opposta, sul lato nord. Restano incerti, faticano a dirigere la prua, caracollano in mare.

Prendiamo una cima, per gettargliela dal molo e trainarli, poi arriva un gommone del porto. Sono in salvo. Li guardo arrivare a terra. Forse hanno controllato la meteorologia, hanno calcolato le correnti, il vento. A bordo sono il giusto numero per un piccolo gommone. Hanno navigato bene, sono stati bravi! Faccio il tifo per loro, come se fossi io a sbarcare. Ce l’hanno fatta. Un misto di gioia, lacrime e commozione. Ce l’hanno fatta, per Dio, almeno loro ce l’hanno fatta

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Cominciamo da questa guerra

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Lesvos, accanto ai migranti. Mi ha impressionato perché sono piccole, da donna, diverse, e puntavano una a nordovest, l’altra a est.

Mitilini, Lesvos, su Mediterranea: Migrano perché c’è la guerra. C’è la guerra per la sete di potere tra fazioni sunnite e sciite, un’autentica resa dei conti che i mancati concili teologici dell’Islam, mai rinnovato, mai evoluto, e mille altre cause, hanno trascinato fin qui; per la voracità economica e politica tra signori del petrolio nel periodo coloniale, poi in Africa occidentale, in Maghreb e Mashreq, dunque in Iraq, e ancora oggi dovunque; per la follia dei tiranni come Isaias Afeworki, dittatore eritreo che schiaccia e umilia il suo popolo, che il nostro ex Presidente del consiglio ha ospitato sul suo yacht privato, che Italia e stati occidentali continuano a legittimare; per il cinismo della politica estera, che gioca sulla pelle della gente, dell’una e dell’altra parte, nella questione palestinese, israeliana, e più in generale mediorientale; per lo sporco calcolo delle convenienze nel Paese Curdo, in Siria, in Turchia, terreno di scontro indiretto tra grandi potenze e nuove emergenti follie. Ecco perché migrano. Senza questo elenco, e uno ben più lungo che potremmo fare, migrerebbero meno. Alcuni, forse, per nulla.

E invece fuggono, come farei certamente io, dai disequilibri che conseguono a scelte prese altrove, dalla violenza in cui termina una firma su un contratto commerciale spregiudicato in Niger, in Sudan, in Cina, dai soprusi in cui si manifesta l’effetto della mazzetta presa da un politico greco, albanese, o di chissà dove, dalle discriminazioni in cui si palesa il disprezzo del dolore di politici fondamentalisti, o solo ignoranti, che non hanno sogni per sé e per i loro popoli. L’intellettuale turco in prigione per reati d’opinione, come il migrante che muore, come l’armeno perseguitato, come il darfuriano esule, non sono eventi inevitabili, inspiegabili, fatali, sono effetti di azioni, oltre che endemici fatti di questa assurda vita. Cominciamo a non fare il prossimo errore, a non siglare il prossimo contratto, a non perdonare la prossima corruzione, a non tollerare il prossimo gesto diplomatico dettato dall’avidità e dall’analfabetismo culturale, a stigmatizzare con forza il Comitato per i Diritti Umani dell’ONU che chiuse il fascicolo sulla morte sospetta di Thomas Sankara. Cominciamo da questa guerra, come dice Gino Strada, senza preoccuparci che sia impossibile la pace nel mondo. Cominciamo dal prossimo mitra che vendiamo, dalla prossima mina antiuomo, dal prossimo gommone, dal prossimo giubbotto salvagente, dal prossimo pieno di gasolio. Cominciamo dal prossimo campo petrolifero nel Mediterraneo, dalla licenza estorta o avuta oliando politici che andrebbero defenestrati. Cominciamo da gesti ancor più semplici, quotidiani, ognuno i suoi. Cominciamo dalle parole che usiamo. Dai libri che non leggiamo per pigrizia. Dalle scuse con cui ci assolviamo sempre. Dai pensieri. Che non facciamo. Dalla vita. La nostra, che non scegliamo. Con cui, spesso, avalliamo tutto.

 

«Per l’imperialismo è più importante dominarci culturalmente che militarmente. La dominazione culturale è la più flessibile, la più efficace, la meno costosa. Il nostro compito consiste nel decolonizzare la nostra mentalità. » (Thomas Sankara)
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Vita

migranti lesvos

Mentre si lavano

Io non avevo mai visto i migranti. Ieri ci ho passeggiato accanto, dentro, mi sono seduto con loro, li ho osservati, fotografati, ho tentato di vivisezionare i loro volti, capire. Erano stanchi, coi vestiti fradici, bisognosi di tutto…. Avevano nostalgia di casa, alcuni si sentivano soli, seduti con le braccia sulle ginocchia, e guardavano intorno a loro con un’espressione di spaesata e fatale attesa. Poca basilare assistenza intorno a loro, bottiglie d’acqua passate di mano in mano con trepidazione, solo una decina di bagni approntati alla bell’e meglio, odore di piscio, feci, corpi sudati, giubbotti salvagente dovunque, l’arancione, il colore accecante del naufragio. Certo, ho visto tutto questo. E mi ha fatto molta impressione. Con loro non c’era che qualche sparuto volontario. Non erano chiusi in alcuna gabbia, ma in un’area aperta, sul porto, e per la città, quasi rispettosamente al limitare di essa, fusi con i greci, eppure separati da un filo invisibile.

Eppure… ho visto sorrisi, tra loro. Ho visto bambini che giocavano, mamme pronte a intervenire, uomini che si raccontavano stesi su un molo, abbracci, selfie, qualcuno che si lavava con un goccio d’acqua preziosa, ragazzi dal volto di studente che lavavano in mare i propri vestiti. Non ho visto straccioni, miserabili, ma persone. Ho visto che gli asiatici tendevano già a riunirsi tra loro, come i mediorientali, riproducendo una città migrante di quartieri. Ho visto l’intraprendente che provava a vendere acqua avuta chissà come. La ragazza che guardava il ragazzo che non conosceva. L’uomo che guardava il vicino di tenda. La famiglia seduta a circolo, qualcuno che alzava un braccio, mi lanciavano un sorriso, accompagnato dalla ricchezza inesauribile della parola. Ho visto la vita che corre, inesorabile, sui destini veri degli uomini, non quella che pensiamo noi. E ho visto che dai nostri occhi erano dei derelitti senza nulla, ma dai loro erano dei vincenti, tutt’altro che disperati, speranti migranti che ce l’avevano fatta, perché avevano avuto il coraggio di partire, di non arrendersi, e non erano morti per la via, e stanotte nessuno li avrebbe aggrediti, violentati, uccisi. Erano in salvo.

Ingenui, immemori, inconsapevoli. Ma cosa pensavamo, che gli uomini non migrassero? Che non cercassero una vita migliore? Lo fanno da sempre, a miliardi sono migrati, sempre, da un milione e mezzo di anni. L’uomo primitivo nasceva nell’Africa lussureggiante e meravigliosa, mai contaminata dall’uomo, dal suo sfruttamento, dal suo colonialismo, eppure si mise in marcia, prua a nordest, l’Egitto, la Georgia caucasica, lì si divisero, prime intemperanze sulla meta, qualcuno accostò per l’Europa, altri per l’Asia. Dove andavano? Cosa li spingeva? Cosa cercavano? Alla base del castello di Mitilene ieri leggevo che le case del borgo settentrionale furono occupate nel 1922 dai 180.000 migranti che provenivano dall’Asia Minore, fuggiti da un cataclisma geologico. Oggi ci vedo i migranti che fuggono dalle guerre. La storia si ripete. la storia dell’uomo vero, non di quello che inventiamo noi. Che non esiste. Quella vita assurda, che non abbiamo fatto noi, che è tragica, immotivata, addolorata, eppure speranzosa, possibile, che non può che essere tentata, dove un sorso d’acqua ha valore, dove un sorriso ha valore, dove la speranza è un miraggio, ma è l’unica cosa che abbiamo.

(Che il loro arrivo trovi noi europei impreparati, divisi sui valori dell’accoglienza, incapaci di condividere le nostre fortune, dunque di aiutarli davvero, è tutt’altro discorso, troppo lungo per queste mie prime impressioni).

(Sono qui con Progetto Mediterranea. Segui quel che “vediamo” del Mediterraneo su www.progettomediterranea.com)

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