Sto andando da una coach

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In una città si vede sempre tutto bene…

Sei Simone Perotti?“. Mi guarda da qualche metro, sguardo fisso. Ha l’aria da bravo ragazzo, ma con occhi e modi di solida intelligenza, cui l’accento veneto aggiunge mattoni di concreto buon senso. “Ti stimo tanto…”. Parliamo. Intorno, la Stazione Centrale di Milano. “Ti disturbo? Scusa non ti ho neanche chiesto se…”. No non mi disturbi, aspettavo il treno nei miei pensieri. “Sto andando da una coach per farmi aiutare a venire fuori da un buco dove mi hanno infilato, e dove mi sono infilato da solo…”. Una coach… una quarantenne che per sopravvivere finge la saggezza che per sé non ha e con cui tu dovresti accettare l’inaccettabile. Un’altra figura professionale di questa contemporaneità, epigone di una decadenza già stata. Scorro a mente il breve elenco dei luoghi comuni che gli dirà, sempre gli stessi. Mi assale un velo di tristezza.

Multinazionale farmaceutica, dirigente. Avrà quarantaquattro anni. “Ho provato a cambiare le cose, con i miei collaboratori, coi miei capi. Ma non ci sono riuscito”. Cerco di immaginare. Le rivoluzioni accadono solo nei romanzi, per non farci morire di realtà, gli dico per rincuorarlo, e cito anche l’autore della frase, perché non si dica che rubo. Provo a spiegargli che le cose o le accetti, oppure è difficile che cambino. Servirebbe l’amore, per farle volgere al bello. Ma l’amore quasi mai c’è, tanto meno dove lavora lui. E quando capisci che non si può, devi andare. “Mi trincero dietro l’alibi che ho una famiglia…”. Gli sorrido. Sa già cosa ne penso.

“E’ brutto però dover ammettere che non si può cambiare niente”. Ma non è una sconfitta. Lo sarebbe se fosse stato possibile vincere. Ma se non puoi vincere non puoi neanche perdere. Solo, decidi come e dove, e vai via. Inutile stare dove sei diverso, dove la tua diversità imbarazza, dove finisci col diventare soltanto un rompiscatole. Comandano loro, quelli che non sbagliano mai, che sanno come si vive.

“Però grazie sai, mi è così utile quello che scrivi…”. Poi aggiunge mentre ci salutiamo: “L’ho pubblicato poi quel romanzo! Sai, quello per cui ti avevo chiesto aiuto. Ho venduto quattrocento copie”. Mi complimento con lui. Almeno un piccolo sogno che si è realizzato. Speriamo che non basti ad appagarlo, che non sia quella la sua Itaca. Ci salutiamo con un sorriso. Poco dopo scatto una fotografia.

 

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