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Chissà
Febbraio e marzo a Istanbul. Poi Mar Nero, Bosforo, Marmara, Dardanelli, tutto l’Egeo da agosto ad oggi, da Lymnos al Dodecaneso, solo un breve stop in mezzo. Nel frattempo, tutto. Cose mie, cose personali, ma anche altre, luci che illuminano la scia. Anche un gatto, ad esempio, quel pomeriggio a Kadikoy. Pomeriggio trafelato di polizia e doganieri, corse, attese, mazzette e traghetti. Un gatto grigio e bianco, duro maschio della costa. Mi ha guardato con aria interrogativa, occhi acuti, smorfia di disappunto esistenziale. Mi sono sentito giudicato, e aveva probabilmente ragione. Chissà….
Chissà se il nostro amico marinaio è ancora nella sua tana a Messolongi, accenna a cose grosse che possono accadere, o ha deciso di rompere gli indugi e salpare. Chissà se la barista di Kithyra ha terminato il suo fitto dialogo d’amore al telefono. Chissà se a Chanakkale ci sono ancora quei bambini che giocano a pallone sotto al monumento di Piri Reis. Chissà se il pescatore di Rize accoglie ancora i forestieri con una cassetta di acciughe e triglie. Chissà se i poliziotti di Batumi sono ancora in combutta con l’agente navale, come in quel pomeriggio umido e teso. Chissà se il vento tra Lymnos e Chios è calato, insieme alle onde che ci facevano impazzire. Chissà se quella ragazza sfuggita al bombardamento del villaggio vicino a Aleppo è riuscita a raggiungere la Svezia. Chissà come stanno quei poveri ragazzi esausti, giunti a Kos a remi, neppure la forza di rispondere a un saluto. Chissà se il figlio della sorella, ventotto giorni, sopravvissuto già a un naufragio, sta bene. Chissà se a Leros i giramondo italiani a vela cenano ancora insieme e si ricordano di noi, come noi di loro. Chissà come stanno le miriadi di delfini del Mar Nero, che saltavano giocosi ad ogni miglio. Chissà come stanno i due skipper stanchi di Rodi, innamorati della Sardegna, delusi del presente. Chissà se a Nisiros hanno preso un altro pesce spada, ieri il tempo era ideale. Chissà come sta il mendicante che salutavo ogni mattino sotto casa a Tiblisi, e chissà se lungo i viali di Salonicco c’è ancora il bel passeggio di splendide ragazze in fiore. Chissà se all’alba a Goekcheada i militari escono ancora a fare la traina, e se si ricordano di una bella barca con quattro vele a riva che navigava verso lo stretto accolta dal loro saluto. Chissà che fa il direttore del porto di Tsarevo, e come sta la sua giovane e bella fidanzata italiana. Chissà cosa pensano ora del Mediterraneo Vassilikos, o Murat Belge, Omer Livaneli e Petros Markaris, che si complimentarono così tanto con noi. Chissà come sta Babis, nella sua romantica casa di Kavala. Chissà come stanno gli amici di Samsun, e le loro figlie che non volevano sposarsi, ma viaggiare.
Chissà, chissà… se quel gatto ha finito di mangiare il suo piccione. Lo aveva difeso soffiando, mostrando i denti, e se lo meritava. Guardando me preoccupato, che divoravo una pita col kebab, in attesa del traghetto, deve essersi fatto delle domande. Tutto sommato, nessuno stava tentando di portarmela via. Dunque, qual era il problema?
Voci del Mediterraneo
Voci dal grande viaggio di Mediterranea. Primi diciotto mesi di navigazione. Grande esperienza, grandi visioni, grandi uomini, grandi parole.
Buona visione.
L’occhio di Istanbul
“Ogni volta che ho fatto una foto, ho cercato di andare in profondità nell’uomo. Io sono un fotografo dell’uomo”.
“Nessuno può sapere quali foto di Capa siano sue effettivamente, né quante siano state fatte dalle sue compagne. La famosa foto del miliziano spagnolo, ad esempio, non è la sua“.
“Questa città è magica… ma vive un’epoca di demolizione”.
“Guarda questa foto. Questo è il Mediterraneo“.
“Fare foto è una questione di composizione. E la composizione è nella mente”.
Intervista all’ultimo mito della fotografia ancora vivente. Ara Guler, nell’AraCafé di Istanbul, il suo bar.
Oltre il muro
Tra i migranti sul confine greco-turco.
Mitilene, Lesvos, Grecia, 22 settembre 2015
Luce di piombo sul porto, aria di scirocco distratto, che appiccica i vestiti addosso. Un peso invisibile sul cuore di questa linea di confine, dove sui muri trovi le offerte di lezioni di turco, dovunque locali di kebab e dove i capitali anatolici hanno costruito un marina molto attrezzato e gestiscono gran parte degli alberghi.
La cittadina è invasa di stranieri. Un esercito silenzioso, che sciama per il lungomare, l’angiporto, e si raduna sul molo, tra tende e bivacchi. “Aspettiamo il traghetto di questa sera”, mi dice Alis, “abbiamo già i biglietti”. Me li mostra con una certa soddisfazione.
Poco fa mi sono avvicinato alla zona occupata, lentamente, con qualche angoscia. Volevo parlare con loro, i migranti che riempiono le pagine dei quotidiani. Volevo entrare in contatto, rompere il muro. Sono radunati tutti nella parte orientale della città, assiepati sulla banchina principale, oppure a gruppi o isolati sull’estremità di un molo, con lo sguardo all’orizzonte, verso la terra turca lasciata da poco. Chi devo fermare, mi chiedevo, a chi devo rivolgere la parola per fare qualche domanda?
Il più, per decidere, l’hanno fatto gli occhi. E’ bastato smettere di non guardarli, come avevo fatto un giorno fa. Un misto di rispetto e paura, di ritegno e timore, uno giustificato, l’altro no. Dopo una decina di passi, subito un sorriso, un cenno d’intesa: “Prego, siediti” mi dice Alis, ventotto anni, siriano di Aleppo, studente di scienze della nutrizione, con occhiali un po’ storti, rotti in una estremità, e un sorriso persistente sulle labbra. Mi accomodo sulla stuoia a bordo molo, mi presento, offro qualche sigaretta. Sono in otto, tre sono amici, gli altri si sono conosciuti in viaggio. Uno di loro lavora, fa il fabbro, gli altri studiano economia, ingegneria, storia. Tutti parlano un discreto inglese. “Lui è di Damasco, io e gli altri di Aleppo. Sempre se esiste ancora Aleppo…”. Mi parlano della città distrutta, delle violenze, dei bombardamenti in ogni angolo del paese, visti di persona o saputi da amici e famigliari. “Non si può più vivere laggiù, siamo dovuti partire”. Come avete fatto a passare il confine turco? “Ci hanno accompagnato dei frontalieri. Quasi mille dollari a testa. Di notte. Ci hanno radunato in una casa e poi ci siamo mossi. Abbiamo camminato ininterrottamente per ventiquattro ore. Qualcuno non ce l’ha fatta e si è staccato, seduto per riposarsi. Ma i frontalieri sono andati avanti, e noi li abbiamo seguiti. Tutta in salita, sulle montagne, e poi giù a strapiombo”. Gli chiedo se hanno usato violenza contro di loro. “No, solo qualche gesto… Ma qualcuno ha sparato, non lontano. Abbiamo visto i lampi dei fucili a ripetizione, ci siamo messi a correre”. Gli chiedo se sa il perché di quegli spari, ma sorride, scuote la testa. “E dopo, quando siete arrivati in Turchia?”. “La gente che abbiamo incontrato è stata gentile, non tutti, ma la maggioranza sì. Ci hanno dato da bere, da mangiare. La polizia turca ci ha sistemati su un autobus per Izmir, ventiquattro ore di viaggio”. E da Izmir? Come avete fatto a trovare un imbarco? “Altri siriani ci hanno detto dove andare, abbiamo incontrato gli scafisti, pagato ottocento dollari per un posto a bordo”. Su che barca? “Un gommone di nove metri, eravamo quarantacinque” ma un altro ragazzo lo corregge: “Quarantasei”. Faccia paffuta, sguardo buono, non chiedo il suo nome. Un miliziano dell’Isis ha ucciso sua sorella a colpi di mitra, ma oltre un accenno a questa tragedia non fa. Racconta della traversata: “dovevamo togliere l’acqua da dentro con un secchio continuamente, senza mai fermarci. Entrava in grande quantità, perché eravamo al limite con l’affondamento. Eravamo zuppi, faceva freddo. Ma almeno io sono riuscito a farcela al primo colpo. Lui è stato meno fortunato”. Accanto indica un ragazzo magro, il più giovane del gruppo, Rashid, 21 anni, studente di economia, sguardo vispo, occhi rapidi, intelligenti. Lui ci ha provato addirittura otto volte, e in sette tentativi la guardia costiera greca li ha rimandati indietro. “L‘ottava volta lo scafista voleva farci ripagare il prezzo,” racconta “ci siamo azzuffati, avevano dei coltelli, ma noi eravamo tanti, e alla fine ci hanno imbarcati. E ce l’abbiamo fatta. Mi chiedo se i tentativi fatti a vuoto non fossero un caso…”. Ridono tutti, scambiano qualche battuta in arabo. Lo prendono in giro, credo, per quello che ha appena detto.
I greci che hanno trovato sulle coste di Lesvos li hanno aiutati, offerto cibo e acqua, indicato la via del porto. Anche i pochi poliziotti greci che hanno visto, solo in due occasioni, sono stati cortesi. In effetti in tre giorni non ho mai visto un gendarme, a parte da lontano, un’auto della polizia con i lampeggiatori accesi. In porto ci sono una decina tra pilotine e corvette di capitaneria e marina militare, ma oltre a questo non c’è alcun servizio d’ordine sull’isola, dove sta il grosso delle migliaia di migranti che quotidianamente si danno il cambio tra chi riparte e chi arriva. Non si avverte alcun bisogno di reprimere o arginare, non si ascolta alcuno schiamazzo, nessun litigio, nessun gesto violento. C’è più confusione a Civitavecchia, ad agosto, per imbarcarsi verso la Sardegna.
Penso che infatti questi non sono migranti, è improprio chiamarli esuli, disperati, perché sono viaggiatori. Hanno tutti deciso di andare via, hanno del denaro con sé, hanno una meta (“amici siriani in Svezia, che ci aspettano, che sia fatta la volontà di Allah”), si siedono a centinaia sulle banchine, ma altrettanti popolano i locali del porto, che stanno facendo affari d’oro, mangiano qualcosa, bevono, usano il wifi. Sono vestiti ordinati, per quello che consente un simile viaggio, si lavano alle fontanelle, o direttamente in mare. Ho più macchie e buchi io nei pantaloncini che uso per navigare di loro che viaggiano da cinque giorni. Mi guardo e mi vergogno un po’.
Mi raccontano che a Damasco ci sono spesso attentati, bombe, e che in molte parti del paese regna la violenza. Per questo sono partiti. “Qualunque cosa è meglio di quella vita. Stasera andiamo ad Atene con la nave, poi andremo in Macedonia, poi in Serbia e poi vediamo. Pensavamo all’Ungheria, ma lì c’è un governo di destra che non fa passare nessuno. Per chi va in Germania non è molto difficile a quel punto. Per chi va in Scandinavia c’è ancora molta strada”. Stimano quattro settimane di viaggio almeno. Sorridono, come a dire “stiamo freschi, hai voglia la strada che manca ancora”.
Ci salutiamo. Mani sul cuore, invocazioni alla sorte e a Dio. Anche se mi pare che di Dio qui non ci sia molta traccia. Mentre di coraggio e voglia di vivere ne vedo dovunque.
Poco dopo gli sguardi s’incrociano con Ruhollah, che viaggia con la nipote. Sono entrambi afgani, due facce dolci, gentili, la ragazzina avrà tredici anni, lui ne ha diciannove. “Siamo afgani ma siamo dei senza terra”. Mi spiega che sono dovuti fuggire in Iran perché i Taliban li avrebbero uccisi. “Noi siamo mussulmani sciiti, e i Taliban dicono che se uccidi sette sciiti vai in paradiso. Mi chiedo dove stia scritta una bestemmia del genere. Non certo nel Corano. Io il Corano l’ho letto tutto”. Ruhollah è un ragazzo educato, parla un ottimo inglese, è vestito molto bene, ha una camicia bianca linda. Mi spiega che tutta la loro famiglia ha studiato, ma che in Iran erano dei senza terra, senza patria, senza diritti. “Siamo dovuti fuggire, purtroppo non insieme, in momenti diversi. Io e Perisa abbiamo valicato il confine con la Turchia a est di Aleppo, circa sessanta chilometri a est, camminando quarantotto ore senza fermarci mai, notte e giorno. Lei era sfinita, e io anche ad essere sinceri. Chi ci ha condotto ci ha dato bastonate per farci muovere quando ci sedevamo per un momento. Poi quando abbiamo incontrato i turchi, loro sono fuggiti”. Gli chiedo quanto hanno dovuto pagare. “Ottocento dollari a testa”. “Di che nazionalità erano i frontalieri?” “Siriani. Uno forse iracheno”. “E i turchi come vi hanno trattato?” “Molto bene. Curdi e turchi ci hanno aiutato, e non solo la gente comune, anche i militari. Ci hanno consegnato un pacco con dentro acqua e viveri e ci hanno messi su un autobus per Ankara. Poi siamo arrivati a Istanbul. Lì abbiamo incontrato gente che ci ha spiegato come fare per la traversata. In tutto abbiamo viaggiato dieci giorni per arrivare qui a Lesvos”. Le storie coincidono con quelle dei ragazzi siriani, ma il prezzo pagato per la parte a mare è maggiore: mille dollari a testa. Ruhollah mi spiega che è stato terrorizzato fino all’ultimo, perché “a bordo di un gommone di non so quanti metri, ma non tanto grande, eravamo in trentacinque. Io ho pensato che saremmo morti tutti. C’era anche un bambino piccolo, non so, forse di un anno appena, che piangeva, e Perisa stessa era in lacrime. Era notte, non si vedeva niente. Chi non aveva le scarpe sugli scogli si è fatto tagli profondi. Poi, grazie alla volontà di Dio, siamo arrivati qui. Adesso finalmente siamo in salvo, e ora è anche tutto legale”. Mi colpisce questa affermazione. Gli chiedo se abbiano documenti o altro per l’identificazione: “No, nessun documento”. E come fate allora? “Siamo rifugiati, il diritto internazionale è molto preciso su questo”. Sto parlando con un migrante che conosce il diritto internazionale a diciannove anni. “Io studio legge, cioè, studiavo, ero al primo anno, poi sono dovuto partire. Ma spero di ricominciare appena arrivo in Svezia”.
Stasera partirà anche lui, partiranno tutti, per lasciare posto sui moli ad altre migliaia in arrivo. Li guarderò passare a bordo del traghetto, che sfila avanti piano a poche decine di metri da Mediterranea e poi passa su avanti tutta con la prua a sud. Speriamo vedano che li saluto, che auguro loro buon vento. Tutti in viaggio per un’altra vita.
Vita
Io non avevo mai visto i migranti. Ieri ci ho passeggiato accanto, dentro, mi sono seduto con loro, li ho osservati, fotografati, ho tentato di vivisezionare i loro volti, capire. Erano stanchi, coi vestiti fradici, bisognosi di tutto…. Avevano nostalgia di casa, alcuni si sentivano soli, seduti con le braccia sulle ginocchia, e guardavano intorno a loro con un’espressione di spaesata e fatale attesa. Poca basilare assistenza intorno a loro, bottiglie d’acqua passate di mano in mano con trepidazione, solo una decina di bagni approntati alla bell’e meglio, odore di piscio, feci, corpi sudati, giubbotti salvagente dovunque, l’arancione, il colore accecante del naufragio. Certo, ho visto tutto questo. E mi ha fatto molta impressione. Con loro non c’era che qualche sparuto volontario. Non erano chiusi in alcuna gabbia, ma in un’area aperta, sul porto, e per la città, quasi rispettosamente al limitare di essa, fusi con i greci, eppure separati da un filo invisibile.
Eppure… ho visto sorrisi, tra loro. Ho visto bambini che giocavano, mamme pronte a intervenire, uomini che si raccontavano stesi su un molo, abbracci, selfie, qualcuno che si lavava con un goccio d’acqua preziosa, ragazzi dal volto di studente che lavavano in mare i propri vestiti. Non ho visto straccioni, miserabili, ma persone. Ho visto che gli asiatici tendevano già a riunirsi tra loro, come i mediorientali, riproducendo una città migrante di quartieri. Ho visto l’intraprendente che provava a vendere acqua avuta chissà come. La ragazza che guardava il ragazzo che non conosceva. L’uomo che guardava il vicino di tenda. La famiglia seduta a circolo, qualcuno che alzava un braccio, mi lanciavano un sorriso, accompagnato dalla ricchezza inesauribile della parola. Ho visto la vita che corre, inesorabile, sui destini veri degli uomini, non quella che pensiamo noi. E ho visto che dai nostri occhi erano dei derelitti senza nulla, ma dai loro erano dei vincenti, tutt’altro che disperati, speranti migranti che ce l’avevano fatta, perché avevano avuto il coraggio di partire, di non arrendersi, e non erano morti per la via, e stanotte nessuno li avrebbe aggrediti, violentati, uccisi. Erano in salvo.
Ingenui, immemori, inconsapevoli. Ma cosa pensavamo, che gli uomini non migrassero? Che non cercassero una vita migliore? Lo fanno da sempre, a miliardi sono migrati, sempre, da un milione e mezzo di anni. L’uomo primitivo nasceva nell’Africa lussureggiante e meravigliosa, mai contaminata dall’uomo, dal suo sfruttamento, dal suo colonialismo, eppure si mise in marcia, prua a nordest, l’Egitto, la Georgia caucasica, lì si divisero, prime intemperanze sulla meta, qualcuno accostò per l’Europa, altri per l’Asia. Dove andavano? Cosa li spingeva? Cosa cercavano? Alla base del castello di Mitilene ieri leggevo che le case del borgo settentrionale furono occupate nel 1922 dai 180.000 migranti che provenivano dall’Asia Minore, fuggiti da un cataclisma geologico. Oggi ci vedo i migranti che fuggono dalle guerre. La storia si ripete. la storia dell’uomo vero, non di quello che inventiamo noi. Che non esiste. Quella vita assurda, che non abbiamo fatto noi, che è tragica, immotivata, addolorata, eppure speranzosa, possibile, che non può che essere tentata, dove un sorso d’acqua ha valore, dove un sorriso ha valore, dove la speranza è un miraggio, ma è l’unica cosa che abbiamo.
(Che il loro arrivo trovi noi europei impreparati, divisi sui valori dell’accoglienza, incapaci di condividere le nostre fortune, dunque di aiutarli davvero, è tutt’altro discorso, troppo lungo per queste mie prime impressioni).
(Sono qui con Progetto Mediterranea. Segui quel che “vediamo” del Mediterraneo su www.progettomediterranea.com)
Li vedevo ogni giorno…

Suruc. La ragazza che fa il selfie è ferita, ma si è salvata. Quella che sorride a sinistra, e l’altra con la fascia nei capelli, sono morte.
Ecco i volti che ho conosciuto. I turchi giovani, e non solo, pieni di speranze, di voglia di vivere. Stavano andando a Kobane per ricostruire una biblioteca, piantare alberi, offrire il loro lavoro di volontari. Sono stati uccisi. Giovani socialdemocratici, come sono stati definiti. Io me li ricordo bene. Li vedevo ogni giorno mentre camminavo per Istiklal Caddesi, verso Taksim o verso Galata, andando o tornando dall’Istituto Italiano di Cultura. Li vedevo manifestare, spiegare, sorridevano dandomi un volantino, o anche solo passeggiare, chiacchierare in un bar. Mi fa impressione ritrovarli in questi volti, pochi istanti prima di essere falciati dalla solita bomba del potere, la solita esplosione odiosa e a orologeria con cui si tenta di arginare la parte buona della Turchia, del Mediterraneo, della vita.
Oggi che sono un po’ giù, che non riesco a fare, non riesco a scrivere, non riesco a pensare, mentre avrei così tante cose di cui occuparmi, cerco di darmi uno strattone, una pacca sulla schiena, mi alzo e mi rimetto in cammino. Pensando a loro.
Maledetti uomini potenti, maledetti avidi, maledetti politici, maledetti integralisti del nulla. La vostra bomba può uccidere trenta giovani meravigliosi, ma deve fare a tutti gli altri l’effetto di un risveglio, ognuno nel suo, e non un danno in più: passare inosservata, non generare reazione in chi non era lì. Chi non era lì è coinvolto, perché sta qui, dove lentamente crolla, ogni giorno, il muro contro l’ignoranza, contro la decadenza, e dove esploderà una bomba, un altro giorno a venire, perché oggi non abbiamo innaffiato il campo. Vi girerò contro la vostra bomba, maledetti, con l’impegno, col respiro, con il mio lavoro. Se ad ogni esplosione il Mediterraneo imparasse che vale tanto quanto vale ogni suo singolo individuo, il suo orgoglio, la sua lucida fermezza, i morti varrebbero più dei vivi.
L’onesto patto
Curo la mia piccola verruca, nel silenzio della cabina. La osservo, le spalmo sopra un po’ del liquido che la sta eliminando. Leggo poche pagine, sottolineo una frase, guardo fuori dall’osteriggio. La marina immobile, placida, silenziosa, e la valle ampia, ariosa, dietro di lei, sono irrorate di luce dell’est. Seguo la coda di un pensiero con cui mi ero addormentato: lo afferro, gli salgo sul dorso, volo tra le isole e il mare. Lo mordo sulla nuca, lo bacio. La barca è ferma, poco sciabordio sulla poppa, l’equipaggio dorme. Sono le 06.00.
Quando navighi a oltranza, la vita a bordo scorre per rituali, o improvvise accelerazioni. Sveglia presto, un caffè sul ponte, un biscotto, una sigaretta, la lettura del portolano, degli isolari immaginari. Gli occhi vagano tra il paesaggio marino e l’armo, spiano dunque il mondo e la tua vita. Un marinaio, quando naviga, vive in una stanza con due sole pareti: il mare e la barca. Forse è per questo che talvolta si sente scoperto. Forse è per questo che talvolta si sente libero.
Fuori, prua oltre le luci rossa e verde del porto, il racconto si fa epico e aritmico. Ciniglia e carta vetrata, cotone e tela di sacco. Oggi che giorno sarà? La lieve apprensione fa da pelle del navigante. E come lo rassicura, talvolta, l’orizzonte, quando è piano, senza gobbe di onde! Il suo sgomento oscilla tra preoccupazione e rassicurazione. Una cura, distrae; l’altra accentua. Navigare, alla fine di ogni discorso, è stipulare un onesto patto con la malinconia. Quella che il mondo sulla terraferma combatte ogni giorno con rumore ed oggetti, il falso movimento, e che noi assecondiamo con autoconvincimento e infingimento, l’illusione.
Facciamo così

Salpati da Samsun (TK), h07.00. Mar Nero.
Pubblico anche sul mio sito un brano scritto per la comunicazione di Mediterranea.
“Qui su Mediterranea facciamo così, che i più esperti lasciano il posto a chi deve fare esperienza. Nel primo anno di navigazione la nostra imbarcazione ha richiesto l’umiltà dell’attesa, la cura dei lavori. Chi è venuto a bordo, che avesse tanta o poca esperienza, ha lavato, messo e tolto parabordi, partecipato ai lavori, ascoltato le rotte e le interpretazioni di vento e mare, senza farle. Chi è venuto, nel primo anno, che fosse schiavo, che fosse Re, ha dovuto chinare il capo a Mediterranea, conoscerla, rispettarla e prendersi cura di lei, imparando a stare a bordo. Il mare non perdona, e comunque non premia, i frettolosi, gli ambiziosi, chi non è umile e non ha pazienza. Per condurre una barca bisogna amarla, prima, e per andar per mare bisogna smettere di non avere paura.
Qui su Mediterranea facciamo così, che in questo secondo anno i Rais fanno a turno il “Secondo in comando“, quello vero. Mestiere indefinito e difficile il Secondo, fatto di servizio, d’intuizione, di previsione, di preparazione. E’ il consigliere privilegiato del Comandante, qualcuno che potrebbe stare al suo posto, che ne ha la sapienza e l’esperienza perché sa leggere il giorno, appena sveglio, capire al primo sorso di caffé se il mattino annuncia gioia o sofferenza, se occorre andare, e rapidamente, o aspettare, anche a lungo. Il Secondo in comando sente la barca, le tasta il ventre, le batte le dita sulla schiena-carena mentre gorgoglia il suo “trentatré”, dunque la ausculta. Il Secondo è anello forte della debole catena di comando, fatta d’un niente significativo, d’indizi, e capisce equipaggio e comandante, guarda la prua e la poppa della barca, del mare, del viaggio. Ho conosciuto pochi veri Comandanti in vita mia, pochissimi veri Secondi, e sulle loro barche si navigava con invisibile ordine, con sovrana e sobria dignità. Questo devono imparare i Rais di Mediterranea, quest’anno, e stavolta devono impararlo per sé.
Qui su Mediterranea facciamo così, che il Comandante fa spesso compiere le manovre al Secondo. Che sia in mare, alla vela, che sia in porto, per l’ormeggio, che sia una passe, che sia un fiordo, che sia un istmo, che sia un capo, discute con lui, decide con lui, spiega, racconta. Con pazienza, con autentico amore per la marineria, insegna. Il Comandante deve imparare ancora dal mare, e se è vero Comandante lo sa. Ma quel che sa ha il dovere di raccontarlo. Quel che sa davvero, tuttavia, non ciò che suppone, non ciò che spera di sapere. In ogni gesto, in un nodo, in un arco di rotta, in mare c’è il tentativo della perfezione, che è sempre e solo interpretazione dell’inesplicabile. Troppe forze concorrono perché un solo uomo, un solo equipaggio, le governi. Per questo il Comandante spiega che navigare è un’operazione intellettuale, prima che fisica, e i suoi ingredienti sono la previsione, la preparazione, l’intuizione, la finzione di qualcosa che ancora non è, perché quando sarà possa essere già vissuto, almeno nell’immaginazione che è maestra dell’esperienza.
Così i Rais di Mediterranea accumulano centinaia, migliaia di miglia. Così imparano che sapere il mare è difficile senza umiltà, senza tempo. Così comprendono che qui, su Mediterranea, cerchiamo di creare quello che di solito non ha nessuno: l’opportunità di vivere il mare, davvero. Perderla o coglierla è questione che riguarda l’individuo, prima del marinaio. Non offrirla, sarebbe un grave problema di Comando.
Qui su Mediterranea facciamo così“.
Qua e là
Georgia. Pochi chilometri al confine azero, armeno, iraniano, russo. Essere lontani, in un altrove che è davvero più in là, fa parte della vita libera. Non si può stare sempre qua. Qua è qua, dove sei già, dove sei sempre. Sempre qua. Che è come fosse sempre là. Perché è sempre. Invece “a volte”, spesso, quanto basta, è necessario. Là è via, lontano, per qualche istante pare perfino che sia altro “da sé”. Ma non è vero. Però per quell’istante sembra che lo sia. Fingersi là è condizione necessaria e sufficiente per poter, poi, essere qua. Solo chi è là è davvero qua, non il contrario. Provo a spiegarlo, ma non mi riesce molto, ultimamente. Ti prendono per uno instabile, che non sa quello che vuole.
E quale sia il mio là, è cosa da definirsi. Ognuno ha il suo est, dicevo, ognuno è il suo laggiù, luogo, ma anche solo condizione, dove risuoni sempre meno con te, il segnale è debole, prendi un’altra rete, sempre più connesso all’altro. L’altro che sei, ma che non pratichi mai. La vocina del mattino, sfrontata, che ti dice “dai andiamo via!”. O quella dei momenti di inattesa solitudine, per un ritardo, per un fraintendimento, quando speri che duri, per pochi istanti svincolato, non connesso, contumace. Quando ti dici “basta, vado via, non è per me!”. Ognuno ha un là, che poi è il qua di chi sa ancora perdere il controllo. Ecco il nemico del giorno: il controllo. Chi non sa sfuggire alla sua fame di dominio su di noi è condannato al qua, non sarà mai là. Dunque non sarà mai qua.
E che c’è là? L’altro, la sua materiale differenza. Altro corpo, altra mente, altro cuore. Fuori dalla gabbia che ti sforzi di vedere immensa, di addobbare e nominare in modo esotico, in cambio di quel poco di certezze per sopravvivere. Ci riesci sempre a contenere la sua voce? Spero di no, per te. Non andare là, di tanto in tanto almeno, può essere fatale. Prima o dopo peserà, e quel giorno il qua andrà in frantumi. E sembrerà, naturalmente, che esploda per questioni di lavoro, per colpa di qualcuno, per un diverbio, per una delusione, per soldi. Sappiamo che non è così. Meglio sarebbe non aver capito niente di queste righe, oggi e quel giorno. Sarà più facile mentire.