Rotta 2018 di Mediterranea

Se volete venire a bordo con me, anche solo per una settimana, scrivete a info@progettomediterranea.com

Ed ecco la Rotta 2018 di Mediterranea. Se volete partecipare, scrivete all’email che vedete nella cartina geografica.

D’inverno, che si viva nei boschi o tra le isole, a questo si pensa. Alla rotta. O almeno, a questo si pensa se si ha un progetto nel cuore, se si è salpati per l’unico motivo di svolgere quella spedizione, con i reali profondi interessi che riveste per te.

Progetto Mediterranea è uno dei miei “libero di”, cioè uno dei motivi (non l’unico) per cui 10 anni fa ho buttato all’aria tutto quel che avevo costruito, per cui avevo lottato, che poteva fruttarmi tante delle cose che tutti vogliono. A me tutto quello non bastava.

Io volevo realizzare qualcosa di diverso, vivere altri stati, altre emozioni, altre vite possibili. Volevo trovarmi scalzo in porti scalcinati, senza l’assillo del tempo, il peso delle responsabilità. Seduto con le gambe a penzoloni su un molo, magari, o a scrivere seduto sotto l’incannicciata di un bar turco. Conoscere il Mediterraneo davvero, baia per baia, porto per porto. Anche grazie a queste navigazioni è nato “Rais”, o “Atlante delle isole del Mediterraneo”.

E poi ascoltare le voci, le idee, incontrare non solo i talentuosi colleghi o gli schizzati che un Direttore del Personale pazzo mi aveva messo accanto. No, non solo quelli, e non per sempre… Volevo conoscere intellettuali, artisti, giornalisti che vedono il mio stesso mondo dalla costa opposta, che hanno idee migliori delle mie. O pescatori turchi, baristi libanesi, cameriere o funzionarie greche, israeliane, tunisine, francesi. Gente della mia terra. Gente del mio mondo. Del mio mare.

E non volevo farlo da solo, cosa che avrei potuto fare senza problemi. Ma con persone che avessero analoghe passioni. Che cercassero cose in sintonia con la mia visione. A cui potessi offrire quel ho da dare, per ricevere quel che loro volevano darmi. Mi piaceva l’idea che avendo qualche talento (come ognuno ne ha di propri) e avendo fatto certe scelte, non solo io, ma anche altri ne beneficiassero. L’ho fatto per farmi voler bene, certo, come sempre facciamo tutti, ma non solo. La costruzione di cose utili a tanti, grazie alle energie che abbiamo e a ciò che possiamo mettere in comune, è il primario e forse maggiore contributo che possiamo offrire al mondo. Io questa domanda me la faccio sempre: “cosa porto io, cosa offro, cosa sto dando io ad altri, che possano goderne?”.

Per questo sono salpato. Per non morire prima di aver fatto ciò che amavo. Prima di aver fatto tutto il possibile.
Quanto ho da vivere, trent’anni? Oppure due? Ecco, ora non è ancora quel giorno. Per questo sono partito nel 2013 e poi ufficialmente nel 2014. Per questo ho ideato e lavoro tanto a #ProgettoMediterranea.

Dunque, eccovi la rotta per quest’anno. Da Trapani a Lisbona via Marsiglia. Guardatela e, se volete, venite con me.

————————————————————–

Tra maggio e settembre navigheremo da #Trapani fino a #Lisbona, in una rotta tutta europea. Quelli che chiamiamo gli “Amici di Mediterranea”, cioè chiunque voglia venire a bordo per un tratto, sono i benvenuti per condividere e partecipare alle attività della spedizione.

Le tappe principali sono quelle indicate sulla mappa e lì si svolgeranno i cambi dell’equipaggio, mentre durante la navigazione, ci saranno soste in baie e in eventuali piccoli porti intermedi. Attraverseremo il #Pelagos – Santuario dei Cetacei, splendida area marina protetta del #Mediterraneo, compresa fra la Toscana, Liguria, Sardegna e Provenza. Saremo quindi a #Marsiglia e #Barcellona, per gli incontri culturali del programma culturale del Progetto Mediterranea e poi, attraverso #Gibilterra, passeremo in #Atlantico per raggiungere Lisbona. Sempre con rispetto di ciò che il mare vorrà concederci.

Per ricevere il calendario di navigazione, per prenotarvi e per ogni altra informazione, l’unico modo è scrivere all’indirizzo del nostro sito, che vedete sulla cartina.

#progettomediterranea #Rotta2018 #incontriculturali

Share Button

Aspetto il vento

Un vulcano. Un’isola. Ieri..

Navigare. Sempre. Muoversi prevalentemente tra le isole. Tracciare rotte e percorrerle, evitando quelle soltanto immaginate come fossero teredine in grado di sbriciolare lo scafo duro della più resistente esistenza. Disegnare poi, col carboncino del fuori rotta, che differisce sempre dall’idea primigenia, immagini marine occulte, tinte di sorpresa e sconcerto, giorni duri e meraviglia. Comprendere, soltanto molto tempo dopo, che quel profilo, che pareva solo linea rotta, somiglia a ciò che non sapevamo immaginare così puntualmente, l’idea mai avuta di sé, che dovevamo avere nel “tempo sognato in cui bisognava sognare”. Assorbire, con la sensazione mutevole che recano le buone o cattive notizie, ciò che eravamo, ciò che siamo diventati, nel cazza e lasca di quella che non sapevamo fosse ben più di una tratta, ma il farsi mentre lo si sta facendo. Il divenire mentre si sta diventando. E di cui, generalmente tardi, comprendiamo il rispetto dovuto, che avremmo dovuto, incerti di essere più colpevoli o più vittima, giacché chi lo doveva dare e chi ne aveva diritto erano la stessa persona. Eppure, così, improvvisamente, prima di quel giorno, come oggi, accorgersene, in medio tratto, nella linea rotta del presente.

Mi sono accorto che sono salpato, qualche anno fa, per un lungo viaggio, con un’idea del Mediterraneo fatto delle terre-nazioni che lo attorniano; mi sono sviluppato di miglio in miglio in un’idea di Mediterraneo delle città che lo accumulano, custodi della sua anima puntiforme e della natura lunga; mi sto distaccando dal pregiudizio dell’inconoscenza con l’idea di un Mediterraneo delle isole, contenuto in luogo del contenitore, il mare, dunque, finalmente, non i paesi; il mare, non le terreferme; il mare, non i fondachi assurdi in cui, pure, godere. Isole, punti di una retta tracciata da un maniaco, che a unirli riflettono sempre e solo un’altra immagine (la sua vittima), anche se offrono senso. Da osservatori, quando si salpa davvero, si diventa amanti, poi tessitori, di lunghi dialoghi amorosi sulla tela seta della speranza.

Aspetto il vento, qui, oggi, in una baia a scirocco. Forse mercoledì arriverà da ponente. Rotta a sud per un’altra, ennesima isola. Il punto estremo e fatale di un visionario cieco, amaro: Dragut rais.

Share Button

Parole. Navigazioni

Isole, prua, mare, costa.

Scrivo e correggo mentre navigo nell’Egeo. Un libro anomalo, sulle isole. Linguaggio di ricerca, parole prima pensate, poi create e sperimentate, forzate al senso estremo del loro significante. Facevano così i maestri d’ascia, che per ogni lavoro prima si costruivano lo strumento. Ieri col vento che spingeva bene, ho cercato di descrivere i suoni che ascoltavo, il ciangottio della poppa, il fruscio della chiglia, il tintinnio dei grilli, le campane delle drizze, gli stocchi delle torsioni del legno. Le parole raccolte sul mare hanno una precisione particolare: spiegano anche molto coi suoni. Dunque, precisamente, non sono solo parole, ma anche note.

Vengo da Levante, dopo Cipro, Libano e Israele, dandomi il cambio a bordo con altri marinai con cui, ognuno per le sue tratte, abbiamo percorso con calma 800 miglia in cinque settimane, fino a Kythira, sud Peloponneso. In migrazione, come i pelagici, seguo venti e correnti, sfruttando ogni possibile angolo tra la prua e i flussi. Navigare a vela è una questione goniometrica e di scorrimenti.

Ma non solo pelagico, anche in grado di fermarmi, dunque dialogico: comunichiamo, silenzi e parole, note e pause del grande spartito. A bordo e negli sbarchi conosciamo, tornando come gli assassini sui passi dei nostri transiti più o meno sanguinosi. Ci rappacifichiamo con le baie patite, scopriamo rade tralasciate in remoti giorni di agitata navigazione. Come pescatori eternamente intenti, rammendiamo reti, cuciamo strappi alle vele, sorprendendoci assai spesso. Vivere in mare è questione artigianale, che si fa con le mani.

Passare molto tempo in mare: lo “strumento” più simile al “fine” che io conosca. Come l’imbarcazione, che mentre porta lontano offre cittadinanza, consente l’immaginazione di sé negli altrove senza patria che un giorno, forse, saranno casa. Ma solo se verranno sognati: il mare favorisce sane nostalgie, proietta il pensiero, ma fa derivare senza meta se il marinaio non riesce a vedere l’invisibile.

Per questa rotta, da levante a ponente, così facendo, così sentendo, così cercando, non incontro isole né approdi, che pure rincorro per il mio libro. Con le vele e con la mente sperimento la condizione insondabile e temporanea da cui vengono le idee, le immagini, e soprattutto le parole:

Erede dell’oro e protagonista della miseria, il marinaio è ricco della moneta fuori corso con cui si acquistano i sogni e si vendono le nostalgie. In bilico tra la vita e la morte, non abita mai ciò che è suo, è sempre costretto ad abbandonare ciò che gli appartiene, e risiede lungo la rotta stimata tra i diversi. Per questa rara facoltà, paradossale e metafisica, condanna che brucia sulla sua pelle più di qualsiasi ferro rovente, l’uomo di mare è l’unico a saper sillabare l’inconsapevole alfabeto del senso. Un’odiosa balbuzie, il suo racconto del Mediterraneo…

Share Button

Adesso Basta (e Mediterranea) a RAI3

Dal minuto 20′.52″. Riflessioni sul cambiamento a “Ambiente Italia”, su RAI 3. Buona visione.

Share Button

Chissà

IMG_20151122_164745_edit

Olymbos, Karpathos. Poco fa.

Febbraio e marzo a Istanbul. Poi Mar Nero, Bosforo, Marmara, Dardanelli, tutto l’Egeo da agosto ad oggi, da Lymnos al Dodecaneso, solo un breve stop in mezzo. Nel frattempo, tutto. Cose mie, cose personali, ma anche altre, luci che illuminano la scia. Anche un gatto, ad esempio, quel pomeriggio a Kadikoy. Pomeriggio trafelato di polizia e doganieri, corse, attese, mazzette e traghetti. Un gatto grigio e bianco, duro maschio della costa. Mi ha guardato con aria interrogativa, occhi acuti, smorfia di disappunto esistenziale. Mi sono sentito giudicato, e aveva probabilmente ragione. Chissà…. 

Chissà se il nostro amico marinaio è ancora nella sua tana a Messolongi, accenna a cose grosse che possono accadere, o ha deciso di rompere gli indugi e salpare. Chissà se la barista di Kithyra ha terminato il suo fitto dialogo d’amore al telefono. Chissà se a Chanakkale ci sono ancora quei bambini che giocano a pallone sotto al monumento di Piri Reis. Chissà se il pescatore di Rize accoglie ancora i forestieri con una cassetta di acciughe e triglie. Chissà se i poliziotti di Batumi sono ancora in combutta con l’agente navale, come in quel pomeriggio umido e teso. Chissà se il vento tra Lymnos e Chios è calato, insieme alle onde che ci facevano impazzire. Chissà se quella ragazza sfuggita al bombardamento del villaggio vicino a Aleppo è riuscita a raggiungere la Svezia. Chissà come stanno quei poveri ragazzi esausti, giunti a Kos a remi, neppure la forza di rispondere a un saluto. Chissà se il figlio della sorella, ventotto giorni, sopravvissuto già a un naufragio, sta bene. Chissà se a Leros i giramondo italiani a vela cenano ancora insieme e si ricordano di noi, come noi di loro. Chissà come stanno le miriadi di delfini del Mar Nero, che saltavano giocosi ad ogni miglio. Chissà come stanno i due skipper stanchi di Rodi, innamorati della Sardegna, delusi del presente. Chissà se a Nisiros hanno preso un altro pesce spada, ieri il tempo era ideale. Chissà come sta il mendicante che salutavo ogni mattino sotto casa a Tiblisi, e chissà se lungo i viali di Salonicco c’è ancora il bel passeggio di splendide ragazze in fiore. Chissà se all’alba a Goekcheada i militari escono ancora a fare la traina, e se si ricordano di una bella barca con quattro vele a riva che navigava verso lo stretto accolta dal loro saluto. Chissà che fa il direttore del porto di Tsarevo, e come sta la sua giovane e bella fidanzata italiana. Chissà cosa pensano ora del Mediterraneo Vassilikos, o Murat Belge, Omer Livaneli e Petros Markaris, che si complimentarono così tanto con noi. Chissà come sta Babis, nella sua romantica casa di Kavala. Chissà come stanno gli amici di Samsun, e le loro figlie che non volevano sposarsi, ma viaggiare.

Chissà, chissà… se quel gatto ha finito di mangiare il suo piccione. Lo aveva difeso soffiando, mostrando i denti, e se lo meritava. Guardando me preoccupato, che divoravo una pita col kebab, in attesa del traghetto, deve essersi fatto delle domande. Tutto sommato, nessuno stava tentando di portarmela via. Dunque, qual era il problema?

Share Button

Voci del Mediterraneo

Voci dal grande viaggio di Mediterranea. Primi diciotto mesi di navigazione. Grande esperienza, grandi visioni, grandi uomini, grandi parole.

Buona visione.

Share Button

L’occhio di Istanbul

“Ogni volta che ho fatto una foto, ho cercato di andare in profondità nell’uomo. Io sono un fotografo dell’uomo”.
“Nessuno può sapere quali foto di Capa siano sue effettivamente, né quante siano state fatte dalle sue compagne. La famosa foto del miliziano spagnolo, ad esempio, non è la sua“.
Questa città è magica… ma vive un’epoca di demolizione”.
“Guarda questa foto. Questo è il Mediterraneo“.
“Fare foto è una questione di composizione. E la composizione è nella mente”.

Intervista all’ultimo mito della fotografia ancora vivente. Ara Guler, nell’AraCafé di Istanbul, il suo bar.

Share Button

Oltre il muro

IMG_20150922_133711

Ruhollah e Perisa. Afgani. Persone.

Tra i migranti sul confine greco-turco.

Mitilene, Lesvos, Grecia, 22 settembre 2015

Luce di piombo sul porto, aria di scirocco distratto, che appiccica i vestiti addosso. Un peso invisibile sul cuore di questa linea di confine, dove sui muri trovi le offerte di lezioni di turco, dovunque locali di kebab e dove i capitali anatolici hanno costruito un marina molto attrezzato e gestiscono gran parte degli alberghi.

La cittadina è invasa di stranieri. Un esercito silenzioso, che sciama per il lungomare, l’angiporto, e si raduna sul molo, tra tende e bivacchi. “Aspettiamo il traghetto di questa sera”, mi dice Alis, “abbiamo già i biglietti”. Me li mostra con una certa soddisfazione.

Poco fa mi sono avvicinato alla zona occupata, lentamente, con qualche angoscia. Volevo parlare con loro, i migranti che riempiono le pagine dei quotidiani. Volevo entrare in contatto, rompere il muro. Sono radunati tutti nella parte orientale della città, assiepati sulla banchina principale, oppure a gruppi o isolati sull’estremità di un molo, con lo sguardo all’orizzonte, verso la terra turca lasciata da poco. Chi devo fermare, mi chiedevo, a chi devo rivolgere la parola per fare qualche domanda?

Il più, per decidere, l’hanno fatto gli occhi. E’ bastato smettere di non guardarli, come avevo fatto un giorno fa. Un misto di rispetto e paura, di ritegno e timore, uno giustificato, l’altro no. Dopo una decina di passi, subito un sorriso, un cenno d’intesa: “Prego, siediti” mi dice Alis, ventotto anni, siriano di Aleppo, studente di scienze della nutrizione, con occhiali un po’ storti, rotti in una estremità, e un sorriso persistente sulle labbra. Mi accomodo sulla stuoia a bordo molo, mi presento, offro qualche sigaretta. Sono in otto, tre sono amici, gli altri si sono conosciuti in viaggio. Uno di loro lavora, fa il fabbro, gli altri studiano economia, ingegneria, storia. Tutti parlano un discreto inglese. “Lui è di Damasco, io e gli altri di Aleppo. Sempre se esiste ancora Aleppo…”. Mi parlano della città distrutta, delle violenze, dei bombardamenti in ogni angolo del paese, visti di persona o saputi da amici e famigliari. “Non si può più vivere laggiù, siamo dovuti partire”. Come avete fatto a passare il confine turco? “Ci hanno accompagnato dei frontalieri. Quasi mille dollari a testa. Di notte. Ci hanno radunato in una casa e poi ci siamo mossi. Abbiamo camminato ininterrottamente per ventiquattro ore. Qualcuno non ce l’ha fatta e si è staccato, seduto per riposarsi. Ma i frontalieri sono andati avanti, e noi li abbiamo seguiti. Tutta in salita, sulle montagne, e poi giù a strapiombo”. Gli chiedo se hanno usato violenza contro di loro. “No, solo qualche gesto… Ma qualcuno ha sparato, non lontano. Abbiamo visto i lampi dei fucili a ripetizione, ci siamo messi a correre”. Gli chiedo se sa il perché di quegli spari, ma sorride, scuote la testa. “E dopo, quando siete arrivati in Turchia?”. “La gente che abbiamo incontrato è stata gentile, non tutti, ma la maggioranza sì. Ci hanno dato da bere, da mangiare. La polizia turca ci ha sistemati su un autobus per Izmir, ventiquattro ore di viaggio”. E da Izmir? Come avete fatto a trovare un imbarco? “Altri siriani ci hanno detto dove andare, abbiamo incontrato gli scafisti, pagato ottocento dollari per un posto a bordo”. Su che barca? “Un gommone di nove metri, eravamo quarantacinque” ma un altro ragazzo lo corregge: “Quarantasei”. Faccia paffuta, sguardo buono, non chiedo il suo nome. Un miliziano dell’Isis ha ucciso sua sorella a colpi di mitra, ma oltre un accenno a questa tragedia non fa. Racconta della traversata: “dovevamo togliere l’acqua da dentro con un secchio continuamente, senza mai fermarci. Entrava  in grande quantità, perché eravamo al limite con l’affondamento. Eravamo zuppi, faceva freddo. Ma almeno io sono riuscito a farcela al primo colpo. Lui è stato meno fortunato”. Accanto indica un ragazzo magro, il più giovane del gruppo, Rashid, 21 anni, studente di economia, sguardo vispo, occhi rapidi, intelligenti. Lui ci ha provato addirittura otto volte, e in sette tentativi la guardia costiera greca li ha rimandati indietro. “L‘ottava volta lo scafista voleva farci ripagare il prezzo,” racconta “ci siamo azzuffati, avevano dei coltelli, ma noi eravamo tanti, e alla fine ci hanno imbarcati. E ce l’abbiamo fatta. Mi chiedo se i tentativi fatti a vuoto non fossero un caso…”. Ridono tutti, scambiano qualche battuta in arabo. Lo prendono in giro, credo, per quello che ha appena detto.

I greci che hanno trovato sulle coste di Lesvos li hanno aiutati, offerto cibo e acqua, indicato la via del porto. Anche i pochi poliziotti greci che hanno visto, solo in due occasioni, sono stati cortesi. In effetti in tre giorni non ho mai visto un gendarme, a parte da lontano, un’auto della polizia con i lampeggiatori accesi. In porto ci sono una decina tra pilotine e corvette di capitaneria e marina militare, ma oltre a questo non c’è alcun servizio d’ordine sull’isola, dove sta il grosso delle migliaia di migranti che quotidianamente si danno il cambio tra chi riparte e chi arriva. Non si avverte alcun bisogno di reprimere o arginare, non si ascolta alcuno schiamazzo, nessun litigio, nessun gesto violento. C’è più confusione a Civitavecchia, ad agosto, per imbarcarsi verso la Sardegna.

Penso che infatti questi non sono migranti, è improprio chiamarli esuli, disperati, perché sono viaggiatori. Hanno tutti deciso di andare via, hanno del denaro con sé, hanno una meta (“amici siriani in Svezia, che ci aspettano, che sia fatta la volontà di Allah”), si siedono a centinaia sulle banchine, ma altrettanti popolano i locali del porto, che stanno facendo affari d’oro, mangiano qualcosa, bevono, usano il wifi. Sono vestiti ordinati, per quello che consente un simile viaggio, si lavano alle fontanelle, o direttamente in mare. Ho più macchie e buchi io nei pantaloncini che uso per navigare di loro che viaggiano da cinque giorni. Mi guardo e mi vergogno un po’.

Mi raccontano che a Damasco ci sono spesso attentati, bombe, e che in molte parti del paese regna la violenza. Per questo sono partiti. “Qualunque cosa è meglio di quella vita. Stasera andiamo ad Atene con la nave, poi andremo in Macedonia, poi in Serbia e poi vediamo. Pensavamo all’Ungheria, ma lì c’è un governo di destra che non fa passare nessuno. Per chi va in Germania non è molto difficile a quel punto. Per chi va in Scandinavia c’è ancora molta strada”. Stimano quattro settimane di viaggio almeno. Sorridono, come a dire “stiamo freschi, hai voglia la strada che manca ancora”.

Ci salutiamo. Mani sul cuore, invocazioni alla sorte e a Dio. Anche se mi pare che di Dio qui non ci sia molta traccia. Mentre di coraggio e voglia di vivere ne vedo dovunque.

Poco dopo gli sguardi s’incrociano con Ruhollah, che viaggia con la nipote. Sono entrambi afgani, due facce dolci, gentili, la ragazzina avrà tredici anni, lui ne ha diciannove. “Siamo afgani ma siamo dei senza terra”. Mi spiega che sono dovuti fuggire in Iran perché i Taliban li avrebbero uccisi. “Noi siamo mussulmani sciiti, e i Taliban dicono che se uccidi sette sciiti vai in paradiso. Mi chiedo dove stia scritta una bestemmia del genere. Non certo nel Corano. Io il Corano l’ho letto tutto”. Ruhollah è un ragazzo educato, parla un ottimo inglese, è vestito molto bene, ha una camicia bianca linda. Mi spiega che tutta la loro famiglia ha studiato, ma che in Iran erano dei senza terra, senza patria, senza diritti. “Siamo dovuti fuggire, purtroppo non insieme, in momenti diversi. Io e Perisa abbiamo valicato il confine con la Turchia a est di Aleppo, circa sessanta chilometri a est, camminando quarantotto ore senza fermarci mai, notte e giorno. Lei era sfinita, e io anche ad essere sinceri. Chi ci ha condotto ci ha dato bastonate per farci muovere quando ci sedevamo per un momento. Poi quando abbiamo incontrato i turchi, loro sono fuggiti”. Gli chiedo quanto hanno dovuto pagare. “Ottocento dollari a testa”. “Di che nazionalità erano i frontalieri?” “Siriani. Uno forse iracheno”. “E i turchi come vi hanno trattato?” “Molto bene. Curdi e turchi ci hanno aiutato, e non solo la gente comune, anche i militari. Ci hanno consegnato un pacco con dentro acqua e viveri e ci hanno messi su un autobus per Ankara. Poi siamo arrivati a Istanbul. Lì abbiamo incontrato gente che ci ha spiegato come fare per la traversata. In tutto abbiamo viaggiato dieci giorni per arrivare qui a Lesvos”. Le storie coincidono con quelle dei ragazzi siriani, ma il prezzo pagato per la parte a mare è maggiore: mille dollari a testa. Ruhollah mi spiega che è stato terrorizzato fino all’ultimo, perché “a bordo di un gommone di non so quanti metri, ma non tanto grande, eravamo in trentacinque. Io ho pensato che saremmo morti tutti. C’era anche un bambino piccolo, non so, forse di un anno appena, che piangeva, e Perisa stessa era in lacrime. Era notte, non si vedeva niente. Chi non aveva le scarpe sugli scogli si è fatto tagli profondi. Poi, grazie alla volontà di Dio, siamo arrivati qui. Adesso finalmente siamo in salvo, e ora è anche tutto legale”. Mi colpisce questa affermazione. Gli chiedo se abbiano documenti o altro per l’identificazione: “No, nessun documento”. E come fate allora? “Siamo rifugiati, il diritto internazionale è molto preciso su questo”. Sto parlando con un migrante che conosce il diritto internazionale a diciannove anni. “Io studio legge, cioè, studiavo, ero al primo anno, poi sono dovuto partire. Ma spero di ricominciare appena arrivo in Svezia”.

Stasera partirà anche lui, partiranno tutti, per lasciare posto sui moli ad altre migliaia in arrivo. Li guarderò passare a bordo del traghetto, che sfila avanti piano a poche decine di metri da Mediterranea e poi passa su avanti tutta con la prua a sud. Speriamo vedano che li saluto, che auguro loro buon vento. Tutti in viaggio per un’altra vita.

Share Button

Vita

migranti lesvos

Mentre si lavano

Io non avevo mai visto i migranti. Ieri ci ho passeggiato accanto, dentro, mi sono seduto con loro, li ho osservati, fotografati, ho tentato di vivisezionare i loro volti, capire. Erano stanchi, coi vestiti fradici, bisognosi di tutto…. Avevano nostalgia di casa, alcuni si sentivano soli, seduti con le braccia sulle ginocchia, e guardavano intorno a loro con un’espressione di spaesata e fatale attesa. Poca basilare assistenza intorno a loro, bottiglie d’acqua passate di mano in mano con trepidazione, solo una decina di bagni approntati alla bell’e meglio, odore di piscio, feci, corpi sudati, giubbotti salvagente dovunque, l’arancione, il colore accecante del naufragio. Certo, ho visto tutto questo. E mi ha fatto molta impressione. Con loro non c’era che qualche sparuto volontario. Non erano chiusi in alcuna gabbia, ma in un’area aperta, sul porto, e per la città, quasi rispettosamente al limitare di essa, fusi con i greci, eppure separati da un filo invisibile.

Eppure… ho visto sorrisi, tra loro. Ho visto bambini che giocavano, mamme pronte a intervenire, uomini che si raccontavano stesi su un molo, abbracci, selfie, qualcuno che si lavava con un goccio d’acqua preziosa, ragazzi dal volto di studente che lavavano in mare i propri vestiti. Non ho visto straccioni, miserabili, ma persone. Ho visto che gli asiatici tendevano già a riunirsi tra loro, come i mediorientali, riproducendo una città migrante di quartieri. Ho visto l’intraprendente che provava a vendere acqua avuta chissà come. La ragazza che guardava il ragazzo che non conosceva. L’uomo che guardava il vicino di tenda. La famiglia seduta a circolo, qualcuno che alzava un braccio, mi lanciavano un sorriso, accompagnato dalla ricchezza inesauribile della parola. Ho visto la vita che corre, inesorabile, sui destini veri degli uomini, non quella che pensiamo noi. E ho visto che dai nostri occhi erano dei derelitti senza nulla, ma dai loro erano dei vincenti, tutt’altro che disperati, speranti migranti che ce l’avevano fatta, perché avevano avuto il coraggio di partire, di non arrendersi, e non erano morti per la via, e stanotte nessuno li avrebbe aggrediti, violentati, uccisi. Erano in salvo.

Ingenui, immemori, inconsapevoli. Ma cosa pensavamo, che gli uomini non migrassero? Che non cercassero una vita migliore? Lo fanno da sempre, a miliardi sono migrati, sempre, da un milione e mezzo di anni. L’uomo primitivo nasceva nell’Africa lussureggiante e meravigliosa, mai contaminata dall’uomo, dal suo sfruttamento, dal suo colonialismo, eppure si mise in marcia, prua a nordest, l’Egitto, la Georgia caucasica, lì si divisero, prime intemperanze sulla meta, qualcuno accostò per l’Europa, altri per l’Asia. Dove andavano? Cosa li spingeva? Cosa cercavano? Alla base del castello di Mitilene ieri leggevo che le case del borgo settentrionale furono occupate nel 1922 dai 180.000 migranti che provenivano dall’Asia Minore, fuggiti da un cataclisma geologico. Oggi ci vedo i migranti che fuggono dalle guerre. La storia si ripete. la storia dell’uomo vero, non di quello che inventiamo noi. Che non esiste. Quella vita assurda, che non abbiamo fatto noi, che è tragica, immotivata, addolorata, eppure speranzosa, possibile, che non può che essere tentata, dove un sorso d’acqua ha valore, dove un sorriso ha valore, dove la speranza è un miraggio, ma è l’unica cosa che abbiamo.

(Che il loro arrivo trovi noi europei impreparati, divisi sui valori dell’accoglienza, incapaci di condividere le nostre fortune, dunque di aiutarli davvero, è tutt’altro discorso, troppo lungo per queste mie prime impressioni).

(Sono qui con Progetto Mediterranea. Segui quel che “vediamo” del Mediterraneo su www.progettomediterranea.com)

Share Button