Li vedevo ogni giorno…

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Suruc. La ragazza che fa il selfie è ferita, ma si è salvata. Quella che sorride a sinistra, e l’altra con la fascia nei capelli, sono morte.

Ecco i volti che ho conosciuto. I turchi giovani, e non solo, pieni di speranze, di voglia di vivere. Stavano andando a Kobane per ricostruire una biblioteca, piantare alberi, offrire il loro lavoro di volontari. Sono stati uccisi. Giovani socialdemocratici, come sono stati definiti. Io me li ricordo bene. Li vedevo ogni giorno mentre camminavo per Istiklal Caddesi, verso Taksim o verso Galata, andando o tornando dall’Istituto Italiano di Cultura. Li vedevo manifestare, spiegare, sorridevano dandomi un volantino, o anche solo passeggiare, chiacchierare in un bar. Mi fa impressione ritrovarli in questi volti, pochi istanti prima di essere falciati dalla solita bomba del potere, la solita esplosione odiosa e a orologeria con cui si tenta di arginare la parte buona della Turchia, del Mediterraneo, della vita.

Oggi che sono un po’ giù, che non riesco a fare, non riesco a scrivere, non riesco a pensare, mentre avrei così tante cose di cui occuparmi, cerco di darmi uno strattone, una pacca sulla schiena, mi alzo e mi rimetto in cammino. Pensando a loro.

Maledetti uomini potenti, maledetti avidi, maledetti politici, maledetti integralisti del nulla. La vostra bomba può uccidere trenta giovani meravigliosi, ma deve fare a tutti gli altri l’effetto di un risveglio, ognuno nel suo, e non un danno in più: passare inosservata, non generare reazione in chi non era lì. Chi non era lì è coinvolto, perché sta qui, dove lentamente crolla, ogni giorno, il muro contro l’ignoranza, contro la decadenza, e dove esploderà una bomba, un altro giorno a venire, perché oggi non abbiamo innaffiato il campo. Vi girerò contro la vostra bomba, maledetti, con l’impegno, col respiro, con il mio lavoro. Se ad ogni esplosione il Mediterraneo imparasse che vale tanto quanto vale ogni suo singolo individuo, il suo orgoglio, la sua lucida fermezza, i morti varrebbero più dei vivi.

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L’onesto patto

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Un cargo. Cide, Mar Nero (TK).

Curo la mia piccola verruca, nel silenzio della cabina. La osservo, le spalmo sopra un po’ del liquido che la sta eliminando. Leggo poche pagine, sottolineo una frase, guardo fuori dall’osteriggio. La marina immobile, placida, silenziosa, e la valle ampia, ariosa, dietro di lei, sono irrorate di luce dell’est. Seguo la coda di un pensiero con cui mi ero addormentato: lo afferro, gli salgo sul dorso, volo tra le isole e il mare. Lo mordo sulla nuca, lo bacio. La barca è ferma, poco sciabordio sulla poppa, l’equipaggio dorme. Sono le 06.00.

Quando navighi a oltranza, la vita a bordo scorre per rituali, o improvvise accelerazioni. Sveglia presto, un caffè sul ponte, un biscotto, una sigaretta, la lettura del portolano, degli isolari immaginari. Gli occhi vagano tra il paesaggio marino e l’armo, spiano dunque il mondo e la tua vita. Un marinaio, quando naviga, vive in una stanza con due sole pareti: il mare e la barca. Forse è per questo che talvolta si sente scoperto. Forse è per questo che talvolta si sente libero.

Fuori, prua oltre le luci rossa e verde del porto, il racconto si fa epico e aritmico. Ciniglia e carta vetrata, cotone e tela di sacco. Oggi che giorno sarà? La lieve apprensione fa da pelle del navigante. E come lo rassicura, talvolta, l’orizzonte, quando è piano, senza gobbe di onde! Il suo sgomento oscilla tra preoccupazione e rassicurazione. Una cura, distrae; l’altra accentua. Navigare, alla fine di ogni discorso, è stipulare un onesto patto con la malinconia. Quella che il mondo sulla terraferma combatte ogni giorno con rumore ed oggetti, il falso movimento, e che noi assecondiamo con autoconvincimento e infingimento, l’illusione.

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Facciamo così

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Salpati da Samsun (TK), h07.00. Mar Nero.

Pubblico anche sul mio sito un brano scritto per la comunicazione di Mediterranea.

“Qui su Mediterranea facciamo così, che i più esperti lasciano il posto a chi deve fare esperienza. Nel primo anno di navigazione la nostra imbarcazione ha richiesto l’umiltà dell’attesa, la cura dei lavori. Chi è venuto a bordo, che avesse tanta o poca esperienza, ha lavato, messo e tolto parabordi, partecipato ai lavori, ascoltato le rotte e le interpretazioni di vento e mare, senza farle. Chi è venuto, nel primo anno, che fosse schiavo, che fosse Re, ha dovuto chinare il capo a Mediterranea, conoscerla, rispettarla e prendersi cura di lei, imparando a stare a bordo. Il mare non perdona, e comunque non premia, i frettolosi, gli ambiziosi, chi non è umile e non ha pazienza. Per condurre una barca bisogna amarla, prima, e per andar per mare bisogna smettere di non avere paura.

Qui su Mediterranea facciamo così, che in questo secondo anno i Rais fanno a turno il “Secondo in comando“, quello vero. Mestiere indefinito e difficile il Secondo, fatto di servizio, d’intuizione, di previsione, di preparazione. E’ il consigliere privilegiato del Comandante, qualcuno che potrebbe stare al suo posto, che ne ha la sapienza e l’esperienza perché sa leggere il giorno, appena sveglio, capire al primo sorso di caffé se il mattino annuncia gioia o sofferenza, se occorre andare, e rapidamente, o aspettare, anche a lungo. Il Secondo in comando sente la barca, le tasta il ventre, le batte le dita sulla schiena-carena mentre gorgoglia il suo “trentatré”, dunque la ausculta. Il Secondo è anello forte della debole catena di comando, fatta d’un niente significativo, d’indizi, e capisce equipaggio e comandante, guarda la prua e la poppa della barca, del mare, del viaggio. Ho conosciuto pochi veri Comandanti in vita mia, pochissimi veri Secondi, e sulle loro barche si navigava con invisibile ordine, con sovrana e sobria dignità. Questo devono imparare i Rais di Mediterranea, quest’anno, e stavolta devono impararlo per sé.

Qui su Mediterranea facciamo così, che il Comandante fa spesso compiere le manovre al Secondo. Che sia in mare, alla vela, che sia in porto, per l’ormeggio, che sia una passe, che sia un fiordo, che sia un istmo, che sia un capo, discute con lui, decide con lui, spiega, racconta. Con pazienza, con autentico amore per la marineria, insegna. Il Comandante deve imparare ancora dal mare, e se è vero Comandante lo sa. Ma quel che sa ha il dovere di raccontarlo. Quel che sa davvero, tuttavia, non ciò che suppone, non ciò che spera di sapere. In ogni gesto, in un nodo, in un arco di rotta, in mare c’è il tentativo della perfezione, che è sempre e solo interpretazione dell’inesplicabile. Troppe forze concorrono perché un solo uomo, un solo equipaggio, le governi. Per questo il Comandante spiega che navigare è un’operazione intellettuale, prima che fisica, e i suoi ingredienti sono la previsione, la preparazione, l’intuizione, la finzione di qualcosa che ancora non è, perché quando sarà possa essere già vissuto, almeno nell’immaginazione che è maestra dell’esperienza.

Così i Rais di Mediterranea accumulano centinaia, migliaia di miglia. Così imparano che sapere il mare è difficile senza umiltà, senza tempo. Così comprendono che qui, su Mediterranea, cerchiamo di creare quello che di solito non ha nessuno: l’opportunità di vivere il mare, davvero. Perderla o coglierla è questione che riguarda l’individuo, prima del marinaio. Non offrirla, sarebbe un grave problema di Comando.

Qui su Mediterranea facciamo così“.

 

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Qua e là

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E io mi chiedo: da lì cosa sarei?

Georgia. Pochi chilometri al confine azero, armeno, iraniano, russo. Essere lontani, in un altrove che è davvero più in là, fa parte della vita libera. Non si può stare sempre qua. Qua è qua, dove sei già, dove sei sempre. Sempre qua. Che è come fosse sempre là. Perché è sempre. Invece “a volte”, spesso, quanto basta, è necessario. Là è via, lontano, per qualche istante pare perfino che sia altro “da sé”. Ma non è vero. Però per quell’istante sembra che lo sia. Fingersi là è condizione necessaria e sufficiente per poter, poi, essere qua. Solo chi è là è davvero qua, non il contrario. Provo a spiegarlo, ma non mi riesce molto, ultimamente. Ti prendono per uno instabile, che non sa quello che vuole.

E quale sia il mio là, è cosa da definirsi. Ognuno ha il suo est, dicevo, ognuno è il suo laggiù, luogo, ma anche solo condizione, dove risuoni sempre meno con te, il segnale è debole, prendi un’altra rete, sempre più connesso all’altro. L’altro che sei, ma che non pratichi mai. La vocina del mattino, sfrontata, che ti dice “dai andiamo via!”. O quella dei momenti di inattesa solitudine, per un ritardo, per un fraintendimento, quando speri che duri, per pochi istanti svincolato, non connesso, contumace. Quando ti dici “basta, vado via, non è per me!”. Ognuno ha un là, che poi è il qua di chi sa ancora perdere il controllo. Ecco il nemico del giorno: il controllo. Chi non sa sfuggire alla sua fame di dominio su di noi è condannato al qua, non sarà mai là. Dunque non sarà mai qua.

E che c’è là? L’altro, la sua materiale differenza. Altro corpo, altra mente, altro cuore. Fuori dalla gabbia che ti sforzi di vedere immensa, di addobbare e nominare in modo esotico, in cambio di quel poco di certezze per sopravvivere. Ci riesci sempre a contenere la sua voce? Spero di no, per te. Non andare là, di tanto in tanto almeno, può essere fatale. Prima o dopo peserà, e quel giorno il qua andrà in frantumi. E sembrerà, naturalmente, che esploda per questioni di lavoro, per colpa di qualcuno, per un diverbio, per una delusione, per soldi. Sappiamo che non è così. Meglio sarebbe non aver capito niente di queste righe, oggi e quel giorno. Sarà più facile mentire.

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Insurrezione

Marco Guzzi, filosofo (nietzschiano). Bisogna tornare a parlare di filosofia (ad ascoltare i filosofi, discorrere con loro…) per fronteggiare la decadenza, l’impotenza. E occorre fare rete su questo. Guzzi propone di segnalarci reciprocamente i virgulti del “nascente” cioè della possibile nuova umanità che sale, pur osteggiata dal “rumore” della cultura “morente”. Sarebbe un buon inizio.

Io segnalo Un uomo temporaneo, naturalmente. Per me, uno dei possibili nascenti è lui: Gregorio.

#unuomotemporaneo

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Un anno per mare


Sognare. Progettare. E poi, vivaddio, salpare. Uno da solo non saprebbe farlo, non avrebbe sufficienti forza, idee, tempo. Ma tanti, insieme, sì.

Un anno fa, da San Benedetto del Tronto, partiva Progetto Mediterranea per la sua lunga peregrinazione via mare. Già l’anno prima, nel “riscaldamento”, avevamo navigato sei mesi tra Balcani e Golfo di Venezia, ma un anno fa partivamo ufficialmente. Ora siamo nel Mar Nero, tante miglia dopo, e proseguiamo imperterriti il nostro viaggio. A bordo un gruppo di noi, che ogni settimana cambia, come era previsto. In questo anno abbiamo incontrato mare, cetacei, tartarughe, uomini, coste, baie, storie. Ci siamo riparati sempre con umiltà negli angoli sicuri che ci ha offerto la sorte. Ci siamo risollevati dalle tante, inevitabili cadute. Mediterranea ha dimostrato a ognuno di noi, uomini temporanei, che non c’è spazio per uno solo rivolto a se stesso, ma solo per tutti noi rivolti verso il mondo. Nessun interesse, nessuna deroga dai nostri valori. 45 persone che viaggiano per piccoli grandi obiettivi comuni. Da condividere.

Un anno fa salpava Progetto Mediterranea, noi a bordo. Gente qualunque, ma non gente comune. Cercatori di senso. Scopritori del nostro mondo. Per non doverci dire un giorno, con disincanto: “ah, se fossi salpato!”. Noi siamo salpati, perché il tempo va, non torna, e quello che hai tentato, vada come vada, è il tuo ritratto: lo guardi e finalmente ti vedi. E tra cento traversie, inevitabili quando si vive davvero, siamo qui, stiamo navigando.

Siamo sempre stati all’altezza? Forse no, ma tante volte sì. Una spedizione, come la stessa vita, non la giudichi dai tanti errori, ma da tutte le volte che non ti dici bugie, capisci, hai un’idea nuova o sei grato a chi te la offre, salpi l’ancora e continui a navigare. Una mappa chiara, che non prevede scuse, solo responsabilità personali, e voglia di essere migliori di ieri. Con un waypoint chiaro: ogni cosa che viviamo la dobbiamo (anche) all’altro. Ogni giorno dobbiamo ricordarci di dirgli grazie.

Qui, per ricordarcela sempre, la “carta dei valori” di Progetto Mediterranea.

Occupy Elafonissos

 

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Esce (oggi)

Esce oggi Un Uomo Temporaneo (Frassinelli)

Dedico questo romanzo alle vittime del mobbing, dei ricatti sul lavoro, agli esodati, ai licenziati, ai disoccupati, ai precari.

Dedico questo romanzo ai male impiegati, ai sottostimati, ai sottoutilizzati, e agli sfruttati, costretti a fare il lavoro di due persone o a chi percepisce la metà di quello che merita.

Dedico questo romanzo a chi è costretto a subire soprusi sul lavoro, discriminazioni di provenienza, di razza o di genere, o a chi semplicemente è costretto a convivere con l’arroganza del potere, della gerarchia e dell’ignoranza.

Dedico questo romanzo a chi svolge lavori inutili, a chi partecipa alla produzione di prodotti inutili, che servono solo a gonfiare la faretra del consumismo, e a chi lavora su prodotti nocivi, a volte letali… perché dovrebbero smettere di farlo, e dovrebbero smettere adesso.

Dedico questo lavoro a tutti noi, che dovremmo fare molto di più, comportarci in modo diverso, verso un’altra direzione, perché se le regole del gioco non possono più essere cambiate, possiamo e dobbiamo cambiare il gioco.

 

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