Utili, magari…

Ormai credo sia ufficiale: sono diventato insofferente alle partenze. Le ho sempre amate, e ora invece le soffro. Da tre o quattro anni, credo. Per qui, da qui, da altrove, per altrove, non importa come e quando, con che direzione. Mi prende una frenesia lieve, ma che non molla. Vorrei che fosse domani, io che sono il sacerdote degli istanti sacri…

Il che mi fa pensare.

Che accade?
Anche perché poi, una volta in movimento, il groviglio si dipana, il nuovo stato mi sembra subito interessante, mi adeguo facilmente all’altrove, che pare sempre ricco di opportunità, e mi sembra sempre più “facile” della mia provenienza. Non mi mancano eventuali abitudini, o comodità. Mi viene anzi da dire: “usti, ma così è proprio semplice… Una pacchia!”.

Salvo poi dire la stessa cosa dell’opposto, quando ricambia di palcoscenico.

Credo che abbia (anche questo) a che fare con “Il quoziente umano” che in me si modifica senza sosta. Quando cominci a separare, a contare, non si finisce più. Cambiano continuamente i fattori, ciò che divideva ora è diviso, ciò che si sottraeva ora si moltiplica. Le identità vengono fuori sempre più chiaramente, nettamente, tanto che non riesci più a farle tacere. Se un tempo mugugnavano, adesso si agitano, tirano sberle.

Ogni tanto urlano.

Portare alla luce cose profonde ha quella famosa controindicazione: “quando guardi a lungo nell’abisso, anche l’abisso guarda dentro di te” (F. Nietzsche).

Vedremo chi trova più cose.
Utili, magari…

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Severino, caro… Ciao.

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È scomparso ieri Severino Cesari, uno degli editor più attenti e raffinati dell’editoria italiana. È stato protagonista di alcune delle iniziative editoriali più interessanti del nostro Paese. Leggete di lui, se ne parla dovunque oggi, un personaggio fuori dalle logiche di potere, sempre dietro le quinte a scoprire talenti, testi, intuire temi, idee, parole.

Scoprì anche me, tra le tantissime cose – di ben maggior profilo – di cui fu artefice. Era il 1993, scrivevo probabilmente dal ’74, da bambino, un mucchio di pagine che a non avevo mai avuto il coraggio di inviare a un editore. Sentivo che non avevo mai avuto nulla di compiuto da mostrare. Almeno fino a quel testo, “Zenzero e Nuvole – Manuale di nomadismo letterario e gastronomico“, così strano, anomalo, diverso da qualunque altro, di difficile collocazione in qualunque collana. Cercai per giorni in libreria, tra mille pubblicazioni, per capire quale fosse l’editore giusto, capace di pubblicare un manoscritto così, fatto di racconti e ricette gastrosofiche (guarda un po’….), che per primo mescolava viaggio, esotismo, filosofia, letteratura, erotismo, cibo. Ne selezionai tre, tutti piccoli editori ma che si erano molto segnalati per dinamismo, innovazione, acutezza, coraggio: Theoria, Transeuropa, e il terzo non lo ricordo, dovrei vedere sui miei appunti dell’epoca.
Decisi che avrei inviato tre buste, a distanza di un mese l’una dall’altra. Ma ne inviai soltanto una, a Theoria, che con la sua collana “I Ritmi” anticipava l’impostazione di Einaudi Stile Libero. La ricevette Severino, che con Paolo Repetti era giovane editor. Fui la sua ultima scoperta per quel marchio, perché dopo poche settimane furono entrambi incaricati di svecchiare il marchio torinese dello struzzo e aprirlo ai giovani.

Lavorammo insieme al manoscritto, io e Severino. Mi chiese di togliere e sostituire un racconto, che riteneva inadatto. Facemmo insieme l’editing parola per parola. Fu il mio primo emozionante contatto con l’editoria. Tornavo a casa dagli incontri con lui pieno di dubbi, meraviglia, sogni, immagini. Il milione di lire che prevedeva il mio contratto non lo vidi mai, ma non per colpa sua, che non si occupava di amministrazione e non era il proprietario della casa editrice. Ma cosa me ne importava! Tutto, per me, era cominciato. Il sogno di un bambino si avverava.

Poi le strade si separarono. Lui e Paolo annusarono con grande intuito il sopraggiungere del pulp e del trash, uscì “Gioventù cannibale”. Nonostante fosse tutt’altro genere, vollero comunque il mio primo romanzo per Einaudi, dove intanto avevano traslocato. Nella lavorazione compresi che mentre Severino amava molto quel testo e riteneva il mio “Stojan Decu” giusto così, Paolo voleva far virare quel romanzo altrove, secondo il gusto del tempo. Gli editor lo fanno, e meno male! Per un autore è essenziale trovarsi a dover difendere o a modificare un testo, fa parte del processo creativo. Io all’epoca lavoravo tanto, ero sotto stress, sempre negli USA e implicato in mille responsabilità, ammetto di non essere stato per nulla lucido. In una “drammatica” telefonata, a contratto già firmato, ci salutammo male (“non morirete senza Perotti, io non morirò senza Einaudi”) e quella sera ebbi la sensazione di aver fatto la più grossa cazzata della mia vita. Avevo seguito molte delle indicazioni ricevute, ma oltre non volevo andare nella modifica al mio romanzo. Per me era concluso e giusto così. Severino, pur senza tradire i doveri di casa editrice, era d’accordo con me. Il romanzo uscì con Bompiani, tre anni più tardi, dopo un’ennesima mia rilavorazione a seguito della lettura e dei consigli ricevuti da Claudio Magris, che lo lesse e lo amò. Einaudi andava a gonfie vele, io pubblicavo quel primo romanzo con un editore tra i migliori del Paese.
La mia profezia, com’era ovvio per Einaudi ma non così ovvio per me, si avverava.

Tornammo in contatto anni dopo. Severino stava già male. Mi telefonò un giorno all’improvviso: “Il tuo blog è splendido. Lo leggo ogni mattina, mi aiuta a sognare, a immergermi in un bel mondo di pensieri. Te la sentiresti di selezionare i pezzi migliori e farne un libro?”. Avevo notato che condivideva spesso su Linkedin quel che scrivevo…
Ma poi scomparve di nuovo. Seppi che si era aggravato. O qualcuno lo dissuase dall’idea di quel libro. Chissà. Gli scrissi due o tre volte, ma non ebbi risposta.

Di certo su “Zenzero e Nuvole” Severino non si era sbagliato. Quel libro fece tre edizioni con Theoria e poi altre due o tre, non ricordo, con Bompiani. Ventimila copie vendute. Fu seguito da un vero filone di genere, quello del racconto meticcio, in cui si mescolano storie e cibo, contemporaneità, noir, suggestioni, di cui Zenzero e Nuvole fu l’apripista (prendete “Afrodita” di Isabel Allende, che [con il dovuto rispetto] pare il clone, per capire cosa intendo). Ad ogni modo, molti che mi leggono oggi mi dicono che mi conobbero con quella raccolta di racconti, già sugli scaffali di casa loro fin dal 1995. Insomma. Oggi per me se ne va un inizio.

Devo a Severino Cesari una delle cose più importanti: aver ricevuto quella busta da un ragazzotto sconosciuto, averla aperta, e aver letto con attenzione, senza rifiutare un testo anomalo, diverso dagli altri, mai veduto prima, da editor aperto alla novità, concentrato nel cogliere tra le pieghe dell’inconsueto le tracce di un possibile mondo letterario presente. Cose importanti. Quanti come lui, oggi?

Grazie per questo, Severino. E buon viaggio dovunque ti trovi.

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Bravo.

“Furore” – Alessandro Baricco

 

Ho conosciuto Alessandro Baricco a Madeira, una decina di anni fa. Povero…, era un po’ spaesato su una barca a vela, anche se ferma in porto. Era lì per non dire di no a Farinetti, quasi certamente. Ma non credo abbia navigato, neppure una tappa tra Genova e New York, non ricordo. Certamente non fece la traversata oceanica con me, me ne ricorderei. Parlammo poco, mi parve timido e garbato, non così narciso come sarei stato pronto a constatare.
 
Va detto che non sono un suo appassionato quando fa il romanziere, ma fin dai tempi ormai lontani del suo programma televisivo “Pickwick” sono un suo fan sfegatato quando legge e racconta romanzi in tv. Quando fa divulgazione. Vedo oggi pomeriggio il suo “Furore” di ieri su Rai 3, che avevo mancato perché stavo viaggiando in treno. Una bella, bellissima lettura del grande romanzo di John Steinbeck, pubblicato nel ’39. Di un’attualità straordinaria.
 
Bravissimo come sempre, Baricco, come e meglio di sempre. Fa la televisione che vorrei, quella dei racconti, delle storie, in cui si rilegge quel che è avvenuto, quel che è stato già pensato, sentito nel cuore, da qualcuno in grado di coglierlo perché in tanti lo conoscano, lo possano sentire a loro volta, e ne facciano tesoro, lo usino, oggi, nelle loro vite, per prevenire, per fronteggiare il destino comune di tutti noi, lo stesso da sempre, immancabile, inevitabile, che qualcuno ha raccontato bene. Ma invano, se lo dimentichiamo,  costretti a ripartire ogni volta da zero, rifacendo tutti in fila gli stessi comprensibili errori dell’uomo.
 
Tv per non dimenticare, dunque, per vivere. Quella che per una volta (così raramente…) fa ciò che con una parola ormai svuotata, che nessuno coglie, di cui avremmo un bisogno enorme, chiameremmo: “cultura”.
 
Prendetevi un’oretta e mezza, e godetevi questa bella trasmissione. In silenzio, con concentrazione. Ascoltate.
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Qualcosa di reale

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Che rotta fai? Non lo so…

Che romanzi scrivi?” Quando me lo chiedono vorrei essere lontano… Sarebbe come se io domandassi: “Che vita vivi?” “Ma no dai, intendevo: che genere…?” Ecco, appunto…

Vita dramma, vita comica, vita avventura, vita d’amore, vita tedio, vita obblighi, vita libera, vita studio, vita fuga, vita errore, vita tradimento, vita speranza, vita sogno che non mi posso consentire di sognare, vita che quel giorno speravo mi dicessi quella cosa, vita che non me l’hai mai detta, vita che quando ho capito che dovevo dimenticare ho ricominciato a vivere. Vita buttata, vita errore, vita di cose che non so, vita che mi piacciono solo le cose che già so, e non saprò mai il resto, vita che oggi sto bene ed è bella, vita che oggi sto male e non mi ammazzo solo grazie a te, vita che è andata, vita che ancora ce n’è. Vita che non c’è stata mai. “Che vita vivi? Drammatica? Umoristica? Avventurosa? D’amore? Storico-aneddotica? Poliziesca? Rosa, noir, gastronomica, manualistica, di viaggio, di formazione?”. E io di cosa dovrei scrivere? Guarda che scrivo a te

Ogni volta che per capire chiudo, segmento, recinto, sfoltisco, so già che non servirà a niente. Ogni volta che per ascoltare devo aver già capito, ho una fitta al cuore. Ogni volta che mi chiedono di spiegare sento che non ce la farò: non avrò parole, o ne avrò troppe, e chi ho di fronte non resisterà. (Di che parla il mio romanzo? Allora…). Ogni volta che quella cosa non me la dici, vorrei capire perché. Ogni volta che l’attendo, anche. Quando mi chiedo che tipo sei, mi domando: “che ci faccio qui?”.

Quasi tutto quello che merita attenzione, non può essere definito se non con un lungo giro di parole vane. Io non saprei definirlo, ecco, diciamo così. Ogni cosa che scrivo vorrei non fosse definibile, perché somigliasse a qualcosa di reale. Altrimenti per capirlo dovremmo uscire. Mentre scrivere, come leggere, come vivere, è entrare.

Lei non vede il mondo. È più recluso di me, perché io, schiava, osservo ciò che non sono, mentre lei, libero, vede soltanto se stesso.” (Rais, Frassinelli, 2016)
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Pro mozione

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Muovere verso, cioè dire a qualcuno qualcosa che lo faccia trasalire dal torpore, dalle distrazioni, dall’inerzia, per condurlo, cum ducere, portare insieme, verso un luogo dove prenderà in mano un libro, avendo costui una buona ragione per farlo, evidentemente, perché oggi, altrimenti, chi mai si alzerebbe, prenderebbe il motorino, o l’automobile, per recarsi in un posto, parcheggiare, entrare in una libreria (una libreria!!), cercando un volume (un oggetto fisico!!), con pagine stampate, per aprirlo, verificare che dica qualcosa di interessante, cercando tra le righe fitte un’idea, un pensiero che lo riguardi?

Pro muovere, spingere verso, orientare a favore di qualcosa, dandogli un motivo, una ragione, la maledetta ragione che cerchiamo sempre, che non troviamo mai, per fare qualcosa, come se quella ragione potesse venire da fuori, le ragioni sono dentro, la motivazione è insita, incastonata, ma forse con una parola, una frase, la possiamo attivare, innescare, tanto che avvenga un movimento fisico, dunque pro muovere significa generare un movimento fisico, quello di alzarsi e andare verso qualcosa, ma qualcosa cosa? se stessi, suppongo, ma per andare laggiù, dove risiediamo già, non dovrebbe servire alcun movimento fisico, almeno credo, io per esempio per scrivere un romanzo non mi muovo, almeno dopo aver cercato, studiato, poi sto fermo, pro mosso da solo, cum dotto da me, immobile.

Dunque pro muovere deve essere un’azione che genera una ri sonanza, un suonare nuovamente, come l’ultima volta, quando fu che risuonò qualcosa? chi lo sa, ma ri suonare, oggi, è pro muovere, cioè far vibrare una volta ancora, che vuol dire che senza questa pro mozione quella corda non sta vibrando, è ferma, perché è ferma? cosa le impedisce di suonare, ad alta frequenza, non è tesa? non è in accordo? perché? ad ogni modo batterla, darle un colpo, perché generi onde, ecco, le onde, ce ne sono tante tra le pagine, onde che travolgono e risparmiano, picchiano sulla murata del cuore o della mente, onde che coprono tutto, scafi, amicizie, amori, vite, e passano, tanto che dopo non c’è più nulla, coperto, reso nuovamente invisibile, fermo, dove c’era vita, morte, dove c’era morte vita, e dopo tutto quel frastuono, una chiazza di schiuma bianca, una pagina di mare che si è staccata, sfogliata, piegata, rivoltata, abbattuta, ed è finita.

(tre letture, fin qui. Eccole: una, due, tre)

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Dove siete?

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Vedere la poppa…

Come il primo giorno di vacanza, dopo la scuola, come il primo giorno dopo gli esami, alla maturità o all’università, come il primo giorno dopo l’ultimo di lavoro, quella prima estate, come il giorno dopo la fine del militare, come il giorno dopo il bachelor, come il primo giorno delle ferie d’inverno, come il giorno dopo quel matrimonio sbagliato, ma grazie al quale ho capito cosa non sono, come il giorno dopo essere entrato al Fienile dell’anima, che mi pareva d’aver finito e non avevo neanche ancora cominciato, come il giorno dopo aver detto quella cosa che avevo qui, come il giorno dopo essere salpato per la prima volta da solo, io e il mare, e tutto il mondo fuori.

Visto-si-stampi, come fosse una sola parola lunga, così si chiama quello che è successo ieri a Segrate. Me lo hanno strappato dalle mani, io che imploravo ancora ventiquattr’ore, ma non c’erano: “Salta tutto Simone…”, o ieri o niente, e allora è andato. Nove anni, mentre pensavo studiavo e scrivevo anche altro, ma un pezzo di me sempre lì, a provare a figurarmi il suo viso, la sua testa, da dove venisse la sua assurda cattiveria. E gli altri, immaginare per anni anche loro, dalla spia a Colombo, fino all’ultima nata, che poi ha preso in mano tutto, come fanno le donne quando c’è confusione: Bora. E poi fitto fitto per un anno intero, ogni mattina, ogni mattina alle 6.00, come si fa ogni cosa buona, con l’intensità dello sportivo, la ripetizione assidua e fedele del monaco, l’operosità intenta dell’artigiano, sette giorni su sette, a volte otto, due turni, anche il pomeriggio, fino a ieri. Non si può spiegare…

Dov’è l’amicizia tradita, dov’è l’amore, dov’è il nemico, dov’è il segreto, dov’è il mistero, dunque com’è andata? Dove se n’è andato Dragut, la sua galera ieri ha intuito bene il vento, mi ha preso dieci miglia, poi venti, poi il largo, guidone bianco e azzurro con la mezzaluna gialla al centro che volava alto, fino a che non s’è fatto punto, poi idea, poi ricordo, poi nulla; dove se n’è andato Keithab, dov’è Arslan, dov’è Khaled Imari, dov’è Bora, di cui non si trova più neppure la tomba nel paese dove nessuno si ricorda di lei; dov’è Ariadeno, Kahir al-Din, dov’è Occhialì, dove sono Andrea, il geniale Cristoforo, Carlo, dov’è La Vallette, dov’è il cipriota con le spalle larghe che le ha prese di santa ragione, dov’è lo Zoppo… Erano qui, talmente accanto da essere dentro, per mesi, anni, e ora… Dove sono andate le migliaia, centinaia di migliaia di marinai senza nome con cui ho navigato anni, dove sono andate le loro isole sicure, la loro brama di ritorno, dov’è finito Piri Rais, dove sono ora i teschi della “Torre dei crani”, teste anonime decollate sulla spiaggia di Gerba, una catasta alta dieci piedi, con una circonferenza di centodieci, visibile dal mare, che rimase su quella spiaggia dal 1546 alla metà dell’800. Tutti viaTutti salpati per proseguire un viaggio che senza di me non avrebbero mai intrapreso. Irriconoscenti, dimentichi, insensibili come tutti i figli. Dove sono andato io…, disperso nei loro lineamenti, nelle palpitazioni asincrone dei loro cuori tamburi sotto la pioggia grossa che sa di sale. Dove siete adesso? E dove sono io, ora…?

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Tanto, ma lì.

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Ieri l’altro. Alimia. Egeo sudorientale. Io in posti così divento una ventina di uomini che sentono ognuno come cento…

Devo dire qualcosa sul rumore, sul volume a cui parliamo tutti. Devo dire un mucchio di cose sulla questione del razzismo e della violenza di questi giorni. Devo dire molte cose sull’affollamento estivo del mare. Devo dire molte cose sul concetto di “vacanza”, cioè tecnicamente un’“assenza” (semmai dovrebbe essere una forma di “presenza“!). Devo dire molte cose sul vento apparente, risultato vettoriale tra vento reale e vento di velocità, e sul fatto che il marinaio naviga con l’apparente, dunque non è uomo che si occupi della realtà, ma della sua proiezione diversa per intensità e direzione (avete idea, per metafora, quante ne ho da dire su questo applicato alla vita!?). Devo dire molte cose ancora sui roditori che per fare le proprie cose sfruttano le relazioni degli altri senza vergogna o rispetto di sé. Devo dire un mucchio di cose sui pirati. Devo parlare del caldo, della sua taumaturgica facoltà mitopoietica. Devo dire una cosa che non posso dire, un progetto artistico che andrò a realizzare a breve, che trovo eccitante. Devo dire una gran quantità di cose su Mediterranea, su alcune cose dette a bordo che mi hanno fatto capire che non basta una barca e un po’ di marinai per vivere la magia in mare, serve anche un concetto, un’idea, un sistema di valori che diano senso al tempo: una spedizione con idee originali, non rubacchiate, proprie, non altrui, e una rotta, non dei giretti. Devo dire alcune cose sulla selettività delle relazioni, e sulle illusioni. Devo dire qualcosa sul cambiamento, sui momenti in cui diventa inevitabile, quando ci si accorge che è troppo tempo che ci giriamo intorno, forza! Devo dire due o tre cosette sul cibo. Devo raccontare di pirati, carte segrete, storie andate e ancora vive. Ho cose da dire sulle isole. E molto da riferire sul tempo. Inevitabile che io abbia anche cose da dire sull’amore.

Ma sto scrivendo. Questo groviglio di pensieri, emozioni, sentimenti, lo infilo lì.

Poi, riprendo.

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Entra…

 

Frammento

Una mappa. Per arrivare lì…

Dragut è lì, di fronte al portale del castello, entra Dragut, entra, prima volta che trema, chi può far tremare il rais? una donna, no non è quella donna che lo fa tremare, e allora cosa? il portale, il niente di legno di un ingresso che una mazza farebbe esplodere di schegge, una soglia, un altro passaggio, la linea che demarca i mondi, anche se Dragut i mondi non li conosce, sa solo il suo, ma oltre c’è qualcosa, è come scomparire, contumace, assente, mai stato, fuori dalla bolgia orrenda dell’odio della memoria e della morte, finalmente un altrove senza l’urlo della follia del mondo e la cassa di risonanza del cuore, l’anta del portale che scricchiola, l’uscio che cede, un passo verso l’ignoto, e l’esperienza del giorno è che ci vuole più coraggio a varcare una soglia che ad uccidere, a incontrare il proprio destino che ad avere un nemico, a fronteggiare una donna che un esercito, donna che non puoi rapire, donna che non puoi offendere, donna che non puoi stuprare, incatenare, dare in pasto ai cani, perché morderebbero te, metteresti te stesso ai ferri, donna che devi, non donna che deve, l’ultimo scorcio sacro dell’adolescenza perduta, l’altro raggio di luce, che offusca il faro ormai perduto della madre, a questo pensa Dragut, solo che non sa pensarci, non sa capire, almeno fino a che sale la scala condotto da un’ancella impaurita, percorre in solitudine l’ultimo budello tra le mura, fa ingresso nella grande stanza, e finalmente la vede.

(mentre monto il mio nuovo romanzo…)

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