Bilanci esistenziali

Bilancio Esistenziale 2023 (BE23)

Giorno standard: sveglia presto; studio-scrittura-lavoro (mio e su Mediterranea) al mattino; lavoro fisico (carpenteria, falegnameria, agricoltura) durante il giorno, cucina-riposo la sera. E a letto presto (23.30 mediamente). Nota: lavoro fisico per me significa soprattutto meditazione: solitudine, silenzio, pensiero, postura mistica e spirituale. Monacato laico.
Poche relazioni, meno dell’anno scorso, con l’unica eccezione di Mediterranea (venuta qui e poi, in due periodi, io a bordo). Anno di cambiamento nei rapporti sull’isola: passaggio interessante, che chiamerei di autentizzazione e uscita “dalla bolla”.

Valutazione 2023: anno più che buono.

Dettaglio:
Produzione di lavoro/valore: molto alta, ai livelli del 2020. Diciamo 6 mesi effettivi, con 20 giorni/lavoro al mese, che anche se calcolati a 9€/h, cioè nella media, sono comunque tanti, quasi 9.000€, ma che in termini di prodotto realizzato (ciò che ho fatto, che valore ha aggiunto, quanto sarebbe costato pagare qualcuno per farlo) sono almeno 20.000, ma probabilmente di più.
Equilibrio: ancora mutevole, ma meno che in precedenza. Buona tenuta sui temi macro, discreta a livello intimo.
Armonia, forte, come raramente prima. Il numero di giorni definibili come perfetti è sensibilmente aumentato.
Relazioni. Anno partito con “Catania”, dunque acme forte iniziale, che si è spalmata poi bene nel corso dei mesi. Nel privato, rimane netta la sensazione di estraneità in alcuni ambiti relazionali, da approfondire e studiare (in parte ne conosco genesi e dinamica, ma qualcosa di determinante ancora mi sfugge). Sempre (troppo) alta, la mia prontezza a interrompere il dialogo. In sé è una cosa buona, sintomo di libertà, ma non si associa bene al mondo circostante. Da rivedere (soprattutto circa la sua natura. Verificare che non ci sia mai fuga dietro questo atteggiamento).
Natura/clima/temperatura. Rapporto impressionante: vita all’aperto oltre il 75%, giorni definibili come perfetti ben 6 (uno non l’ho annotato, dunque forse sono 7. La mia media annua da sempre è 2). temperatura per me ideale (ieri 10 dicembre ho messo per la prima volta i pantaloni lunghi e ho indossato per la prima volta una maglietta per lavorare fuori. Oggi piove, infatti). Cosmetici/detersivi/saponi/shapoo totalmente autoprodotti e naturali.
Studio. Discreto. In generale è stato un anno a basso gradiente intellettuale. Però buone alcune linee di studio e di riflessione. Materiale accumulato/annotato per il nuovo libro, più che soddisfacente. Analisi, decente.
Scrittura (produzione): anno di pausa. Lato meno positivo dell’anno, anche se non così deleterio. È l’anno in cui ho prodotto meno negli ultimi 15. Tema “entrate” non positivo. Nota positiva: scritto 8 testi per le canzoni del primo album del neonato gruppo musicale dei “Zona Franca” (di cui vi dirò). Splendido.
Energia. Buona, più fisica che psicologica.
Fisico: considerata la fatica fisica fatta nel lavoro (e l’età che avanza) piuttosto bene. Lavorato però con garbo (finalmente), dunque rispettando il tempo/recupero come mai prima.
Denaro. spese: bene, è stato l’anno più low-cost dell’ultimo quinquennio. Alcuni accorgimenti ancora possibili e auspicabili (decisioni da prendere). Entrate: prossime allo zero, ahimè.
Integrazione sociale: ai minimi storici. Non condivido quasi nulla di quello che vedo fare e dire alla maggioranza. Da approfondire: la lettura “sono tutti pazzi” è (forse) troppo semplicistica.
Cibo: strepitoso. Forse l’apice della mia minima (domestica) carriera di chef. Verdure km zero intorno al 90%. Utilizzo di erbe e piante selvatiche ormai altissimo.
Compassione: in crescita su ampia scala, in calo su scala individuale. Da rivedere.
Fumo: fumato comunque troppo.
Condizionamento dall’esterno: prossimo ormai allo zero.
Progetti: due. Uno in corso d’opera, uno ancora no.
Sport: tragedia Milan.

Viaggi/Vacanze: zero. Ma uno in programma per gennaio. Molto felice: sarà la mia prima piccola vacanza (dieci giorni) dopo l’Andalusia (2015).

In estrema sintesi, questo è il bilancio di quest’anno, fatto senza troppo riflettere, a pochi giorni dal rientro in Italia per le feste di Natale.

Un anno di autoproduzione importante: anche se con meno prodotto, siamo comunque stati autonomi dal punto di vista alimentare per un 40%, circa. L’anno scorso il 50%, ma l’impatto su salute e economia è stato comunque forte per noi). Impatto ambientale, tolti i 4 voli aerei, bassissimo: prodotta e consumata quasi esclusivamente energia dal fotovoltaico; bevuta solo acqua di fonte (bottiglie di plastica zero); produzione rifiuti bassissima (quasi zero packaging, riciclo totale); emissioni quasi zero (pochissimo gas per cucina, stufa a legna accesa una decina di volte a febbraio e ora tre volta soltanto fin qui. utilizzata solo legna tagliata qui, che dunque non è stata trasportata né fatta oggetto di commercio); chilometri percorsi in macchina, meno di 400/anno; motore Mediterranea circa 50% (diciamo 220 miglia non a vela sulle 450 navigate); acqua: ridotto consumo grazie a cisterna recupero e alimentazione da fonte.

Note: anno pieno, ma anche vuoto. Il vuoto non è semplice da maneggiare, ma credo di aver imparato qualcosa ancora. Battaglia contro l’ego, qualche vittoria in più delle sconfitte, il che è già tanto considerata la natura insidiosa del nemico. Buona accettazione delle mie mediocrità, anche se non è mai abbastanza. Ambizione, lievemente in calo purtroppo. Pazienza: in picchiata su alcune questioni (tema da analizzare). Paura della vita: stabile.

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La storia non piace ai bambini

A ogni fatto pompato dai media, osserviamo la stessa reazione:  immediata polarizzazione, radicalismo verbale, gioco a chi la spara più grossa, forte emotività, perdita di lucidità. Accade su tutto, che sia una pandemia, una guerra lontana, un fatto di cronaca. È il nuovo sintomo del morbo che scorre nelle vene della società.

Vi preoccupereste mai della perdita d’acqua in bagno mentre un serial killer sta sfondando la porta di casa vostra con una motosega? Nessuno lo farebbe. Eppure è ciò che vediamo oggi in Italia, dove presto non avremo più un Sistema Sanitario Nazionale pubblico ma nessuno fibrilla o si preoccupa. Già oggi chi ha un cancro deve ricorrere all’amico medico per un rapido esame istologico e per una ancor più rapida operazione chirurgica, per essere curato in tempo. Presto capiterà a ognuno di noi, ma nessuno ha i nervi a fior di pelle per questo.
Francesco Cognetti, Presidente della Confederazione degli oncologi, cardiologi e ematologi italiani, stimava due anni fa “ritardi e cancellazioni di oltre 100 mila interventi chirurgici per tumore, un incredibile disastro clinico-assistenziale”. Per l’inadeguatezza del già fragile sistema sanitario italiano, solo durante il primo anno della pandemia, abbiamo avuto 40 mila morti in più del solito per cause non-covid.
Questa sì che è una vera emergenza, dalle conseguenze inconcepibili, ma è una storia che non piace ai bambini che siamo diventati, ne vogliamo un’altra. Come non piace, non coinvolge, il tema della catastrofe climatica imminente (che palle!) o quello del rischio emergente di trasformare il Paese in uno stato presidenziale, e in cui già (e ancora) si attacca la magistratura.

Dopo decenni di scelte sbagliate nell’impostazione delle nostre vite, ci ritroviamo stanchi, oppressi, ansiosi, con un tessuto sociale e di relazione lacerato. Chi aveva urlato per un mondo migliore ha poi aderito mani e piedi al modello consumistico e mercantile, anzi, lo ha creato. Ed eccoci alle conseguenze di questo mondo storto: la grande delusione; una società malata di soldi, oggetti inutili, incapace di donare, che vive male, col fiato corto, pronta a incazzarsi per finta su finte emergenze (invece che davvero sulle vere) giusto per far fischiare un po’ la valvola della pentola a pressione. Una società triste, senza slancio, senza fiducia, che dubita del marito, che fa accordi prematrimoniali con la moglie, che odia il suo vicino, che non presta i suoi oggetti anche se vive in case-magazzino, che non sogna un mondo migliore, ma che si altera soltanto, come un folle, per i brufoli insorgenti del peggiore.

Siamo infantili. Accettiamo il peggio ogni giorno, vediamo sulla nostra pelle quanto ci fa male, constatiamo giornalmente quanto la rabbia ci tolga lucidità, e non ce ne vergogniamo. Accettiamo tutto, con tutto il trasporto del mondo, e ci basta dare un po’ di matto periodicamente, su un monitor, in una piazza, per andare avanti.
Occorrerebbe pensiero, di fronte alla complessità. Calma, tenuta psicologica, obiettività, capacità di vedere i numeri, voglia di analizzare, capacità di collocare le cose nel loro giusto peso.

Ma questo lo fanno società mature, non le adolescenti come la nostra. A noi basta gridare quando ci offrono l’occasione per farlo, sfogare la rabbia CHE VIENE DA ALTROVE e non ha nulla a che fare con quella specifica circostanza. E così trattiamo come emergenza ciò che emergenza non è. L’ordine di priorità viene sconvolto, la società adolescente si concentra tutta su qualcosa, invece che sul rischio più grande che dovrebbe affrontare.
Il potere ci sguazza, se ne compiace, perché il popolo a cui dovrebbe rendere conto si distrae per un nonnulla, guarda altrove.

Così accade che le piazze si riempiano, e metà del Paese frema di rabbia per la tragica morte di una ragazza uccisa dal suo fidanzato. Non è accaduto dieci femminicidi fa, non accadrà tra altri tre, ma adesso, perché la storia era mediatica, funzionava bene, è stata pompata quanto serve.
Non c’è alcuna emergenza, anzi, il tragico problema degli omicidi sulle donne cala regolarmente da anni, ed è facile che anche quest’anno, grazie al Cielo, si riduca ancora. Almeno nel nostro Paese, che è già, da sempre, uno di quelli dove questo fenomeno orribile è meno accentuato che nel resto mondo, dove muoiono invece ogni anno circa 46.000 donne per motivi analoghi. In Francia, Germania, Inghilterra e dovunque muoiono più donne che qui…

Ma non lo puoi dire, non lo puoi spiegare. Non puoi cercare razionalità in un bambino che piange. Se provi a spiegargli i numeri, o le ragioni, quello si incazza ancora di più. Non si vergogna della sua irrazionalità, piange e basta.
Solo che quello fa così con qualche diritto, perché è effettivamente un bambino.
Noi no.

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L’unico modo

Lasciate stare per un istante che il calcio è un business ormai degenerato, che procuratori e manager la fanno da padrone e inquinano ogni cosa. D’altro canto è vero quasi per tutto, in questa epoca.
Ma mettete da parte tutto questo, per un momento soltanto. Certe storie impongono questa sospensione, per poter essere comprese.

Pensate che c’è un ragazzino, ogni giorno, che infila i suoi pantaloncini e i suoi scarpini in una borsa che, quando se la carica sulla spalla, sembra più grande di lui. Le sue speranze, la sua voglia di giocare, di emulare i grandi campioni, c’è, è autentica. Lo guida.
Se poi il bambino è un immigrato slavo in Svezia trent’anni fa… se vive in una borgata multietnica e violenta… se i soldi per il cibo mancano… Ecco che la faccenda si complica molto. Ma diventa epica.
Quel bambino ce la fa. Cresce, diventa alto due metri, e nei decenni seguenti diventerà uno dei più grandi campioni del suo sport. Riesce a venire fuori dal ghetto, ma il ghetto non verrà mai fuori da quel ragazzo. Giocherà sempre al calcio con la tensione morale di chi non sta semplicemente praticando uno sport.
Tornerà a Rosengard, il ghetto di Malmoe, e comprerà il campetto da calcio dove giocava da bambino. Lo renderà bello, per tutti.
Ieri quell’uomo ha abbandonato il calcio dopo una carriera sportiva fenomenale. Ha vinto tantissimo, ma senza cambiare mai. È stato sempre il primo ad arrivare agli allenamenti, l’ultimo ad andare a casa la sera. Così sono i professionisti che amo. Detesto i talentuosi ribelli, il genio-e-sregolatezza l’ho sempre disprezzato. A me piacciono quelli che ogni giorno, alla stessa ora, per lo stesso tempo, si applicano alla stessa cosa. I monaci, insomma. Cioè quelli che per quanto ego abbiano, pensano che ciò che fanno è più grande di loro. E vale di più.
C’è però un problema. Grande.
Come tutti quelli senza sufficienti strumenti per vedersi molteplici, quest’uomo ha puntato tutto su una sola vita.
E quella vita è finita ieri sera, allo stadio Meazza di Milano. A 41 anni.
E ora iniziano i guai per lui. Il ghetto non è mai uscito dal suo cuore, nonostante le coppe, gli scudetti, le giocate memorabili. Continuerà a ruggire, ogni giorno, ma non avrà più un avversario con cui sfogarsi. Sarà un triste risveglio, quello di questa mattina. Infatti, ieri sera, piangeva.
A me, che osservo le vite degli altri per capire la mia, rimane di lui l’agonismo assoluto, quello che viene da dentro, la durezza dello scontro, l’onestà dell’approccio, la motivazione religiosa nel fare e nell’esserci. E rimarrà la capacità di aiutare i compagni non tanto e non solo tecnicamente, ma con l’esempio. Quando un uomo di oltre quarant’anni che ha già vinto tutto si allena di più di un ragazzo di venti che non ha ancora vinto niente… quando lo fa con maggiore concentrazione, maggiore spinta, con impareggiabile assiduità e tenacia, anche dopo un infortunio che avrebbe stroncato la carriera a chiunque… allora quell’uomo, nel suo genere, nel suo mondo, e forse non soltanto nel suo, è un maestro. E come tutti i maestri, è duro ma generoso.
Comunque sia…
Che “a qualcuno piaccia il calcio” oppure no… che a prescindere dalle proprie passioni si intuisca vita dove ce n’è, senza curarsi troppo di selezionare o schematizzare il mondo in base alle proprie propensioni… Zlatan Ibrahimovic è stato, in una vita soltanto, l’emblema di tutto quello che un uomo non deve fare mai, ma anche dell’unico modo in cui farlo.

 

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Tg1, Tg2 e Tg3 – il Quoziente Umano in TV

Qui gli ultimi tre passaggi televisivi sul mio nuovo romanzo.

tg1: http://bancadati.datavideo.it/media/20230507/20230507-RAI_1-TG1_1330-141931349m.mp4

tg2: http://bancadati.datavideo.it/media/20230506/20230506-RAI_2-TG2_WEEKEND_1330-145308095m.mp4?fbclid=IwAR1gONaedpUsXB6JUlcJHtixSQlszvKsiDyrjxTRFJ77QMipna4zNeKnZLY

tg3: http://bancadati.datavideo.it/media/20230507/20230507-RAI_3-TG3_FUORILINEA_1215-124414619m.mp4

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Esiste. Sta lì…

Quasi tutto ciò che frena la nostra vita risiede essenzialmente nel limite che noi diamo a essa. E non in sede teorica, ma partendo proprio da noi, da chi siamo, da quali sono i confini definiti dal nostro perimetro esistenziale.

Dunque noi non “diventiamo” per due ragioni, entrambe dirimenti:
la prima è che non conosciamo quei confini, cioè non abbiamo cognizione (consapevolezza) dell’estensione e del termine delle nostre facoltà;

la seconda è che, comunque, non consentiamo a ciò che ci riguarderebbe di avvenire, cioè lo amputiamo.

Sono convinto che entrambi i fattori siano sotto la nostra responsabilità, perché dipendono uno dalla mancanza di un percorso di conoscenza di sé, che impedisce l’investigazione del perimetro…. E l’altro dalla disabitudine/incapacità di immaginazione, e dunque di ambizione.

Ma il mondo possibile a cui avremmo accesso in assenza di questi due limiti c’è. Sta lì. Solo che noi non lo concepiamo, dunque non lo cerchiamo.

(NB. Per gli amanti della Meccanica Quantistica, quanto sostengo qui sopra (e racconto ne “Il Quoziente Umano“) è analogo alla “Teoria delle Variabili Nascoste” elaborata dal fisico americano David Bohm (letta e conosciuta dopo aver scritto il mio romanzo. Cosa abbastanza inquietante…).
La sua teoria è semplice (almeno per come la spiega Carlo Rovelli): la funzione d’onda ψ esiste, ma esiste anche l’elettrone fisico, il quale ha sempre una posizione ben definita. Se l’onda ψ segue l’equazione di Shrödinger, l’elettrone si muove invece nello spazio reale, dunque l’interferenza quantistica è dovuta all’onda ψ ma l’oggetto fisico è sempre in una sola posizione: il gatto del noto paradosso di Shrödinger è vivo oppure è morto, non entrambe le cose contemporaneamente. E tuttavia, se il gatto è in un solo stato, nell’altro stato c’è una parte dell’onda ψ che produce interferenza.
Esisterebbe dunque, anche sotto il profilo della fisica quantistica, un universo parallelo inosservabile, e che forse non è solo il prodotto della nostra angoscia di fronte all’indeterminatezza).

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Il Quoziente… Radicale

Le cose che mi piace fare

Un’intervista sul mio nuovo romanzo “Il Quoziente Umano” (Mondadori) con Emilio Targia, un giornalista esperto, colto, mio coetaneo (cosa non irrilevante…) che da 7 anni parla con autori letterari in profondità, cercando di andare oltre la semplice routine dialogica.
Il tentativo vero di comunicare su idee, intuizioni, tecniche narrative, racconti. E così anche io, da questo lato del microfono, sembro dare qualcosa di più.

Giudicate voi.
Buon weekend a tutti.

Per sentire l’intervista cliccate sull’immagine qui sopra, oppure QUI.
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“Il Quoziente Umano” su LA7

Intervistato a Omnibus, di LA7, stamattina, per presentare “Il Quoziente Umano” e poi parlare di Mediterranea, di ambiente, di identità, di scelte.

Buona visione.

Cliccate sulla foto oppure QUI per vedere l’intervista.

 

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Autenticità come meta. Partendo (“L’Altra Via”, Solferino Libri)

 

Bella intervista realizzata dalla testata “Crescere Informandosi” (che ogni tanto diffonde cose che non condivido affatto, ma ogni tanto sì, e ci sta).
Brava soprattutto Alice Fassari a stimolare i punti più interessanti e a farmi parlare, resistendo stoicamente alla mia (consueta) straripante retorica dialogica.

Buona visione.

#laltravia

 

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Potrebbe essere un'immagine raffigurante 2 persone e barba

Ieri diretta Facebbok dei “Dialoghi Mediterranei“. La prima dopo l’incontro a Catania.
In due ore, sono uscite alcune cose interessanti.
Ne sottolineo due:

siamo troppo clementi (colpevolmente) con ciò che ci limita (“eh, io sono fatto così…”) e che dovremmo invece inclementemente lavorare e modificare, e poi diventiamo invece inclementi riguardo ciò che facciamo (“Sono fallito, non ce l’ho fatta!), cioè il risultato della nostra azione. Ecco, la vita funziona esattamente al contrario: dobbiamo essere duri con noi stessi, non perdonarci se non dopo mille tentativi veri, e poi considerare tutto ciò che accade come un successo. Fosse anche solo un metro il percorso fatto, è sempre una cosa che non c’era e che noi abbiamo fatto impegnandoci. “Eh ma io volevo arrivare laggiù!”. E chissene frega, sei arrivato lì invece che laggiù, bravo! Goditi tutto il tuo metro percorso!

Ci poniamo il problema su ciò di cui non abbiamo il controllo (i fulmini, le malattie, i fenomeni…) e non facciamo il 100% di ciò su cui il controllo lo abbiamo, perché è nel nostro perimetro di pensiero e azione. Perché?

Unite i punti e trovate il nostro identikit, tutto costruito per darci l’alibi di non impegnarci, non faticare, non andare.
Capite che, dopo questo approccio, prendersela col governo, con la politica, con le major, coi complotti, è solo l’ennesimo alibi?
Duri nel giudizio verso il mondo si diventa DOPO aver fatto tutta la nostra parte. NON prima.
Prima, la nostra critica è senza peso, patetica. Può convincere la gente distratta, ma non i filosofi.
(Per rivedere la diretta di ieri, cliccate qui. È registrata: https://www.facebook.com/events/1434390520630607?ref=newsfeed) 
Tutte le reazioni:

Emil Cè, Michele Zaggia e altri 13

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Il “Racconto di Catania” (Dialoghi Mediterranei)

Per chi l’ha visto e per chi non c’era. E per chi quel giorno lì, inseguiva una sua chimera…

Il “Racconto di Catania“, cioè una sintesi, lacunosa, parziale, incompleta, come tutte le sintesi, come tutti i racconti… Però forse anche perfetta così: per essere vista, per dare quanto meno un profumo, per far passare almeno l’azione.

Due giorni di filosofia applicata: domande, bivi delle vite di tutti noi, paure, energie, identità. Scelte.
Per potersi dire che l’autenticità è laggiù, almeno visibile, perseguibile. E per vivere.

Grazie a Carla De Meo, che ha girato, rivisto, montato. Un regalo fatto a tutti noi.

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