(Re)Visione

Su questi ragionamenti, comunque, dobbiamo soffermarci. Questi ed altri, sia chiaro. Ma certamente anche questi. A meno di non voler vivere un altro anno in attesa.
Ma in attesa di che? In fondo al percorso c’è il “fine tempo“. Ma oggi non è ancora quel giorno.

Cerchiamo di vivere sapidamente, rompiamo gli indugi e scegliamo. Non succede niente, non si muore prima del tempo, non dobbiamo preoccuparci per questo. Ma se non si muore prima, cosa ci trattiene? Anche perché nel frattempo, almeno, ci si prova.
Morire tentando di vivere.
Vivi non è detto che si nasca. Ma ci si può diventare.

Buona (re)visione. Buon nuovo anno da usare.

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Fuori

I miei libri hanno una funzione sociale, sono utili. Ecco uno dei loro tanti, possibili impieghi sperimentato su Mediterranea

Quando c’è qualcosa di grosso nell’aria, la dinamica della comunicazione (qui, come altrove) finisce con l’essere sempre la stessa: prendere un filo del discorso e stressarlo per vedere dov’è il suo punto di rottura. Si chiama gioco a rompere, ovvero il tentativo di inceppare un ragionamento che, se funzionasse, se non avesse bachi grossi, potrebbe chiamarci all’azione, a cambiare la nostra vita. Che è una cosa molto faticosa, con un premio altissimo, che implica coraggio, fatica, energia, tenacia.

Faccio tre esempi, ma potrei farne mille.

1) LAVORO: ma cos’è veramente smettere di lavorare? E’ possibile farlo del tutto? Chi può e chi non può? Alla fine la verità è che non si può DAVVERO SMETTERE. Dunque smettere di lavorare è impossibile;

2) LIBERTA’: ma chi è davvero ibero, ma si può essere davvero liberi? Nessuno è mai davvero libero, la vera libertà non esiste;

3) SISTEMA: si può essere fuori dal Sistema, fuori dalle sue regole e logiche? In fondo siamo comunque tutti dentro, anche se ne siamo ai margini, no?! Ecco: nessuno può davvero essere fuori dal Sistema, chi ci prova in realtà lo sfrutta. E via così…

Morale: non si può smettere di lavorare, la vera e totale libertà non esiste, dire che si può uscire dal sistema è una chimera.

“Meno male!”, circolava la tragica notizia che ci fosse qualche speranza, che ci fosse da faticare, farsi un mazzo tanto e poter vivere meglio. Noi, tutti noi salvo rarissime eccezioni, siamo terrorizzati dall’ipotesi che ci sia molto da fare per poi poter vivere meglio, e ancor più che a fare dovremmo essere noi, proprio noi come individui. L’ideale è: stare tutti maluccio, nessuno escluso, e che sia colpa d’altri, non nostra, ma soprattutto che non ci sia nessuna possibilità di cambiare le cose nostre e altrui e trovare qualche buon elemento per smontare chi ci prova con le definizioni, i sillogismi, le controdeduzioni.

Qualcuno mi ha chiesto cos’è ESSERE NEL SISTEMA. Ecco, è ragionare così. Cercare tutti i motivi (logici, culturali, pratici…) per NON agire, adesso, sotto la nostra responsabilità individuale, e dunque NON FARE TUTTO QUELLO CHE POSSO (Adesso!) per essere fuori dalle logiche omologate, per essere il più libero possibile, il meno assoggettato possibile alle regole del lavoro-guadagno-consumo-spreco-inquino. Essere FUORI DEL SISTEMA è l’opposto: inceppare il meccanismo con la volontà, con l’immaginazione e l’azione, dire NO dove ci si aspetta che diciamo SI’. Fare altro, che nessuno si aspetta da noi. E’ industriarsi in ogni modo possibile, sfuggire alla disperazione del “non si può”, alla miseria delle dimostrazioni capziose per sostenere che chi ci sta provando bara, o almeno mente. E’ sentirsi un testimone che se fa e poi dice quel che ha fatto, FA POLITICA. Quella vera: 1 uomo=1 movimento.

Gino Strada nell’intervista che gli feci per Un’Altra Vita (RAI5) diede un saggio del pensiero opposto a questo: “La gente mi dice che sono pazzo, che è impossibile curare tutte le vittime delle guerre, ma io rispondo: cominciamo a curarne uno, questo qui, poi un’altro, poi un’altro ancora. Oppure mi dicono: è impossibile che sulla terra non ci siano le guerre, ma io dico: cominciamo a non fare questa di guerra, poi anche quell’altra accanto…”

Quando ho migliaia di chilometri da fare, che posso davvero fare verso una meta, devo farli. Se non voglio farli, se quel viaggio mi spaventa, cercherò certamente di stabilire, prima di muovermi, che la meta è irraggiungibile, e che dunque non vale la pena partire. Io invece, su questi argomenti, la penso come Gino Strada: dato che ho tantissimo da fare per tentare la via della libertà, dell’uscita dal sistema, del rifiuto del lavoro-capestro com’è configurato oggi, del rifiuto delle logiche del consumo così come mi vengono imposte, cambiando mobilità, inventandomi strumenti per vivere diversamente casa, riscaldamento, cibo, tempo libero, relazioni… inizio il prima possibile e faccio tutta la mia parte, che è enorme e che durerà una vita intera, avendo risultati straordinari. Se non la faccio, se non copro la distanza che mi è consentita, non ho neppure diritto di lamentarmi. 

In questo modo rispondo anche a una domanda che nessuno mi fa (le domande più interessanti non me le fa mai nessuno, mannaggia… Avrei un mucchio di cose da dire!), e che invece io mi faccio quotidianamente: dato che sono venuto al mondo senza volerlo, che non ho ricevuto in dote un manuale d’istruzione, che per di più tra relativamente poco tempo morirò: cosa posso fare nel frattempo, come posso dare senso e dignità alla mia vita, come posso cercare di contribuire, per conseguenza, alla vita del mondo intorno a me attraverso una testimonianza? Alla sola ipotesi di passare il tempo che mi è dato lamentandomi e non tentando, cercando di smontare il lavoro di chi ci prova, mi sentirei morire…

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