Del mare, di una lunga navigazione, memorizzo sempre istanti, fotogrammi. Le albe, in navigazione ma anche in porto, i caffè presi al mattino quando tutti dormono. Le parole scritte in quel posto, guardando quello scorcio, obiettivo di cornea che ha scattato quella fotografia, o di cartilagine che ha ascoltato quella parola, di quella persona. Stamattina, con la prima luce, mi sono messo a ricostruire, ordine impossibile senza il filo della rotta. Santorini, la prima lunga per Milos, Folegandros saltata, vista sfilare sulla dritta, sciarpa di seta nel vento dei tanti approdi. Kythira, la follia di quella luce durante l’ora di pranzo, il mare immobile nell’immaginazione, mente che vola e mani sporche d’olio. Elafonissos sospesa, Porto Kagio sepolta, quelle due ore in acqua andando sempre più giù, sentirsi negativi senza riemergere, la lunga traina a un nodo e mezzo da solo nella baia. Pylos ritrovata, i sogni che non puoi condividere, le emozioni sprecate del mattino, in piazza, la cameriera, la percezione che la quantità non è un accessorio della qualità, e che a questo non penso mai. Il senso del tempo sparso tra costa e isola, i colori della baia meridionale di Zacinto, il caldo del folle giro a ponente (la fatica di non dire no) che pareva dovesse sciogliere anche i pensieri. La musica, i due grossi tonni sfuggiti nel canale, Agios Nikolaos, cenare in quell’angolo di universo, sull’acqua, rivedere per l’ennesima volta il porto dell’isola (quante volte ormai nella mia vita quel molo?), attendere, camminare, poi salpare mentre l’ultimo salta a bordo, e su verso nord. L’arrivo di chi porta con sé la terraferma, il lavoro di ammorbidire il mattone. Le grandi catture, tragiche e sublimi, le traversate lunghe dopo aver atteso il vento, i momenti indescrivibili di ebrezza fino ai moli coi ferri arrugginiti e ritorti, fino a ciò che non conosci, ciò che speri, e che capita solo al mattino. Poi le tonnare, il caldo e il ghiaccio, il bello del tempo lasciato correre selvaggio (wild…), le baie per una sera, l’isola fatale sulla prua, Dragut rais, fratello dove sei, l’antro dei pirati di Dwejra, il villaggio sepolto, dover salpare ancora, andare ha sempre il sapore del cibo di mare, come atterrare, nel bagliore serale allucinato, cosa sia, se stanchezza o un segnale, non lo comprendiamo mai, non da mare almeno. Né su un’isola, luogo dove ti pare di risorgere e invece moriresti, se non fosse agosto. Differenza tra quello che dici e quello che desideri davvero, cioè i centimetri tra i lembi della ferita che porti in petto. Qualche eco, intorno a questo, i ragli lontani, ridicoli, perché lo sai: perfino navigare allontana solo i rumori, non te da te, cioè non sé dal fastidio di sé.
L’elzeviro azzurro, il tante volte arabesco del blu sul blu, quello che non si vede, e che stamani ho preso tempo per rivivere. Rituffarmici dentro…