Fatemi fare

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Fatemi fare il coglione anche a me. Lo fa la madre, col figlio appena venuto alla luce, il più bello del mondo anche se è orrendo. Lo fa l’artigiano, che vede la perfezione nella superficie del tavolo che ha levigato. Lo fa il manager, tronfio di aver appena fatto la sua presentazione perfetta. Lo fa l’innamorato, che vede meravigliosa la donnina media che ha di fronte, ma che ama, l’unica ad amarlo. Lo fa il pescatore, che vede enorme e imbattibile la sua preda appena catturata. Fatelo fare anche a me, per una volta, non me ne vogliate… “Rais” è meraviglioso.

Però fatemi articolare, che non sembri solo una polluzione. È bellissimo il libro, la sua copertina, la veste grafica, lo sono i risguardi con la carta di Piri Rais, le pagine leggere, il carattere, l’impaginato. Fatemi fare il coglione finto profondo, appena meno coglione del dovuto. “Rais” è splendido dentro. Il contenuto. Ho appena letto qualche pagina, qua e là. L’orgoglio del Rais: “Che un servo non dia mai ordini su una galera! Se vuoi dare ordini prima diventa libero, suda il sangue della tua schiavitù fino all’ultima goccia, e poi versa nel comando il tuo spirito purificato. E non sognarti di darne a mio nome, che per me parlo io solo, ed è già troppo!“. La sua saggezza: “Ciò che non viviamo non lo possiamo neppure rimpiangere. C’è qualcosa di più triste di questo?”. Potrei andare avanti. Mi sono commosso leggendo da questo libro non più mio…

L’ho preso tra le mani poco fa. C’era gente intorno, tutti contenti. Io avrei voluto essere solo. Parlarci. Dirgli quanti giorni, quanti minuti, quanti mesi, quanti anni… per darlo alla luce. Come una madre che rinfaccia al figlio i suoi sacrifici. Eppure avrei voluto stringerlo al petto, che sentisse il battito del cuore che lo aveva generato. Ma non potevo. E non posso ora, che sono finalmente solo, in questo bar al centro di Milano. Non è più mio. Lo è stato nell’ideazione, nel lavoro, nelle ricerche, in quel giro di lima intorno a una parola, che mi ha preso un mattino intero. Ora è bambino dotato che mostra già i suoi talenti, per la via. Lo avvicinassi, verrei preso per un maniaco. E’ giovane talentuoso che abbassa il record di corsa della scuola. E’ uomo che si erge dalla genuflessione della vita e dice il suo primo “no” pronto al suo primo “sì”. È amante che ama per al prima volta. È artista che crea la sua prima opera.

Fatemi fare il coglione fino in fondo. Fatemelo guardare da lontano, da oggi, per tutto il suo percorso. Fatemelo guardare incoerentemente, parzialmente, unilateralmente, inattendibilmente, inutilmente

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Coincidenze…

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Tra poche ore per me… tra pochi giorni per voi.

In treno. Tre ore e avrò tra le mani “l’oggetto Rais”. Un romanzo esiste da anni, concreto più di un mattone, di un palazzo. Potresti toccarlo, anche se non c’è, non ha alcuna dimensione fisica. Fino a un certo giorno, in cui tutto diventa una “cosa” di carta, cartoncino, inchiostro, dotata di volume, peso. Curioso che sia oggi: l’anniversario.

524 anni fa, oggi, Lui scorgeva una piccola luce: “como una candelilla che se levava y se adelantaba”. Fu il solo a vederla, verso le due di notte, e gli equipaggi pensarono che fosse impazzito. Navigavano da settimane, mesi se si considera la partenza da Palos. Eppure aveva ragione. Poco prima dell’alba il profilo azzurrino di un’isola illuminata dalla luna fece la sua magica apparizione di fronte a tutti.

Sapeva bene tutto, Lui. Che non si trattasse delle Indie dove era arrivato Marco Polo via terra, ad esempio, e perfino come erano fatte quelle terre. Come faceva a sapere? Sapeva bene tutto anche Piri Rais, che dopo qualche anno disegnò il mondo senza muoversi da Gelibolu, nei Dardanelli. Sapeva molto anche Andrea Doria, nonostante ufficialmente non fosse a conoscenza di niente. L’unico che non sapeva era Dragut Rais, condannato a subire, come tutti gli appestati del cuore, nonostante fosse l’unico che tutti dovevano subire. Cercò di comprendere la vita e di salvarsi, nel modo peggiore, come facciamo noi ancora oggi: incendiando il mondo, distruggendo i ponti, squarciando le vene e le menti. Forse l’unica a capire ogni cosa, per paradosso, è Lei, una schiava col nome di un vento, reclusa su un’isola, l’unico essere della storia capace di intuire

Sorrido mentre tutti questi personaggi mi aleggiano intorno… Fuori dal finestrino sfreccia la Toscana dei Medici. Ho sorriso anche ieri, di fronte alla tv, perché ho visto che sta per partire un serial sulla grande famiglia, negli anni in cui nasce il mio protagonista. E anche poco fa, quando sul giornale ho letto che Ildefonso Falcones, scrittore di bestseller, è appena uscito con un romanzo ambientato ai tempi di Dragut, dove un ragazzo tenta di emergere attraverso le rigide divisioni tra classi nell’occidente di fine ‘400. Proprio la storia del piccolo Dragut, appunto. Sorrido. Oggi, 12 ottobre, mentre io vedrò la mia, Colombo vedeva la sua meta

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Da un articolo di Ferrari. Grazie Antonio per questa lusinghiera definizione…

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Dance

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Vietato ballare

Ognuno la canticchia, senza sapere il motivo, o la suona, senza conoscere gli accordi, per renderla commestibile, digeribile, ogni mattina, ogni mattina, ogni mattina, sempre, sempre, ma a masticare non è sempre la stessa bocca, non digerisce sempre lo stesso stomaco, dunque cambiare cibo per sfamare tutti gli uomini affamati d’altro non riesce, questa, appunto, è la vita (questo lo capiscono in pochi), perché la stessa pietanza non va, non può andare, neppure la migliore (questo lo capiscono in pochissimi), e tu che ci hai fatto fede tremi perché sai, per certo, che cambierà ancora, e ancora, e puoi o illuderti (ingenuo…) o temere (pusillanime) ma per sempre, la realtà è quella, tu volevi che fosse semplice, ma non lo è, puoi fare finta, ma non ci riesci che talvolta, puoi anche battere i piedi ma tanto è così, perché siamo esseri antitetici e se siamo bravi, ma bravi veramente, impariamo solo a danzare in bilico sul paradosso, sulla contraddizione (che è tale fino a che non la vivi, poi diventa ricchezza), senza occultarla, senza farle generare sotterfugi, senza che ci zavorri nell’abisso delle identità negate, ma dandole aria, acqua, ferro, fuoco, patendola, perché no, ma a viso aperto, il tempo della vita è corto, forse, proprio per questo: impararla, questa danza, renderebbe santo il pirata, e pirata il santo, e questo somiglierebbe troppo, troppo, troppo… a Dio.

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Intorno

 

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Ho la certezza, rileggendo questa frase di Rais, che per tutto il tempo in cui ho navigato con il tragico pirata Dragut e i suoi scherani, per gli anni di convivenza con la misteriosa e unica Bora, desiderata da due uomini, salvati forse inconsapevolmente dal suo immenso amore, per i giorni e i giorni trascorsi a dipanare il filo ritorto della trama di spionaggio che ho tessuto sulla scia di una mappa maledetta, per i mesi di domande sulla vita di questi marinai, sul languore delle loro lontananze, sull’impossibile loro amplesso con la vita agra e la morte amica… ecco, per tutto questo tempo, e forse per tutto il tempo di questi decenni di scrittura, romanzi, saggi, articoli, racconti… non ho fatto che guardare intorno a me, cinquecento anni dopo i fatti descritti in Rais, pensando le mie domande, immaginando le vostre, osservando la mia rotta, di conserva a quella di tutte le barche, sporto dalla delfiniera della mia vita, come voi della vostra.

Ciò di cui parla un romanzo, qualunque sia lo scenario, qualunque sia l’epoca, chiunque sia il protagonista, se c’è almeno un filo di onestà a cucire le righe che l’autore traccia a una a una, è sempre la stessa storia… comprensibile o incomprensibile, esaustiva o parziale, definitiva o transitoria. A seconda di chi legge.

Come in questa citazione, ad esempio. “Vedere” ciò che si è, oppure no, ciechi a ogni equilibrio

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Dove siete?

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Vedere la poppa…

Come il primo giorno di vacanza, dopo la scuola, come il primo giorno dopo gli esami, alla maturità o all’università, come il primo giorno dopo l’ultimo di lavoro, quella prima estate, come il giorno dopo la fine del militare, come il giorno dopo il bachelor, come il primo giorno delle ferie d’inverno, come il giorno dopo quel matrimonio sbagliato, ma grazie al quale ho capito cosa non sono, come il giorno dopo essere entrato al Fienile dell’anima, che mi pareva d’aver finito e non avevo neanche ancora cominciato, come il giorno dopo aver detto quella cosa che avevo qui, come il giorno dopo essere salpato per la prima volta da solo, io e il mare, e tutto il mondo fuori.

Visto-si-stampi, come fosse una sola parola lunga, così si chiama quello che è successo ieri a Segrate. Me lo hanno strappato dalle mani, io che imploravo ancora ventiquattr’ore, ma non c’erano: “Salta tutto Simone…”, o ieri o niente, e allora è andato. Nove anni, mentre pensavo studiavo e scrivevo anche altro, ma un pezzo di me sempre lì, a provare a figurarmi il suo viso, la sua testa, da dove venisse la sua assurda cattiveria. E gli altri, immaginare per anni anche loro, dalla spia a Colombo, fino all’ultima nata, che poi ha preso in mano tutto, come fanno le donne quando c’è confusione: Bora. E poi fitto fitto per un anno intero, ogni mattina, ogni mattina alle 6.00, come si fa ogni cosa buona, con l’intensità dello sportivo, la ripetizione assidua e fedele del monaco, l’operosità intenta dell’artigiano, sette giorni su sette, a volte otto, due turni, anche il pomeriggio, fino a ieri. Non si può spiegare…

Dov’è l’amicizia tradita, dov’è l’amore, dov’è il nemico, dov’è il segreto, dov’è il mistero, dunque com’è andata? Dove se n’è andato Dragut, la sua galera ieri ha intuito bene il vento, mi ha preso dieci miglia, poi venti, poi il largo, guidone bianco e azzurro con la mezzaluna gialla al centro che volava alto, fino a che non s’è fatto punto, poi idea, poi ricordo, poi nulla; dove se n’è andato Keithab, dov’è Arslan, dov’è Khaled Imari, dov’è Bora, di cui non si trova più neppure la tomba nel paese dove nessuno si ricorda di lei; dov’è Ariadeno, Kahir al-Din, dov’è Occhialì, dove sono Andrea, il geniale Cristoforo, Carlo, dov’è La Vallette, dov’è il cipriota con le spalle larghe che le ha prese di santa ragione, dov’è lo Zoppo… Erano qui, talmente accanto da essere dentro, per mesi, anni, e ora… Dove sono andate le migliaia, centinaia di migliaia di marinai senza nome con cui ho navigato anni, dove sono andate le loro isole sicure, la loro brama di ritorno, dov’è finito Piri Rais, dove sono ora i teschi della “Torre dei crani”, teste anonime decollate sulla spiaggia di Gerba, una catasta alta dieci piedi, con una circonferenza di centodieci, visibile dal mare, che rimase su quella spiaggia dal 1546 alla metà dell’800. Tutti viaTutti salpati per proseguire un viaggio che senza di me non avrebbero mai intrapreso. Irriconoscenti, dimentichi, insensibili come tutti i figli. Dove sono andato io…, disperso nei loro lineamenti, nelle palpitazioni asincrone dei loro cuori tamburi sotto la pioggia grossa che sa di sale. Dove siete adesso? E dove sono io, ora…?

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C’era

Non c’è. Il tempo, dico. Un maestro mi disse: “non è né tanto né poco, il tempo, è quello che è. Solo che poi finisce”. Fossati dice tutto il contrario, salvo poi, nel finale, ammettere che: “c’era un tempo sognato che bisognava sognare“. Lo abbiamo fatto? E cosa sognavamo? Io ho sempre odiato l’imperfetto, tempo, appunto, sbagliato. Però per onestà la domanda facciamocela.

Il tempo… ho passato un mucchio di tempo a pensarci. E ha ragione un mio amico, forse, che mi invita a spostare a quando sarò vecchio tutte le cose fattibili anche in là con gli anni. Alcune cose poi non si possono più fare. E uno dice: “I cinquant’anni ti portano a questi pensieri, eh!?”. Mi spiace deluderlo: penso a questo da quando avevo quattordici anni. Chiusi “Così parlò Zarathustra” e iniziai a farlo. Forse anche da prima, così mi pare almeno. Certo, non mi sono più fermato.

Il remoto è così in là che neanche si ricorda; l’imperfetto è sbagliato già dal nome; il futuro, etimologicamente, è quel che “sta per essere”; il presente, oltre che verbo, è un dono. Un regalo che ti sta davanti in quel momento. Immagine assai evocativa. I tempi. Che tipi… Tutta roba che inizia e finisce. Hanno inventato il congiuntivo e il condizionale, i modi dell’ipotesi, proprio per mescolare un po’ le carte.

C’è tempo, dice Fossati. Dunque ora, qui, come fu allora lì. Un tempo per tutto. Per seminare, sognare. Ci penso da due giorni. Giorni che, in questi due giorni, sono stati progressivamente: futuro, presente, e ora sono passati. Non invano. “Spero”: sperare coniugato al… presente. Quando la volontà e l’ottimismo fanno del passato, un regalo.

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Tutte

Io non ho paura di morire. Ho paura di non vivere abbastanza

Basterebbe questa citazione di Mr. Nobody, di Jaco van Dormel, per far alzare chiunque e farlo correre a vedere questo film del 2009. Ma c’è molto, molto altro, di cui non vi dirò nulla. Semplicemente perché l’unico modo per parlarne era scrivere e girare questo film. Raccontarlo è impossibile.

Film che considero tra i tre migliori degli ultimi dieci anni e tra i cinque o al massimo sette migliori di sempre. Lo giudico così per cento motivi, tra cui due: il primo è che mette in film, mi fa vedere, il modo in cui io penso/sento/ragiono/percepisco/ricordo/immagino. Non le cose, ma il modo. E questo mi ha lasciato di sasso. Il secondo è che colpisce come un Guglielmo Tell dell’interpretazione esistenziale il centro esatto del tabellone della vita. E già il merito di porsi come obiettivo di estrarne il senso, investigarne il significato (della vita…) gli varrebbe il Nobel per l’ambizione, l’Oscar per il coraggio, il Pulitzer dell’incoscienza. Dunque, puro neo-neorealismo.

“Non si può tornare indietro, ecco perché è difficile scegliere“. Ma chi ascolta i racconti del vecchio (metafora di noi spettatori del film come della vita) non capisce. “E’ tutto una contraddizione! Di tutte queste vite qual è quella vera?!“. Ecco… Tutte. E se questo spaventa, se viene preso per fantasticheria, se viene rifiutato per presunta concretezza (puàh! che schifo…) mi spiace, non capirlo, non accettarlo, non renderà la vita meno di così. Suonare sei ottave sotto, come ci sforziamo sempre di fare, non cambia la melodia. La abbassa solo al livello della sporca, lurida, mefitica strada.

Film geniale, perfettamente a metà strada tra Truman Show e Big Fish, tra Benjamin Button e lo Zoo di Venere, tra Total Recall e Matrix, e un altro splendido visto venticinque anni fa che non mi riesco a ricordare. Viaggio al centro della vita, nella sua vera essenza, non quella brodaglia precotta che chiamiamo impudicamente realtà. Con un finale straordinario. Chissà che non sia così. Dio come lo spero…

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Il salto

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Questa faccenda dell’asticella mi ricordo di averla pensata un giorno di grecale teso e buono…

Qualcuno, rassicurato, vede nella mia inquietudine la prova che cambiare vita è impossibile, o almeno rischioso e potenzialmente dannoso. Una chimera che porta alla distruzione. Era molto preoccupato che vi fosse una possibilità, e ogni volta che gioisco, da anni, delle mie conquiste di libertà, patisce, oppure prova a smontarle, fino ad accusarmi di falsa coscienza, falsa testimonianza, ed ogni altro abominevole peccato di cui viene da sempre tacciato chi propone (e vive!) un’idea diversa dal conformismo che schiaccia ma anche, tanto, protegge. Se c’è una possibilità di fuga dal carcere, infatti, la popolazione carceraria si divide sempre in due: una minoranza spera e si adopera per tentare la sua evasione. La maggioranza invece soffre dovendo constatare che ha due vie di fronte: tentare, faticando e rischiando, oppure ammettere che potrebbe ma non ci prova, dunque che di fatto non ha a cuore la libertà come diceva, come giurava. E stare in carcere senza potersi più lamentare della mancata liberazione equivale a morire.

Chi strumentalizza, in questo modo, i disagi della vita, le complessità, le inevitabili sconfitte e i timori ineludibili, dimentica che l’inquietudine non è la mia, ma è dell’uomo. La differenza sta solo in un fatto: gli uomini liberi se la concedono, ci giocano tra le dita, prevalgono o ne escono sconfitti, ma consapevolmente, vivendo la reale natura delle cose. Gli altri invece la negano, drogandosi nei modi più adatti alla bisogna (lavoro, routine, consumo, farmaci, droghe, falsi movimenti…), fingendo che vada bene come va. Del resto, per chi ha problemi col coraggio e con la libertà, è sempre meglio una buona bugia che una cattiva verità.

Mi sono convinto che si tratti di una questione di ambizione. L’asticella cade se tenti di superarla col tuo miglior balzo, ma il fatto che cada è sia prova del fallimento del salto sia prova della meraviglia di aver tentato. Una vita da sportivi restando alla base di quella rampa, immobili, a guardare un’asticella che non cade solo perché mai un balzo verrà tentato, è per molti una rassicurazione. Per un saltatore in alto è il totem della sconfitta. Il punto di quell’asticella, naturalmente, non è superarla (anche se questo ha un suo grande senso) ma il salto. Ma se la questione maggiore risiede nel salto, solo chi non stacca la sua ombra da terra è fallito. Chi supera o non supera l’asticella, ce l’ha fatta.

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Non quando ci sei

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Devo pensare, riflettere come fare.

Mi sto rendendo sempre più conto del grande dislivello di vite che facciamo. Chi ha tempo, chi segue la mente e il cuore nella fitta concatenazione quotidiana delle emozioni e dei sentimenti, che seguono cronologie e tipologie insondabili, si ritrova solo. Chi ha da fare scorre, sbatte, si stanca, si distrae, parla, parla, parla, e poi si deve riposare, stanco. E quando ha tempo è distratto, si perde molte cose, soggiace a bisogni inevitabili, compressi nel tempo e nello spazio. La libertà rende spesso soli, costringe a vivere in sé e con sé i momenti che vorrebbe condividere, è soggetta a ritmi non suoi, che non può non rispettare. Costruire, progettare, o anche solo sentire, essere parte del flusso emotivo, sensoriale e psicologico che conduce non dove dobbiamo, ma dove siamo, non sono accessori, sono la vita, ed è dura poterla mettere in comune, raccontarla, farla e viverla insieme quando accade, perché bisognerà farla e viverla quando si potrà. Cioè quando, magari, quell’emozione non ci sarà più, e ci si dovrà sforzare. Neppure l’amore facciamo quando ne abbiamo voglia, tanto che spesso la voglia non ce la facciamo neanche venire quando non si può. E quei momenti di desiderio non tornano.

Incapaci di concepirci liberi, imberbi dell’autenticità, quasi non ci pensiamo a questo. Forse neppure lo sappiamo. Distratti da mille altri problemi, non immaginiamo che si possa esistere assecondando ciò che si sente quando lo si sente, o quando sarebbe bello donarci a chi sente, regalargli ciò che lui sente, nel momento in cui lo vive. Già riuscire ad avere tempo per fare qualcosa quando si può, ci pare tanto. Compriamo biglietti con mesi di anticipo: e se quel giorno non mi andrà di viaggiare? Prenotiamo ristoranti: e se non avrò fame? Rimandiamo a quando avremo tempo e modo l’amore, le parole, il nostro tempo finalmente “libero”: e se quella settimana avrò voglia di lavorare? Non si vive quando si è vivi, ma quando qualcuno ha deciso che è opportuno.

Ecco la lunga mano del sistema imperante, che ti raggiunge comunque, anche se ti sfili. Ecco dove prende le sue rivincite, costringendoti a essere solo quando vorresti qualcuno accanto, o quando ti porta a condividere le cose di maggior valore nei momenti “utili”, non nei migliori. E’ una tragica consapevolezza questa, su cui bisogna lavorare. Devo studiare, capire come sia possibile contrastare questo colpo di coda del grande scorpione dorato. Non può tollerare di essere stato battuto. Cerca, e trova, ogni giorno, la sua rivincita.

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Un altro giro di giostra

Tornano, perché prima o dopo devono farlo, e iniziano sempre dopo la metà d’agosto, i primi, poi verso la fine, il grosso, e gli ultimi a settembre, tornano con le vacanze sulle spalle, e il peso sembra che sia triplicato rispetto a quello insostenibile di prima di partire, che uno si chiede: ma se le vacanze il peso lo triplicano, non era meglio restare a lavorare? così sarebbe stato un terzo di quello che hanno ora addosso, e il problema non è mica tornare a lavorare, lavorare di per sé non è brutto, io sto lavorando, da mesi, dieci ore al giorno di media, tra quando scrivevo sette a ora che correggo tredici, qualcuno che ama il suo lavoro c’è, pochi, ma per gli altri è disumano due sole settimane l’anno di vacanza, chi ama quel che fa potrebbe non stancarsi mai, ma loro sì, dovrebbero averne una ogni tre, almeno! e in ogni caso, anche fosse, il problema è vivere, come, dove, facendo che, alienati da che, staccati da che, perché quel peso non ha niente a che vedere con l’ufficio, con il capo, con le riunioni in cravatta intorno a un tavolo, quel peso è dentro, triplica dentro, germina dentro, e riguarda tutto, fare notte a compilare excel o a dormire, una moglie amata o il disamore, un tempo speso o sprecato, rapporti umani inutili con gente che non amano, che non li ama, il cane da portare a pisciare, sogni che non hanno, ma più tragicamente che non vivono, posti che fanno schifo, perché non siamo una cosa soltanto, ma un insieme, e mi scrivono, in tanti, iniziano sempre ora, intorno al diciassette agosto, il giorno dopo, the day after, e mi fanno tenerezza, a qualcuno rispondo, non a tutti, vorrei ma non posto, anche perché quello che mi verrebbe da dire è meglio che non lo dica, per me è facile, adesso, ma io ci sono stato come stanno loro, e mi ricordo, e magari avessi avuto uno che mi alzava dalla sedia con tre parole dure messe bene, ma comunque non le dico quelle tre parole, perché sono dure per chi legge ma anche per chi scrive, e poi mi sono stufato di sentirmi dire che ci vado giù pesante, come se anche loro non ci andassero pesanti, io almeno lo faccio a parole, osservando, loro con le azioni, vivendo, e c’è una cosa che sa di brutto più delle altre in tutta questa storia, la ritualità del disappunto, il calendario dell’agio e del disagio, condannati a lamentarsi tutti più o meno nello stesso periodo, come se durante l’anno, deciso a tavolino, ci fosse il mese per sperare, quello per temere, poi uno per respirare, e quello vomitare, aprile è il mese per giacere, gennaio per tacere, poi c’è settembre per riprendere ancora, identico rituale, disperata liturgia, ogni anno, ogni mese, ogni giorno, mentre la vita se ne vola via.

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