Qua e là

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E io mi chiedo: da lì cosa sarei?

Georgia. Pochi chilometri al confine azero, armeno, iraniano, russo. Essere lontani, in un altrove che è davvero più in là, fa parte della vita libera. Non si può stare sempre qua. Qua è qua, dove sei già, dove sei sempre. Sempre qua. Che è come fosse sempre là. Perché è sempre. Invece “a volte”, spesso, quanto basta, è necessario. Là è via, lontano, per qualche istante pare perfino che sia altro “da sé”. Ma non è vero. Però per quell’istante sembra che lo sia. Fingersi là è condizione necessaria e sufficiente per poter, poi, essere qua. Solo chi è là è davvero qua, non il contrario. Provo a spiegarlo, ma non mi riesce molto, ultimamente. Ti prendono per uno instabile, che non sa quello che vuole.

E quale sia il mio là, è cosa da definirsi. Ognuno ha il suo est, dicevo, ognuno è il suo laggiù, luogo, ma anche solo condizione, dove risuoni sempre meno con te, il segnale è debole, prendi un’altra rete, sempre più connesso all’altro. L’altro che sei, ma che non pratichi mai. La vocina del mattino, sfrontata, che ti dice “dai andiamo via!”. O quella dei momenti di inattesa solitudine, per un ritardo, per un fraintendimento, quando speri che duri, per pochi istanti svincolato, non connesso, contumace. Quando ti dici “basta, vado via, non è per me!”. Ognuno ha un là, che poi è il qua di chi sa ancora perdere il controllo. Ecco il nemico del giorno: il controllo. Chi non sa sfuggire alla sua fame di dominio su di noi è condannato al qua, non sarà mai là. Dunque non sarà mai qua.

E che c’è là? L’altro, la sua materiale differenza. Altro corpo, altra mente, altro cuore. Fuori dalla gabbia che ti sforzi di vedere immensa, di addobbare e nominare in modo esotico, in cambio di quel poco di certezze per sopravvivere. Ci riesci sempre a contenere la sua voce? Spero di no, per te. Non andare là, di tanto in tanto almeno, può essere fatale. Prima o dopo peserà, e quel giorno il qua andrà in frantumi. E sembrerà, naturalmente, che esploda per questioni di lavoro, per colpa di qualcuno, per un diverbio, per una delusione, per soldi. Sappiamo che non è così. Meglio sarebbe non aver capito niente di queste righe, oggi e quel giorno. Sarà più facile mentire.

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Duro

sbarco2

Primo: tirare fuori una gamba. Secondo: sperare che si tocchi…

In questi due anni sono stato molto in difficoltà. Inutile negarlo. Stati, fatti, problemi, come la vita ne presenta spesso. Soprattutto mi sono perso. Dentro.

Stamattina camminavo nel bosco, all’alba, e pensavo che ho fatto un mucchio di strada questi due anni, e soprattutto nell’ultimo. Gli errori, credo necessari, i dolori, forse inevitabili. Fino a qualche tempo fa pensavo a questi due anni come un lungo tempo di vita bloccata, immobile, anzi, in retrocessione. Ma non è così. Da qualche giorno mi si sta chiarendo meglio lo scenario, sto collocando faticosamente i pezzi del puzzle. La scena che viene fuori è tutt’altro che rassicurante, per nulla una passeggiata di salute, ma comincia ad essere chiara. Sto affrontando il passaggio alla mia nuova vita. La quarta di un uomo temporaneo quale sono. Quali siamo.

Non ho la minima idea sul futuro, e come uscire dalle mie empasse si vedrà. Sono orgoglioso di non aver mai invocato la sorte, di non aver mai maledetto nessuno o dato colpe mie ad altri. Quel che è accaduto dipende tutto da me. Nessun rancore dunque. L’individuazione del “cattivo”, del “nemico”, che fa tanto bene al cuore (se il nemico è lui, io sono innocente!), la lascio ai semplici di spirito. Per quanto mi riguarda, non ho mai smesso di chiedermi: cosa stai facendo? Perché hai frainteso? Cosa puoi, cosa vuoi? Cosa sei?

Poco fa preparavo dei carciofini sott’olio. Li disponevo con cura nel barattolo, cercando di fare un buon lavoro. Mi sono accorto che era almeno una mezzora che non provavo sul cuore alcun peso, alcuna angoscia. Un istante, ma ben guadagnato. Subito dopo ho capito due passaggi fondamentali della mia natura, del perché capitano certe cose nella mia vita, cosa devo interiorizzare e accettare di me. Ogni fatica di questi due anni, ogni dolore, ogni lacrima, in quel momento, ha avuto il suo senso. Una sensazione molto forte, piena.

Bisogna che smettiamo di dirci un mucchio di balle. Quel film, a cui crediamo tanto, è un fake. Il senso di come siamo, che neghiamo e viviamo come fosse un reato, c’è. E’ lì, davanti a noi. Prima lo accettiamo, prima possiamo iniziare a vivere autenticamente. Ma bisogna chiederselo. E chiedersi non è farsi una domanda, ma imboccare un sentiero. Duro. Che implica scelte. Dure. Ma sempre meno difficili e fallimentari che vivere pensando di essere qualcuno che non saremo mai. Che non siamo mai stati.

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