Emergenze

Emergente. Ciò che viene fuori, che sta a galla, che non si può affondare. Ma anche ciò che risalta, che si erge più alto del resto, ciò che spicca e che si nota per la sua specificità. E ancora ciò che è maggiormente urgente, qualcosa che implica assistenza, cura, intervento rapido.
Qualità dissimile dal resto, quantità e materia differenti, tempo che stringe.

Eppure, gli “emergent“, i “fishing buoy“, i “floater“, sono solo gavitelli da pesca del New England. Pesca all’astice, prevalentemente. Il loro lavoro è segnalare una nassa sul fondo del mare. Galleggiano, sballottati dalle onde e piegati dal vento e dalle correnti. Sono di legno, originariamente di cedro nero. Ogni colore o numero o lettera ne identificano il proprietario. Nessuno può toccare un gavitello da pesca, nemmeno la Marine Authority. Sono un simbolo, uno strumento, un ferro del mestiere, un punto geodetico unico, irripetibile e intoccabile. Sono unici anche i loro graffi, i colpi ricevuti sui bastingaggi dei lobster da pesca dove vengono salpati. Hanno ferite che li identificano, sono reduci da migliaia di giorni in mare. Le loro rughe somigliano a quelle sul volto dei pescatori.

Tempi di emergenze, i nostri, gli attuali. Tempi di allarme, soccorso e intervento, in mare e in terraferma. Tempi di insopprimibile istinto al galleggiamento, per tanti che devono salvarsi. E tempi in cui siamo tutti costretti a fare ricorso, onda su onda, all’irriducibile spinta archimedea, che proietta verso la superficie, che evita l’affondamento.

Ho amato molto questi vecchi oggetti, unici, bellissimi, poetici, così ricchi di riferimenti e di storie. Ho ammirato le pareti dei capanni da pesca nei piccoli porti del Connecticut, del New Hampshire, del Massachusset, del Maine, del Rhode Island. Per questo, ormai tanti anni fa, ho iniziato a costruirli. Ne voglio sempre alcuni vicino, in ogni posto dove vivo, che sia in Liguria, che sia sull’isola egea. Mi piace cambiar loro posto, affastellarli, oppure diradarli. Li guardo spesso. Immagino. Occasionalmente, a chi me li ha chiesti, qualcuno l’ho venduto.

Per realizzarli parto da legni vecchi, a volte antichi, di essenze varie, legni spesso recuperati in mare. Opero su di loro, a mano, una metafora del tempo, almeno quando serve. Simulo il lavorio della salsedine e del vento. Poi li dipingo, immaginando ogni volta chi fosse l’uomo che aveva scelto quei colori per identificare la sua piccola flotta. Li penso in mare, sempre in movimento. Sempre dignitosi, nel loro tentativo profondamente umano di emergere. Di sopravvivere.

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