Giustizia(lista)

A breve distanza l’uno dall’altro (il 22 e il 25 di questo mese), Luca Mastrantonio e Giovanni Sartori intervengono in modo assai simile sul Corriere della Sera. Anche nei titoli, rispettivamente: “Radicalismo liquido” e “Com’è liquido il Grillismo”. Il riferimento è preso a prestito dal sociologo polacco Zygmunt Bauman, che ha definito la nostra come l’epoca della “modernità liquida”.

Entrambi lamentano il dilagare di un comune sentimento “anti”, sempre lacunoso nel dettaglio sui “pro”. Parlano di cattivi maestri, “cattivi grilli parlanti” e usano l’aggettivo “liquido” per stigmatizzarne (sintetizzo) tanto la genericità della critica quanto la mancanza di costrutto delle soluzioni. Luca Mastrantonio, in particolare, denuncia la deriva violenta, che “schiuma rabbia”, di questo radicalismo un po’ posticcio, scomodando l’esempio degli immarcescibili cattivi maestri come Toni Negri, e prende in giro i No-Tav, mi è parso, definendoli dei visionari senza obiettività che vivono in una irrealistica valle dell’Eden.

Sono rimasto colpito da questi due articoli, e non solo per la coincidenza dei loro titoli. Mi sono chiesto come mai proprio ora gli indignados di tutte le confessioni facciano tanto riflettere. Forse per difendere la “politica liquida”, che sta scolando via sempre più rapida nel gorgo del lavandino in cui lei stessa ha stappato lo scarico?

Devo dire che a me gli “arrabbiati” non sono mai piaciuti. Mi chiedo sempre perché siano così incattiviti: nessuno di loro, generalmente, ha effettivamente perduto il lavoro quando parla di occupazione, eppure sembra di sì. Mi viene sempre il sospetto che simulino, e che una volta scesi dal palco si rilassino, sorridano al loro assistente e gli chiedano: “Come sono andato?”, incuranti dei possibili effetti violenti della loro rabbia mediatica sulle molte menti sguarnite che ascoltano. Se gli incattiviti mettessero a fuoco l’origine della loro rabbia e la mitigassero, il mondo sarebbe subito migliore.

Concordo anche in parte con i due noti opinionisti relativamente all’ipertrofia dell’”anti” sull’assenza di proposte. Ad alcuni (non a Grillo, francamente, basta leggersi il suo programma) mancano troppe idee perché la loro critica diventi credibile.
Tuttavia, il generale sapore dei due pezzi mi ha lasciato senza parole per un bel po’. Ci si respira dentro ironia e una bella dose di quel giudizio sommario, dall’alto in basso, che mi parrebbe più ben utilizzato se indirizzato alla tragicommedia della politica ufficiale. Per quanto descamisados, o smutandados, le voci di rivolta che si levano da più parti hanno qualche milione di volte maggior diritto al rispetto dei manigoldi che hanno affamato e derubato il Paese fino ad oggi.

Dove sono trasalito, in particolare, è nell’occhiello del pezzo di Mastrantonio: “Dai No B ai No Tav, i puristi convertono la paranoia giustizialista contro il Capitale”. L’ho riletta un po’ di volte per essere sicuro di aver capito. Paranoia giustizialista. Contro il Capitale. Sì, avevo letto bene.
Mi permetto di far notare che il giustizialismo (tralasciando la matrice peronista dell’etimo) ha come opposto “garantismo”, principio fondamentale del sistema giuridico che rimanda al concetto di presunzione d’innocenza, che non scomoderei per l’attuale classe politica. Lo stesso eviterei per la critica, mai abbastanza recisa, all’attuale Capitalismo, che dire che abbia fallito la sua missione di generare benessere è contenersi fino al rischio di sembrare reticenti.

La critica al Sistema e ai suoi interpreti, che da lungo attendevamo sorgesse e crescesse vasta e popolare, ramificata e dalle mille sfaccettature, mi pare che non abbia davvero bisogno di garantisti che ne frenino l’azione. E’ del tutto giustificata, semmai tardiva e non ancora massiva quanto dovrebbe. Poggia, soprattutto, sul disastro di una classe politica che si è autodistrutta con ogni mezzo e di un pensiero economico fallimentare, che la storia non mancherà di condannare assai più aspramente di come si inizia a fare oggi.
Dare del giustizialista a chi si mobilita perché è stanco e avvilito dalla classe politica di questo Paese e dalle scelte sociali ed economiche dei suoi governi, rischia di suonare come il sospetto avvio di un’azione di difesa dell’indifendibile.

 

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Cercare le parole…

Devo ricordarmi di questi lunedì in compagnia del silenzio, irrorato da questo sole caldo, immerso nel mio pieno niente. Gli asparagi coperti di rugiada, che tengo ora nel pugno, raccolti all’alba. Devo trovare il modo che non si perda l’immagine dei gatti seduti al sole, senza alcuna allerta negli occhi semichiusi di chissà quale notte d’avventura.

Devo perfezionare la macchina della memoria, che tende a perdere colori, a tralasciare gli stati d’allucinazione emotiva che invece cerco e trovo con così alta frequenza, senza niente. Devo fissarmi in testa il verde della lattuga che ho raccolto, un verde inevitabile, gravido di metafora, talmente simbolico da sembrare arte. Ho bisogno che il tempo smetta di correre, ma non è semplice. Questo tempo, il mio tempo, è asincrono, si muove in modo irregolare a cavallo delle emozioni, dunque non posso misurarlo, solo subirlo, pure dolcemente, ma inesorabilmente. Quando lo cerco, è sempre diverso da quello che segna il mio orologio interiore.

Devo salvaguardare anche alcuni pensieri, questo lungo ragionamento sul frigorifero, che si è rotto all’improvviso. Non sto facendo niente per sostituirlo, perché mi è venuto il dubbio che non serva, e girare intorno a questa ipotesi, prefigurarla, ipotizzarne le conseguenze, calcolare, conta più di tenere in fresco qualche povera vivanda. Non è affatto detto che io ne compri uno nuovo, mi ripeto. Bisogna pensarci. E il pensiero di questo mi pare che conservi i cibi, e mi lancio a immaginare macchine del fresco azionate dal pensiero. Fantascienze che il funzionamento del frigo mi avrebbe precluso.

Bisogna che io non perda la cognizione dell’altrove da qui, da questo spazio e tempo sospesi, perché l’effetto di questa storia si avverte soprattutto nella mente, quando mi lancio nel vuoto per raggiungere persone o luoghi lontani. Mi pare di riuscire a raggiungerli, a strapparli da dove si trovano, a trascinarli qui con la docile e potente fermezza dell’intangibile. Da qui, nessuna cosa è lontana, nulla è impossibile. In questa condizione di ebbrezza, soprattutto al mattino, c’è tutto tranne l’isolamento. La storia proprio mentre la storia scompare.

Devo smettere di cercare le parole per le cose. Questa antica condanna potrebbe finire. I nomi, le azioni, l’organizzazione del discorso, sono inadeguati, bisogna ammetterlo una volta per tutte. Questo antico girare, girare, sfiorare il significato con gli strumenti della parola, lambisce appena, ma non tocca. Niente di tutto quello che siamo è comunicabile.

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Distanza…

Provo un enorme sentimento di distanza, io qui il resto laggiù. Una lontananza, quasi un distacco, qualcosa di incolmabile, come se fosse ormai impossibile qualsiasi recupero.

Distanza siderale dalle scene che vedo in televisione sulla vicenda della Lega, ad esempio. Forse è vero, se sono così, se corrono a salvare chi li ha fregati, se credono alle favole che non si sapeva, che c’è il complotto… allora aveva regione Bossi: sono padani, un’altra razza. Io no. Siamo diversi.

Distanza irrecuperabile dalla Borsa valori, dallo spread, dal denaro come metro di giudizio, come vangelo, come mantra da recitare ogni giorno a memoria, privo di apocrifi, senza alternativa. Quel denaro non vale niente, è l’ombra di un tragico kabuki sul velo ottuso  di un sistema sbagliato.

Distanza dagli esodi delle ferie. Lunedì pare ci fossero 45 chilometri di coda tra Andora e Savona. Ho provato pena per quella gente immobile in un’automobile. Non mobili, a carissimo prezzo di denaro e tempo, su un’auto-mobile, mentre la vita è movimento stando fermi.

Distanza sopra ogni giudizio per i prezzi di alcuni beni, che non posso più comprare. Che potrei forse anche, ma non voglio più. Un ristorante che conosco ha messo la tagliata di manzo a trenta euro la porzione. Una cosa molto triste, al di là di ogni considerazione.

Distanza senza pari per chi scambia le cose, giudica senza intervenire su di sé, senza dare ordine ai pensieri, alle azioni, senza programmi, e i giorni scorrono e la fine si avvicina e nella loro vita non accade nulla, non entra la gioia anche effimera di qualche limpido istante di libertà. Domani, domani, domani…

Distanza da chi dimentica, da chi scompare, senza capire che andare via fa più male a chi va, e chi resta lo dimenticherà.

Distanza da chi spreca parole, le usa come se fossero aria, che non costa niente, mentre le parole sono dieta, sono cibo, e il loro abuso o il loro uso sciatto è tossico, per se, per gli altri. Per me.

Distanza come fossimo alieni da chi segue un sole, una luce che è soltanto un riflesso, e la fonte luminosa è altrove, o non c’è. Il sole non si deve mai seguire, serve a illuminare il sentiero, a dirci a mezzogiorno dov’è il sud. Il sentiero si imbocca solo quando si smette di seguire il sole, qualcosa, qualcuno.

Distanza da chi non capisce, ma non perché non ci arrivi. C’è ancora qualcuno (ricordo il suo nome molto bene) che non ha neppure l’onestà di ricordare. Come potrebbe capire?

Di questa distanza, tra i tuoni e i lampi di un giorno fuori stagione, mi pare di provare dolore e gioia in egual misura. Scoprirsi ancora vicini a qualcosa che non ci giova, che ci fa male, sarebbe più triste. Sarebbe stato meglio non esserci mai avvicinati? O quella contiguità è servita, purché oggi si trasformi in allontanamento? Non lo sappiamo, non possiamo saperlo. Oggi però distanti, lontani. Tanti guai vengono dall’eccessiva vicinanza. Tutti troppo accanto, tutti troppo falsamente accanto. E quello che serve qui, sotto mano, ora, perché è un bene per noi… Dov’è?

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Irretito

Per le vie laterali del bazar delle spezie, sulla riva occidentale del Corno d’Oro, guardo i setacci. Ne vendono a decine, centinaia, a trama fitta, spessa, larghi e bassi, capienti, coi bordi rialzati. Quanti setacci servono ai turchi per vivere? Molti, sembrerebbe.

Tra la gente affaccendata del lunedì scruto i manufatti in alluminio, belli e leggerissimi. Esposte nei piccoli negozi, che erompono sulla via con tutta la loro merce, altrettanti teglie da forno, per realizzare milioni di focacce, milioni di pite in cui avvolgere il doner kebab.

Nelle ferramenta analizzo gli strumenti da taglio, osservo le viti, i dadi, verifico la qualità del filo di ferro. Non vedo alcun prodotto marchiato, solo oggetti forgiati. In un vicolo mi soffermo davanti a un fabbro. E’ lui il produttore di quegli utensili, pensati, realizzati e venduti in poche decine di metri.

Al venditore di semi chiedo cosa siano i microscopici sassolini azzurri che vedo in un sacco. In un chiosco di 1 metro per 50 centimetri un orafo mi ipnotizza: le sue dita annerite dallo stagno seguono una sagoma d’argento, sfiorano la spazzolina circolare che sibila a pochi centimetri dal suo viso. Sono accanto a lui, ma è talmente attento che non si accorge di me, non si muove, non fa alcun gesto. Solo l’anda e rianda millimetrico delle sue dita… A cosa pensa un orafo del Corno d’Oro quando lavora?

Su una delle porte del Gran Bazar di Istanbul c’è scritto “Dio ama i mercanti”. Chissà da dove viene quella frase. Forse l’ha scritta un venditore di tappeti. O di automobili. Non c’è niente di cui un venditore di macchine, o di tappeti, non possa convincervi. Tanto più se si tratta della parola di Dio. Ma dubito che sia così. Ai mercanti, a molti di loro almeno, va assai bene che Dio non esista. Prenderebbero qualche bella bastonata sulla schiena, se non fosse così. Forse però, al Bazar di Istanbul, molti venditori si salverebbero. Qui accade l’opposto che altrove: dove di solito fai fatica a trovare qualcosa di necessario, qui è dura scovare un oggetto inutile. Di questo luogo, non per caso, colpisce la concretezza.

Davanti al negozio del venditore di sacchi di juta resto imbambolato. Sacchi grezzi, color beige, puliti, con una striscia rossa a stampa al centro. Li intreccia con fibra di malvacea un vecchio che, per oggi, ha finito il suo lavoro e ora si riposa seduto in un angolo. Il suo mondo è questo negozio di sacchi di juta. La vita, per lui, è di juta. Io che non baratterei un istante del futuro con uno già trascorso – e che, anzi, so bene che il bello del passato è solo la sua lontananza (che non fa vedere bene i particolari) – di fronte alla juta sorrido.

Almeno fino a quando passo davanti alla bottega del cordaio… dove quasi mi commuovo. Il cordaio, quello che vende corde, trappe, sartie, sagole, gomene, scotte, spaghi di lana, cotone intrecciato, canapa e manilla. Cime d’ormeggio ruvide e pungenti, spinose, resistenti ed elastiche. Corde, fili di dimensione adeguata allo sforzo, di materiali proporzionati all’azione. Compro due bobine di morbida cima di canapa, 20 metri l’una, al prezzo di 10 lire turche (4€). Una è rossa, una verde, entrambi tinte con colori naturali. Le appenderò, ben addugliate, allo stipite di una porta, come fossero pronte all’uso. Dopo molti anni, forse, faccio un acquisto inutile, d’impulso, di cui (naturalmente) mi pare di non poter fare a meno.

Un cordaio ci salverà. Un cordaio può lanciare una cima a terra. Un cordaio può reggere il mondo. Nella sua bottega si vendono cordoni ombelicali, legami tra oggetti, fili che collegano terre a bastimenti, bastimenti a uomini, uomini a loro simili e l’umanità intera alla vita. Il cordaio non produce che righe, linee, non conosce il metro quadrato, solo quello lineare. Il cordaio vede il mondo a due dimensioni, sezione e lunghezza, un numero piccolo (per analizzare l’universo infinitesimo) e uno grande (per irretirlo). Un cordaio non parla quasi mai, sente soltanto i numeri, qualche nome, e il suo mestiere è tagliare e addugliare. Un uomo fatto di spietatezza e d’ordine, dunque, di solitudine e laschi legami. Il cordaio non sa chi terrà in mano l’altro capo del suo filo, prima o poi, ma non per questo lascia andare quello che ha tra le mani. Un cordaio crede nella provvidenza, e pensa che si manifesti sotto forma di dita che afferrano una corda che scorre. Stringere e sperare. Un po’ come partire dopo aver sognato.

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