Buone vacanze

Dell’estate amo tutto, ma soprattutto il tardo pomeriggio e la sera. La brezza fresca della costa che sfiata i suoi ultimi sussurri salmastri, il sole che sostituisce colore al bagliore, le tinte della costa, e del mare, che si fanno più forti, appena sgranate. Giurerei di essere nato a quest’ora, se non sapessi che non è così. O forse il mio primo momento di coscienza piena era estate, al tramonto. Qualcosa ho a che fare, certamente, con questa atmosfera. Forse è anche per questo che stasera, a quest’ora, insolitamente, scrivo.

Immagino che tra pochi giorni tutti saranno via. Aziende chiuse, città deserte. Le vacanze. Belle quanto poco altro al mondo. Così sperate, attese, pagate. Che il tempo vi sia amico e lungo, e che ogni attimo sia speso per vivere, con calma, senza ansie, qualunque cosa accada. Non vi aspettate. Non pretendete. Non dovete volere nulla. Solo vivere senza ritmi, senza tempo. E’ questo l’augurio che mi sento di farvi.

Ieri pensavo, guardando un film. L’avevo già visto altre volte: “Caterina va in città”, di Paolo Virzì. Un buon film, che tuttavia, sempre, mi fa fremere, muscoli contratti, mascella tesa. Quel film mi mette agitazione, mi fa penare. E’ un repertorio di mostri, non c’è un solo personaggio positivo. La mamma di Caterina (M. Buy) è una poveretta senza cervello, il padre (S. Castellitto) è un pazzo, un maniaco depressivo. Tutto intorno alla povera ragazzina si agitano figure borderline, soprattutto ragazzine, figlie di persone per bene, sostanzialmente alienate, su di giri, incapaci di qualunque speranza. E anche lei, Caterina, che per il film intero corre strattonata di qua e di là, con gli occhi spalancati, non ha alcuno spazio individuale, non vive alcun tempo. Un film così vero, così simile alla nostra vita. Guardarlo, ogni volta, mi mette i brividi.

Ecco, in quest’ora della sera, alla vigilia della vostra partenza…: provate a immaginare di non tornare. Non sto dicendo di farlo, ma provate a immaginarlo. Tutto sommato la vita è questa qui, lo sapete ormai, una piccola illusione, un povero piatto di grano. Provate almeno a partire con l’illusione, l’idea, l’immagine interiore che potreste non tornare. Fuori dalla città del film, dalla sua follia, per sempre. Vivete questi giorni così, fate la prova. Come fossero i primi di una nuova vita, non l’ora d’aria della vecchia. Immaginare fa bene a chi immagina, e rende vero ciò che immaginiamo. Chissà. Fatelo per non impazzire. Per non somigliare a Caterina, a sua madre, a suo padre. A noi.

Buone vacanze.

Share Button

Il problema del pane

Vale anche per la cucina. A questo mio buon cibo, molto creativo, serve pur sempre un piatto.

In una delle ultime interviste rilasciate da Italo Calvino, un intervistatore gli chiede: “L’ umanità sarà ancora capace di fantasia nel Duemila?”. La risposta è netta: “Sono piuttosto diffidente con questo imperativo della creatività. Io credo che per prima cosa ci vogliano delle basi di esattezza, metodo, concretezza, senso della realtà“. Risposta interessante e imprevista da parte dello scrittore più fantasioso della nostra letteratura. Ma la risposta non è finita: “La fantasia è come la marmellata, bisogna che sia spalmata su una solida fetta di pane. Se no, rimane come una cosa informe, su cui non si può costruire niente”. 

Ho ripensato a questa battuta di recente. Qualcuno mi ha rimbrottato di essere antitetico: “O parli di sogni o parli di metodo. O parli di lasciarsi andare o parli di caparbietà e impegno. Non puoi fare confusione, altrimenti non si capisce niente”. Lì per lì mi sono sentito in fallo: in effetti il metodo, l’impegno quotidiano, la regola monacale che spesso invoco come ricetta contro il relativismo, la depressione, la crisi, l’omologazione, non suonano come il miglior spartito per eseguire la musica della libertà. Libertà, variazione del ritmo di vita (lento e veloce ma quando decidiamo noi), cambiamento nella direzione delle nostre passioni, sogno… sembrano cose leggiadre, aloni che ammantano ineffabili i nostri cuori romantici. Tutta roba poco o nulla imbrigliabile in una regola. Quando ho sostenuto che i sogni non adatti a noi dobbiamo smettere di sognarli, qualcuno è addirittura insorto: “Un sogno è qualcosa di irrazionale! Mica decidi tu cosa sognare!”. 

La marmellata e la fetta di pane mi sono venute in aiuto. Un conto è sognare mentre si dorme: lì non puoi farci nulla. Forse è per questo che sono così disinteressato ai sogni notturni e non ne ricordo mai neppure uno. La roba automatica non mi è mai piaciuta molto. (Mai comprato il prosciutto, che basta metterlo nel piatto e via. Non c’è gastronomia, non c’è creatività nello sbattere una cosa nel piatto e mangiarsela). Un altro conto sono i sogni, le cose che vorremmo, quello che ancora non siamo ma che vorremmo diventare davvero (dunque che siamo già in potenza). Quando sognavo di giocare mezzala del Milan non era un sogno, era solo una cazzata. Infatti avevo sette anni (e infatti non ho mai giocato nel Milan). 

Esattezza, metodo, concretezza, senso della realtà. Ecco le basi della fantasia, della creatività, del sogno. Italo Calvino non s’è svegliato una mattina e ha partorito il Barone Rampante, del resto. Era un maniaco dello studio, un miliziano del lavoro, seguiva ritmi e orari peggio di un travet. La moglie Ester sostiene che il “tema libero” delle Lezioni Americane di Boston lo abbia ucciso, perfino.

Che meraviglia… Anzi, no, che tragedia! Non è forse quello l’elenco di ciò che ci manca?! Viviamo nell’epoca della marmellata. Noi siamo marmellata (come gridava Gurdulù: “Tutto è minestra. Il mondo è minestra!” ne Il Cavaliere Inesistente). Qualcuno dovrà pur porsi (prima o poi) il problema del pane. 

Share Button

Un tram per il mare (rispondi alla domanda)

Il mare, il grande polmone rigeneratore d'energia

Occorre che una donna o un uomo adulti e consapevoli si pongano il problema dell’assenza o dell’insufficienza dell’energia nelle loro vite. Per le vele occorre vento, per noi serve energia.

Ci dimenticheremmo mai di fare rifornimento di benzina alla nostra macchina? Non credo. In ogni caso ci accorgeremmo ben presto dell’errore. Come è possibile allora che non ci poniamo mai il problema dell’energia? Un sorriso costa, un gesto di generosità costa, lavorare costa (troppo), vivere è consumare. Dell’alimentazione sappiamo tutti tutto, ma quella è energia per il corpo. La vita è ben altro. Domanda: conoscete il modo di rifornirvi d’energia? Perché non ci pensate periodicamente? Per ognuno sarà un mix diverso: amore, amicizia, sesso, creatività, manualità, natura… ma occorre conoscere la mappa dei distributori della vostra benzina. Per non finirla. Per non restare a secco. Non l’avete ancora capito che si muore per questo, per il disincanto, la tristezza, la delusione, che conseguono a una vita senza energia? 

Se potessi, ad esempio, imporrei “un’ora di ebbrezza” a tutti, ogni giorno. Imporrei molte cose, a dire il vero (come l’uso di occhiali polarizzati, che accentuano i colori della realtà, o il consumo di gamberi crudi, che sono terribilmente afrodisiaci, o l’organizzazione di feste private, vere e proprie TAZ [Cfr Zone Temporaneamente Autonome – Akim Bay]), ma per prima imporrei l’ora di ebbrezza. Questa tentazione di imporre cose per vivere meglio è solo uno dei motivi (tanti) per cui è assai bene che io non diventi mai Presidente del consiglio, o Re o Imperatore.

Naturalmente non saprei come imporla, come metterla in pratica. L’argomento è borderline, così come lo sono gli stratagemmi per raggiungere l’ebbrezza e le facoltà per non soggiacervi in modo prono. L’ebbrezza, per come la intendo io, è uno stato d’equilibrio sottilissimo tra il controllo e la sua totale assenza, uno “stato di esaltazione e di piacevole stordimento per una gioia intensa, per passione” (Treccani). La imporrei proprio per questo, lasciando libere di scegliere solo le persone che possono comprovare di essere già capaci dell’ebbrezza per loro conto. Quelli come me, ad esempio, e come molti altri che incontro, soprattutto in mare. Quelli che l’ebbrezza ce l’hanno dentro, la secernono, la vivono come uno stato permanente, un po’ come Obelix, l’amico inseparabile di Asterix, a cui non veniva mai data la pozione magica “perché c’era caduto già dentro da piccolo”.

Stimo che la mancanza dell’ora quotidiana di ebbrezza generi mostri, e sia alla radice di tanta violenza. Certamente impedisce il sogno e la proiezione, ostacola sesso e amore, allontana dalla comprensione, fa da ruggine nei verricelli dell’amicizia, della disponibilità, della fratellanza. Il suo opposto non è la sobrietà, ma l’appannamento, il distacco, la freddezza, l’impermeabilità emotiva, l’incapacità di lasciarsi andare, il sospetto, il peso sul cuore, il dover essere.

Qualche giorno fa vedevo sul ponte di Mediterranea un bel po’ di gente ebbra di vita, e pensavo: “queste persone percepiscono la loro energia. Hanno ben chiaro che è cosa a termine, che va rigenerata periodicamente”. Poi ho scorso mentalmente i volti di tanti che conosco, che vivono sempre in riserva, che l’energia l’hanno finita da tempo e guardano passare i tram dal ciglio della strada, con lo sguardo inerte, incapaci perfino di fare un segno, perché la fermata è a richiesta. Ho immaginato di fare il conducente del tram, di fermarmi lo stesso, di farli salire tutti, di portarli al mare…

(rispondi alla domanda: quali sono i tuoi tre distributori di energia? Ci passi periodicamente, quanto serve e basta?)

Share Button

Non lavatevi…

Scoglio di Daskalia, sud di Antipaxos. Tappa per un bel bagno

C’è M., che ha perso il lavoro, non ha più legami sentimentali, ha avuto un incidente con la moto. Si definisce “il fuggitivo”. E’ arrivato a bordo teso come una corda di violino. Avevamo appena preparato un vassoietto di gamberi crudi marinati. Si è seduto, gliene abbiamo dato uno, ha sfiatato via qualcosa. Dopo tre ore aveva un’altra faccia. C’è P. che ha deciso che ora basta, si occuperà solo della propria felicità. “Ho già perso troppo tempo”. Ha 52 anni e quando è sbarcata le lacrime le rigavano il viso. C’è H. che si è sentita dire cose che nessuno le aveva mai detto. Erano cose evidenti, normali, e mi ha fatto impressione che non fossero mai uscite. C’è G., che sta per cambiare lavoro, ma che il prossimo impiego sarà molto, molto diverso dall’attuale. Ci sono C. e S., che sono venuti a vedere “se era una bufala” e che quando hanno capito che Mediterranea c’è davvero, partirà davvero, metterà la sua prua verso un destino ignoto carica di speranze, mi hanno detto “noi vogliamo esserci. Cosa dobbiamo fare?”. C’è S., ingegnere, che ha un po’ patito certi discorsi, ma che ha capito che togliersi le scarpe aiuta. Il problema semmai è rimettersele. C’è L., un uomo a un bivio. Non so cosa farà ora che torna a casa, ma non vorrei essere chi lo sta aspettando. C’è G. che a un certo punto ha detto tra sé, guardando il mare di Meganisi: “Va bene. E’ definitivo” e l’ha urlato altre volte, sempre più forte, carico di vita e voglia di muoversi. Ci sono M. e A., che vivono la medicina tibetana, il sesso tantrico, e sono altrove, dunque esattamente qui, ora, del tutto. C’è S. che ha lasciato tutto due anni fa, ha denaro ancora per uno, ma non si preoccupa: “qualcosa avverrà. Ho delle idee, ma nessuna ancora chiara.” E naturalmente tutto avverrà. C’è I., che è venuta per farsi dare una spinta, e D., che la spinta se l’è data da sola, e P. che quando è sbarcato è andato a Igoumeniza e, sul molo, ha deciso che tornava a bordo, e la spinta l’ha data lui a me. E poi c’è…

Scorrono i volti, su Mediterranea. Volti e anime che si somigliano, pure se sono diversi. Gente che si è messa in cammino. Facce spesso tese, poi cariche di meraviglia. Molti si interessano alla nostra spedizione. Qualcuno semplicemente vuole godere di un momento di libertà. Con ognuno parliamo, dialoghi intimi, pieni. Esce sempre fuori qualcosa. Per me. Per tutti.

Mi viene un dubbio: che tutto questo abbia a che fare col mare, con la vita sospesa su dieci metri d’acqua trasparente. Forse patiamo troppo la nostra lontananza dal mare. Bisogna pensarci, capire se è vero. Certo, guardando le macchie azzurre e verdi accanto a Mediterranea, ricordando il bordo a vela di qualche giorno fa, o le serate sulle isole interne, capisco che non è un caso. Il mare c’entra eccome. C’entriamo noi, la distanza tra l’albero e la chiglia della nostra barca vitale, tra la prua e la poppa del nostro mondo interiore. Lontani dalla nostra anima liquida, abbiamo le bocche riarse, il cuore impolverato. Uomini e donne senza vento, e senza un mare dove provare a tenere la rotta. 

Il sale che ho sulla pelle mi aiuta molto a vivere. Lo dico a tutti: “non lavatevi. Non con l’acqua dolce, almeno. Lasciate che il sale resti su di voi, vi disinfetti, vi tolga via un po’ di odore di terraferma e di disincanto”. Qualcuno, appena imbarcato, mi guarda con orrore. Poi, dopo due o tre giorni, lo guardo io. Ci sorridiamo…

Share Button