La storia non piace ai bambini

A ogni fatto pompato dai media, osserviamo la stessa reazione:  immediata polarizzazione, radicalismo verbale, gioco a chi la spara più grossa, forte emotività, perdita di lucidità. Accade su tutto, che sia una pandemia, una guerra lontana, un fatto di cronaca. È il nuovo sintomo del morbo che scorre nelle vene della società.

Vi preoccupereste mai della perdita d’acqua in bagno mentre un serial killer sta sfondando la porta di casa vostra con una motosega? Nessuno lo farebbe. Eppure è ciò che vediamo oggi in Italia, dove presto non avremo più un Sistema Sanitario Nazionale pubblico ma nessuno fibrilla o si preoccupa. Già oggi chi ha un cancro deve ricorrere all’amico medico per un rapido esame istologico e per una ancor più rapida operazione chirurgica, per essere curato in tempo. Presto capiterà a ognuno di noi, ma nessuno ha i nervi a fior di pelle per questo.
Francesco Cognetti, Presidente della Confederazione degli oncologi, cardiologi e ematologi italiani, stimava due anni fa “ritardi e cancellazioni di oltre 100 mila interventi chirurgici per tumore, un incredibile disastro clinico-assistenziale”. Per l’inadeguatezza del già fragile sistema sanitario italiano, solo durante il primo anno della pandemia, abbiamo avuto 40 mila morti in più del solito per cause non-covid.
Questa sì che è una vera emergenza, dalle conseguenze inconcepibili, ma è una storia che non piace ai bambini che siamo diventati, ne vogliamo un’altra. Come non piace, non coinvolge, il tema della catastrofe climatica imminente (che palle!) o quello del rischio emergente di trasformare il Paese in uno stato presidenziale, e in cui già (e ancora) si attacca la magistratura.

Dopo decenni di scelte sbagliate nell’impostazione delle nostre vite, ci ritroviamo stanchi, oppressi, ansiosi, con un tessuto sociale e di relazione lacerato. Chi aveva urlato per un mondo migliore ha poi aderito mani e piedi al modello consumistico e mercantile, anzi, lo ha creato. Ed eccoci alle conseguenze di questo mondo storto: la grande delusione; una società malata di soldi, oggetti inutili, incapace di donare, che vive male, col fiato corto, pronta a incazzarsi per finta su finte emergenze (invece che davvero sulle vere) giusto per far fischiare un po’ la valvola della pentola a pressione. Una società triste, senza slancio, senza fiducia, che dubita del marito, che fa accordi prematrimoniali con la moglie, che odia il suo vicino, che non presta i suoi oggetti anche se vive in case-magazzino, che non sogna un mondo migliore, ma che si altera soltanto, come un folle, per i brufoli insorgenti del peggiore.

Siamo infantili. Accettiamo il peggio ogni giorno, vediamo sulla nostra pelle quanto ci fa male, constatiamo giornalmente quanto la rabbia ci tolga lucidità, e non ce ne vergogniamo. Accettiamo tutto, con tutto il trasporto del mondo, e ci basta dare un po’ di matto periodicamente, su un monitor, in una piazza, per andare avanti.
Occorrerebbe pensiero, di fronte alla complessità. Calma, tenuta psicologica, obiettività, capacità di vedere i numeri, voglia di analizzare, capacità di collocare le cose nel loro giusto peso.

Ma questo lo fanno società mature, non le adolescenti come la nostra. A noi basta gridare quando ci offrono l’occasione per farlo, sfogare la rabbia CHE VIENE DA ALTROVE e non ha nulla a che fare con quella specifica circostanza. E così trattiamo come emergenza ciò che emergenza non è. L’ordine di priorità viene sconvolto, la società adolescente si concentra tutta su qualcosa, invece che sul rischio più grande che dovrebbe affrontare.
Il potere ci sguazza, se ne compiace, perché il popolo a cui dovrebbe rendere conto si distrae per un nonnulla, guarda altrove.

Così accade che le piazze si riempiano, e metà del Paese frema di rabbia per la tragica morte di una ragazza uccisa dal suo fidanzato. Non è accaduto dieci femminicidi fa, non accadrà tra altri tre, ma adesso, perché la storia era mediatica, funzionava bene, è stata pompata quanto serve.
Non c’è alcuna emergenza, anzi, il tragico problema degli omicidi sulle donne cala regolarmente da anni, ed è facile che anche quest’anno, grazie al Cielo, si riduca ancora. Almeno nel nostro Paese, che è già, da sempre, uno di quelli dove questo fenomeno orribile è meno accentuato che nel resto mondo, dove muoiono invece ogni anno circa 46.000 donne per motivi analoghi. In Francia, Germania, Inghilterra e dovunque muoiono più donne che qui…

Ma non lo puoi dire, non lo puoi spiegare. Non puoi cercare razionalità in un bambino che piange. Se provi a spiegargli i numeri, o le ragioni, quello si incazza ancora di più. Non si vergogna della sua irrazionalità, piange e basta.
Solo che quello fa così con qualche diritto, perché è effettivamente un bambino.
Noi no.

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7 pensieri su “La storia non piace ai bambini

  1. Ciao Simone, sono completamente d’accordo con la tua analisi.
    Ma non credo che la nostra società malata vada dietro a queste vicende per propria volontà, semplicemente veniamo spinti volontariamente da tutte le componenti (politica e mass media) ad occuparci di queste cose (paura del boom di femminicidi, paura degli attacchi terroristici come reazione all’attacco di Israele su Gaza, paura di Putin che verrà ad invaderci prima o poi, paura di un virus che ci farà morire tutti, paura perchè entreremo nell’era delle pandemie – e come lo sanno? – ) Insomma, secondo il mio parere, vogliono farci vivere in uno stadio di paura perenne. E una persona impaurita è più facilmente controllabile.
    E provano (riuscendoci) a riempire questa conseguente tristezza che vediamo in giro negli occhi delle persone con il consumismo dilagante, come scrivi.
    Non è una questione nazionale, è il mondo occidentale che si trova in questa situazione perchè poteri sovranazionali lo stanno dirigendo dall’altro verso un buco nero, dove la nostra umanità viene messa sempre più all’angolo.
    Credo che dobbiamo crecare di vivere a fianco a questo Sistema, spostati, cercando di esserne il più possibile indipendenti (dai soldi, dalle continue nuove esigenze che ti promettono la felicità) cercando di tornare al buon vicinato, all’essenzialità, alla cura di sè stessi, dei rapporti, delle proprie cose). Non facile ma credo l’unica strada.

    • Io non ho mai creduto a qualcuno che decide, vuole, progetta, ordisce. Semplicemente questa è la deriva, cioè ciò che capita quando noi siamo assenti. E assenti, dietro alle chimere e alle schifezze di questo schema, ci siamo stati per gli ultimi quarant’anni. Dunque ecco il risultato. Ma si può e si deve sovvertire questo ordine di fattori. Intanto siamo ancora (alcuni) in grado di capire. E questo è già molto. Poi basta alzarsi e fare. Io provo ogni giorno a costruire un mondo diverso e vedi che si riesce a farlo abbastanza bene. Certo, io sono un millimetro, ma come si sa i millimetri insieme diventano chilometri.

  2. Caro Simone,
    condivido in pieno la tua analisi così come quella di Stefania….dura fotografia di quello che siamo diventati.
    Andando oltre l’analisi in sé, io mi pongo ogni giorno domande a cui purtroppo non sempre so rispondere, ed in cui mi permetto di coinvolgerti….per chi come me è rimasto in questa povera Italia, ma sta fuori da certe dinamiche della società consumistica (venire su in un contesto di vita contadina, semplice e rispettosa della natura, dove l’autoproduzione è stata la normalità, dove viviamo ancora con le chiavi al portone di casa), per chi si è costruito una piccola cerchia di rapporti forti, veri, chi ha creato dal nulla un ambiente di lavoro rispettoso delle persone con cui collabora e cui distribuisce quel piccolo surplus che ne viene, chi come me…. dunque….cosa può fare in concreto ogni giorno per provare a scalfire il nulla che ci circonda, come coinvolgere più persone per provare a recuperare quel po’ di buono che ancora c’è e, non mi illudo di poter invertire la rotta, ma almeno rallentare la corsa verso il baratro che potrebbe esserci.
    Mi fa soffrire vedere il flusso di giovani che va via dall’Italia, io ancora credo che ci possa essere un domani migliore per tutti in questo paese (povera illusa?)….ma quando ho provato a costruire un progetto futuro chiedendo un po’ di impegno da parte di tutti, ne sono uscita sconfitta.
    Il rischio che vorrei evitare è quello di chiudermi nel mio mondo, dove sto benissimo, con la ristretta cerchia di persone scelte, e rinunciare definitivamente alla mia parte nel mondo.
    Desidererei tanto vedere quel bambino cominciare a diventare almeno un adolescente!!!
    Grazie per darmi sempre spunti di riflessione.
    Vi abbraccio

    • Comunicare. Invitare gente a vedere. Raccontare. Cioè testimoniare che un’altra vita è possibile. Entrare in gioco sul terreno nemico della comunicazione e farlo a prescindere dai risultati mediatici, ma con lenta, costante, inesorabile determinazione. Occorre occupare spazi della comunicazione per dare del mondo una visione diversa. E poi dalla virtualità passare agli incontri, ai corsi, a ciò che possiamo fare per mostrare il retro dell’arazzo che qualcuno trama truffaldinamente dal dritto, perché c’è quel “verso”, ed è più bello del “recto”. Buon viaggio e complimenti!

    • Ti ringrazio per la risposta. Credo anch’io sia una questione individuale, anch’io sono in cammino e tu sei uno dei primi che ha contribuito, con i tuoi libri sull’argomento, a farmi scattare la scintilla. Poi forse dissento sul fatto che non ci sia qualcuno sopra che muove i fili alle masse. Ma la conclusione a cui arrivo è la stessa che proponi tu. Un caro saluto

  3. Interessante (almeno per me) è chiedersi e vedere quale logica spinge il bambino di turno ad arrabbiarsi se si tenta di dire che le cose sono un po’ più complesse e sfumate di quel che pensa.
    Credo si arrabbi e si metta a piangere perché lo si depriva dell’unica sicurezza di cui dispone, non solo sul mondo, ma anche – e forse in primis – su se stesso. E poco importa se quell’unica sicurezza è un’autonarrazione o la favola di Babbo Natale, basta che funzioni, ossia gli dia un senso.
    Per gli adulti-bambini di oggi quasi sempre l’autonarrazione è l’unica realtà accettabile di senso in un’esistenza concreta desolante in cui non ci sono più oggetti ma solo prodotti, non più uomini ma solo consumatori (che si annoiano perché non sanno più fare niente, quindi devono “distrarsi” comprando cose nuove, che li annoiano e li deprivano di libertà creativa ancora di più, e via giù nel vortice)
    Temo che in fondo non ci si occupi del serial killer alla porta principale perché si ha la convinzione di non essere in grado di affrontarlo e gestirlo. Molto meglio occuparsi della perdita del lavello in bagno, che con un tutorial su youtube anche il più inetto tampona. Oppure ti compri su Temu un lavello nuovo di pacca e per due settimane sei apposto. Se invece si va alla porta principale e si guarda il serial killer in faccia si rischia di trovarsi un gemello davanti…. E chi si sa più gestire?! via…
    Non so, Simone, forse sono troppo radicale io, ma nella stragrande maggioranza dei casi, questo posizionarsi in maniera manichea dalla parte di un presunto giusto/buono/democratico contro l’altrettanto presunto malvagio di turno mi appare sia conseguenza della destrutturazione finale dell’essere umano. Un tentativo bislacco di rivalsa quando la partita è già persa.
    Si dà per scontato che le persone che fisicamente incontriamo ci siano, ma non è cosi. Spesso non ci sono nel senso profondo del termine. E se non ci sei, non hai l’elasticità di integrare i contrari, di metterti in relazione, di vedere sfumature e complessità; ti strutturi solo per opposizioni e hai bisogno che il tuo opposto si converta al “bene” che gli predichi (all’occorenza anche violentemente perché lo fai in nome del “bene”, ci mancherebbe..) per raccattare un senso e un’identità. La banalità del male ha questa radice, come sappiamo.
    Un bambino ha speranza di costruirsi e esserci, diventare ciò che è. Un adulto destrutturato (ma ormai la destrutturazione colpisce anche i bambini) ha un lavoro ben più complesso. Un po’ come avere una rocchetta di filo sfatta e sparsa sul pavimento, con cui non puoi né cucire né legar nulla, una rocchetta sfatta che ad ogni refolo di vento, appiglio occasionale o flauto magico dell’uomo forte viene sollevata e illusa di non esser appiattita a terra senza forma. Almeno se ti accodi al vento e lotti per la “causa giusta” del momento hai l’impressione di stare meglio, qualche millimetro sopra il pavimento del non senso.
    A fare un uomo, a farlo stare, occorre avvolgere bene la rocchetta di filo, dargli giusta tensione e direzione, intrecciarlo con un inizio e una fine, renderlo pronto all’uso, mantenendo però un perno vuoto al centro, dove passa l’aria del dubbio e il pilastro verticale immateriale, per tessere con altri fili una tenda, una coperta, una tovaglia condivisa.
    Se sei sfatto a terra, riavvolgerti e ridarti forma e direzione, compattandoti e facendoti più piccolo, è un lavoro immenso, paziente, certosino. Impaurisce, anche perché ci hanno raccontato che non val la pena ed è troppo faticoso e poi nessuno ti vede più e se non ti vede nessuno tu non ci sei. Ti hanno detto. Mentre non ci sei perché sei a terra sfatto e sperso.
    Eppure se si riavvolgesse quel filo alla rocchetta col perno vuoto il serial killer si disfarrebbe piano piano, perché appunto, è fatto dello stesso filo…
    Chiudo dicendo che se non si fa sparire quel serial killer allora ogni buona parola è vuota e ogni buona causa priva di vera empatia e compassione. Uno sciacallaggio del dolore altrui che è una bestemmia assoluta. Sarebbe meglio tacere, piuttosto.

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