Rotte

Le due barche della Rotta dei Pirati a Bizerte

Le due barche della Rotta dei Pirati a Bizerte

Generalmente è autunno, la prima volta. Poi corrono i primi venti di libeccio e le foglie volano altrove. E’ in inverno che si pensa, si studia, si verificano cuore e polmoni. Per una rotta servono soprattutto sentimento e fiato. A primavera si mettono date nelle caselle bianche, si copre di bianco il buco nero invernale. Gente si aggrega, sconosciuti, amici, persone amate. Poi non si pensa più. Si scivola verso il mare come slavine urlanti.

Alla fine, il silenzio. Solo la prora che canta tra le onde. Il tempo del viaggio. Giorni sempre uguali, storie che cambiano parole, si divertono a invertire il senso. Il pensiero della casa lontana, di una casa che si vede altrove, dove si potrebbe vivere senza scarpe, senza denaro. Un bar, l’immagine di noi seduti a sorseggiare un caffé. Miglia che si rincorrono, si mescolano ad altri viaggi. Per arrivare da qualche parte, prima o dopo.

Poi arriva il poi. Cioé oggi. Ed è un oggi qui, a Cagliari, ultima tappa della Rotta dei Pirati (si chiamava così il viaggio immaginato, sentito, progettato). Si mette il piede a terra, per la solita operazione di tendere una cima, di chiudere un nodo alla galloccia. Ma non è come sempre. La gente sbarca, si saluta. Per non vedersi più, forse. Forse sì. Ma questo viaggio, quello pensato, diverso da quello progettato, diverso da quello fatto, dunque questi viaggi, sono conclusi.

A cosa si pensa dopo un viaggio concluso? Cosa c’è oltre una prua giunta all’ormeggio?

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Silenzi e balene

la coda di un capodoglio in immersione ieri

la coda di un capodoglio in immersione ieri

Silenzio. Giorni senza segnale, senza telefono, senza computer. Solo mare, vento, ancoraggi che destano apprensione, senza ridosso, senza protezione. Dunque silenzio. Contatto col mondo rarefatto, reso quasi un filo sottile. Quante parole non dette, pensieri non scritti. Quello che non si scrive vola via, ha la consistenza del pensiero inespresso, dunque del nulla. Però quei pensieri c’erano, verranno a galla, ritorneranno, diventeranno parola. Al momento sono scivolati sultanto fuori bordo, tra le onde, si sono sciolti nel mare.

Poi d’improvviso ogni cosa cambia. Un istante. E’ questo il tempo del cambiamento. E’ per questo che coglie sempre di sorpresa…

La balenottera salta e ripiomba in mare

La balenottera salta e ripiomba in mare

Tra la Tunisia e la Sardegna le due barche di questa bella rotta si trovano accerchiate da un branco enorme di capodogli, delfini, perfino una grande balenottera di oltre 20 metri. Restiamo senza fiato, dunque senza parole. Emettiamo solo esclamazoni, suoni stupiti, invocazioni. La scena è agghiacciante (potrebbero colarci a picco in un istante) eppure maestosa, serena, clamorosa. Un branco di oltre 15 capodogli, con alcune femmine grandi, molti “cuccioli” di meno di dieci metri, alcuni grandi maschi in lontananza. Tra loro, intorno, impazzita, nuota a grande velocità una balenottera comune, gigantesca. Vola nell’acqua, poi salta, immensa, pachidermica, alzando colonne straordinarie, esplosioni di granate tra le onde. Non abbiamo tempo per fissare tutto. Restiamo così, nel silenzio, tra le balene, incapaci perfino di pensare.

La folle corsa e i salti della balenottera

La folle corsa e i salti della balenottera

Esseri mostruosi, dalla magnitudine incalcolabile, protagonisti di storie e avventure immaginate, vissute, mai state, questi esseri sembrano racchiudere tutte le caratteristiche della natura in un solo cuore. Vederli, vederli passare sotto la chiglia mentre si strusciano tra loro, ricongiunge con qualcosa di perduto. Dove sono le nostre paure, i nostri pensieri, le parole, prima di questo momento? Siamo in prossimità di esseri meravigliosi, abbiamo sentore delle loro pelli lucide, del loro colore. Vediamo i loro occhi affioranti, tondi, incerti. Cosa penseranno di noi?

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E’ così

E’ proprio così, come dice Piero Ottone (“Piccola filosofia di un amore. La Vela”). In mare se si è tristi, si è più tristi. Se si è già felici, in mare si è più felici. Il grande blu accelera il battito delle emozioni, acuisce la percezione, rende più alti i marosi. Trovarsi in mare e essere in difficoltà fa dolere la carne, non solo il cuore. Fa trasalire, gemere, torcersi, implodere. La sua enormità preme dove c’è già pressione, mentre pochi giorni prima alleggeriva ancora dove c’era sollievo. Le medesime difficoltà, che fino a poco tempo prima parevano sale su una pietanza già buona, diventano fiele, irrancidiscono, avvelenano.

Dal mare, non si può fuggire se non prendendo la via della terra. Finché ci si naviga dentro siamo in balia della buona e della cattiva sorte, che fanno quel che vogliono del guscio di noce su cui il nostro cuore cerca felicità e fronteggia dolore. Il grido è inascoltato, la richiesta d’aiuto si perde nel vento. Non c’è alcun riparo per la nostra àncora, solo onda, e onda, e onda, a perdita d’orizzonte. Le baie riparate pettinate dalla miglior brezza che fino a un giorno prima si susseguivano come regali inattessi, sono scomparse. Occorre resistere, in silenzio, tenere duro. Non c’è altra via. Non c’è alternativa.

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Notti insonni

fine luglio 005

Faamu-Sami in navigazione con 30 nodi

Sono le 23.00, Capo Bon, cala a sud ovest della punta. Il vento decide di girare. Prima sud-est, improvvisamente ovest. E’ notte, le barche in rada ballano, brandeggiano, si avvicinano agli scogli. Inizia a piovere, la catena geme tra le rocce. Tutti dormono, o soffrono nelle loro cabine. Che fare? Un punto è il comfort, quello prima è la sicurezza della barca.

Tra una verifica dell’ancora e un tentativo di vedere la distanza dalla costa nonostante il buio, pensavo. Pensavo che il mare mi sta insegnando la pazienza e la decisione. A volte occorre saper attendere, altre sapersi decidere, muoversi e andare. Tra queste opzioni contrapposte c’è l’orizzonte della paura e quello della speranza, una linea a treccia che si dipana e si riavvolge, di ora in ora, di minuto in minuto. L’altra sera, ad esempio, ho atteso.

Il mare insegna, rende piccoli, ridimensiona. Basta che non ci sia la luce, che il buio avvolga il marinaio, per fare di lui un essere dimezzato. Cosa conta se ci sia la luce o no? Le onde non saranno per questo più alte, il vento non diminuirà o aumenterà la sua forza. Eppure il cuore è in allarme, senza luce, gli occhi cercano senza trovare, le informazioni sono discontinue.

Ho fatto l’alba a controllare che non andassimo a terra. Verso le 5.00 rischiavamo di prendere un altro groppo. I lampi violenti e azzurri si avvicinavano. Ho tolto l’ancora, sono andato a est per ripararmi oltre il capo. Ho pensato a lungo, ho spuntato la margherita della decisione e dell’attesa. Quando mi sono assopito, verso le 8.00, ho avuto un pensiero per il mare, grato per i nuovi insegnamenti ricevuti. Poche cose ci parlano così a lungo, per una vita, come il mare.

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Lotta di classe a Pantelleria

Lance pantesche nel porto di Pantelleria

Lance pantesche nel porto di Pantelleria

Stavo scrivendo in un bar. Mi chiama C., del mio equipaggio. Mi dice: “E’ meglio che vieni”. C. la conosco bene, ho capito che c’erano problemi alla barca. Arrivo lì in un baleno, e che ti vedo? Un 70 piedi (22 metri circa) che si era infilato nello spazio che non c’è, sgomitando tra barca e barca, dove neppure un 30 piedi sarebbe entrato. Le barche in banchina occupavano quasi tutto lo spazio (eravamo arrivati tutti verso metà giornata proprio per trovarlo) e quell’enorme, bellissimo veliero blu aveva forzato, si era infilato dove non poteva, ci aveva schiacciati tutti di qua e di là. Per soprammercato, pare che mentre spingevano e forzavano, una signora amica dell’equipaggio, dal molo, abbia detto a voce alta: “dai che così nobilitate un po’ questo pontile!”, come a dire che la loro splendida barca avrebbe alzato un po’ il livello, bassino, delle barche presenti.

Ora, si dà il caso che io manchi sempre quando dovrei esserci. Mi sarebbe piaciuto dirne quattro a quella snob. Non contenta, rivolta a me che mi lamentavo e aizzavo tutti i comandanti, mi ha dato una lezione di etica dicendomi “Del resto, nella nautica, ci si dovrebbe dare tutti una mano!”. Ho ringraziato la signora per la lezioncina senza dilungarmi sull’inadeguatezza semantica di “nautica” in luogo di “marineria” (o “diporto”), l’una industria e l’altra antica attività dell’uomo. Il fatto che lei attribuisse valori a un’industria definiva inderogabilmente l’abisso tra noi.

Morale, ci siamo ribellati. Ho chiesto chi dei brizzolati briatori a bordo fosse il comandante (si parla solo col comandante, mai con i “marinai”) e l’ho avvisato con testimoni che i danni subiti dalla mia barca sarebbero stati dovuti alla sua imperizia. G. lo skipper del Nugae, li ha informati che sedersi nel pozzetto come se l’ormeggio fosse terminato non era appropriato, visto che avevano causato un problema e loro dovevano risolverlo. Il malcapitato Comandante di quella bella barca ha tentato una minima reazione, sostenendo di avere anche lui diritto a stare al molo. L’ho informato che questo era vero, “Ma solo se c’è spazio”. Un paio di comandanti francesi, sulle loro imbarcazioni, guardavano la scena senza parole.

Eccola lì la nostra epoca, ce l’avevamo davanti. Snobismo e mancanza di rispetto, furberia invece della fatica. Per avere un posto in porto, si rinuncia a mezza giornata in rada, dove fare il bagno è bello, dove si gode molto. Noi avevamo fatto così, e il posto ce lo eravamo guadagnato lealmente, come si fa sempre, senza spingere, senza fare atti di forza, senza pretendere. Il Comandante di quella grande barca a vela invece, applicava il metodo terrestre, quello del lavoro, della città. Vederlo in mare, faceva molta impressione. Tanti soldi non fanno di un armatore un marinaio. Del resto, come ha commentato R., “una Bentley guidata dal facchino resta sempre la macchina del facchino”. L’ho trovato appropriato.

In breve: sono andati via. Al grido di “Los Capitanos Hunidos Jamas Seran Vencidos” abbiamo goduto della nostra piccola vittoria nell’eterna lotta di classe.

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Liberi e dimenticati

2428929--180x140[1]--180x140[1]I marinai, da sempre, sono lavoratori che contano poco. Meno degli altri, dei terrestri. Nessuno li considera, forse perché non si vedono mai se ne stanno in mare lontano da tutti. I marinai sono invisibili, a metà strada tra l’esserci e il non esserci. Forse è per questo che Platone diceva: “Esistono gli uomini vivi, esistono gli uomini morti e poi esistono i marinai”.

Immaginate cosa sarebbe accaduto se avessero rapito dei lavoratori da una fabbrica. Polizia, media, sindacalisti… dirette fiume dal luogo del rapimento. Invece per i poveri marinai della nave italiana Buccaneer, sequestrata in Somalia, nessun clamore. Sono solo marinai, non c’è da angosciarsi troppo… Per mesi sono stati dimenticati.

E’ un po’ come quando rapiscono delle suore in qualche stato africano. Viene data la notizia, poi silenzio. Se rapiscono un giornalista, apriti cielo. Se viene rapito un militare, poi, non ne parliamo. Beh, i più dimenticati di tutti sono i marinai. Avete ascoltato un nome, avete visto fotografie? Sapete qualcosa delle vite di questi signori? Nessuno ci riferisce nulla. Non meritano. Poveri cristi…

Ebbene, la notizia è che quei signori (i primi a chiamarsi “signori” tra loro sono stati proprio i marinai. Tutt’ora un ufficiale chiama “signore” un marinaio semplice all’accademia), dicevo, quei signori sono stati liberati. E’ una notizia che non farà scalpore. La leggeranno sui giornali degli uomini vivi, stesi sulla loro bella sdraio, sulla spiaggia. Io però ve la comunico. Uomini di mare liberi. Invisibili, ma liberi. Grazie al cielo.

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Traversate

Canale di Sicilia - Il tramonto della luna all'alba

Canale di Sicilia - Il tramonto della luna all'alba

Se la luna è alta piena brillante e il vento netto, quieto, continuo, anche l’onda vi raggiungerà. Sarà motivo di lieve pena, ma di grande soddisfazione. La barca procederà per decine di miglia, dunque per molte ore. Alcune notti hanno magia e stanchezza come sorelle. Le palpebre si chiudono e il sogno non ha limiti. All’alba la luce da oriente fronteggiava l’argento luminoso da ovest. Io non sapevo se guardare verso il passato o verso il futuro…

Ci sono momenti così…

Poco importa che sia difficile comunicarli.

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Gente di mare

Piccoli catamarani per mare

Piccoli catamarani per mare

Non ho chiesto informazioni. L’ho fatto volutamente, perché certe cose mi piace di più immaginarle che saperle. Del resto la situazione era chiara, c’era poco da inventare…

Lega Navale di Trapani, mattina presto. Due piccoli catamarani, 20 piedi direi, senza cabina naturalmente. Gente che dormiva sulla rete di prua, o su quella del “pozzetto”. L’aria da sud, asciutta, piacevole, stanotte li deve aver cullati. Ho visto un ragazzo che si alzava, si stiracchiava, spettinato, coi segni della rete sulla schiena. E’ sbarcato, ha dato un’occhiata intorno ed è andato verso i bagni. Poi un caffé dalla terrazza.

Sulla murata hanno molti adesivi di sponsor, e una scritta “Pomezia”. Girano il mare facendo campeggio nautico. Dormono sotto le stelle, non hanno servizi a bordo, acqua solo in qualche tanica, cibo il minimo indispensabile. Se piove si bagnano, se c’è onda pure. Comfort? Direi quasi zero. Gioia di vivere il mare? Direi molta. Il senso di tutto questo? Chissà, bisognerebbe chiederlo a loro. Anche se qualcosa mi viene in mente…

Belle le comodità, chi lo nega. Fare quelli che sono duri per il gusto di sembrare duri, generalmente, è patetico. Però quando pioveva a dirotto, questo inverno, e io vedevo l’acqua scendere dal tetto, le lenzuola umide… ho temuto gli elementi. Trasalivo al fragore degli scrosci, mi rincuoravo nelle pause. “Bello, eri zuppo, e te ne vanti pure?!” No. Avrei preferito che il mio tetto non facesse acqua. Però quell’esperienza mi ha ricollegato con gli elementi, mi ha fatto ripensare al fortunale, alla furia del vento. Cose che in terraferma non temevo, non avevo mai considerato. Quando tornò il sole dopo tre giorni d’inferno, ricordo, ho guardato il cielo e ho goduto molto, ho assaporato nuova speranza, ho sorriso. Immagino qualcosa di simile anche per questi ragazzi con i piccoli cat. Entrare in porto, vedere una schiarita, godere del vento amico, deve dar senso alle loro vite. Se a qualcuno questo sembra poco, sono lieto di ascoltare quale metodo migliore vogliano insegnarci.

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Cibo di mare

Splendido alalunga di oltre 15 chili

Splendido alalunga di oltre 15 chili

Qualcuno ha detto “poverino…”. Lui lottava duro e per un pelo non mi è uscita un’imprecazione. “Come sarebbe a dire poverino…” ho pensato. Però è vero: poverino. La sua livrea azzurra e argento brllava nel blu turchese del mare. Aveva preso 90 metri di lenza, fuggendo nella profondità, e dopo una mezzora di lotta lo stavo portando in superficie. Io cominciavo ad avere il braccio sinistro indolenzito, anche per questo ero lieto di vedere che saliva, cedeva, stava per essere battuto… Lui guardava la luce dal blu, e la vedeva sempre più vicina. Sentiva che stava per compiersi la sua ora.

Da una barca, guardare nel blu e veder guizzare un grande pesce, è una scena antica. Una scena nostra. Quando navigo mangio pesce pescato, per la maggior parte del tempo. Non costa denaro, ma fatica, attesa, speranza, pazienza. Un buon prezzo per un buon cibo. Ogni cosa che costa denaro non ha questi sapori, dunque non può essere così buona.

Per la cronaca, il tonno era di circa 17 chili, era una femmina ed era carica di uova (bottarga). Il tutto è stato celebrato con spaghetti alla bottarga fresca (cipolla tagliata fine, prezzemolo, olio d’oliva, pepe creolo); buillon (tonno a fette su cui ho gettato un liquido bollente fatto di olio, vino, aceto, aglio, rhum, spezie); tartara (capperi, prezzemolo, aglio, sale, pepe, limone); altra tartara (con trito di pomodorini secchi, peperoncino, olive snocciolate, capperi, acciughe); agrodolce (filetto appena scottato in zucchero, salsa di soia, aceto, aglio e poi affettato); stick giapponesi (filetto tagliato a fiammifero, marinato in limone, salsa di soia, rhum, poi sgocciolato, infarinato, cotto qb in padella e poi condito con la marinatura); ventresca (olio e pepe). Poverino, certo…  Ma era delizioso. Deve prendersela col padreterno, non con me. A farlo così buono è stato lui. Io lo mangio soltanto.

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Nulla di certo

Trapani. Sul lato ovest del porto

Trapani. Sul lato ovest del porto

Ho sempre pensato che questo mare non fosse ad est, né a ovest. Che non fosse né Europa né Africa. Il tempo ha scompaginato le carte della botanica, della gastronomia, dell’artigianato nautico, della cultura. Troppe storie sono nate sotto un eucalipto mediorientale e sono terminate sotto un eucalipto ligure. Troppe palme sono state trasporate via mare, troppi cibi sono stati raccontati e gustati da razze diverse.

La collocazione di questo mare dunque non è definita. Non è né in quel qui che conosciamo, né in quel lì che conosci tu, o lui. Tutti però sappiamo dov’è, cos’è, come canta quando il vento gira a sud ovest. Non possiamo raccontarlo, perché potrebbero prenderci per pazzi. Si può raccontare una storia il cui teatro è un luogo reale che non si sa dove sia? Nè racconto fantastico nè racconto di storia, nè cronaca nè fiction. Qui le onde si fanno ombra nel blu, si rincorrono corte e alte, il vento raffica veloce, quasi mai cattivo nell’anima.

Stamani sono atterrato a Trapani. Gelato al cioccolato, granita al limone. La marina dell’avanporto è ampia, d’acqua azzurro chiaro, come nata per una piscina. Le vie hanno l’eleganza del barocco, la luce del medio del Mediterraneo. Qui siamo forse al centro, o in uno dei punti infiniti in cui il centro si articola. Stasera, al termine di queste 500 miglia da La Spezia a Trapani, faremo festa. Un viaggio ha sempre un capo e una coda, e quando una cosa si porta a termine occorre berci sopra. Ora il punto è se vi sia un termine a questi viaggi per mare. Può esserci un termine per viaggi compiuti in un luogo che non ha una collocazione precisa? Forse navigare qui è come immaginare, e l’acqua sotto lo scafo ha la stessa consistenza dei sogni.

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