Generalmente è autunno, la prima volta. Poi corrono i primi venti di libeccio e le foglie volano altrove. E’ in inverno che si pensa, si studia, si verificano cuore e polmoni. Per una rotta servono soprattutto sentimento e fiato. A primavera si mettono date nelle caselle bianche, si copre di bianco il buco nero invernale. Gente si aggrega, sconosciuti, amici, persone amate. Poi non si pensa più. Si scivola verso il mare come slavine urlanti.
Alla fine, il silenzio. Solo la prora che canta tra le onde. Il tempo del viaggio. Giorni sempre uguali, storie che cambiano parole, si divertono a invertire il senso. Il pensiero della casa lontana, di una casa che si vede altrove, dove si potrebbe vivere senza scarpe, senza denaro. Un bar, l’immagine di noi seduti a sorseggiare un caffé. Miglia che si rincorrono, si mescolano ad altri viaggi. Per arrivare da qualche parte, prima o dopo.
Poi arriva il poi. Cioé oggi. Ed è un oggi qui, a Cagliari, ultima tappa della Rotta dei Pirati (si chiamava così il viaggio immaginato, sentito, progettato). Si mette il piede a terra, per la solita operazione di tendere una cima, di chiudere un nodo alla galloccia. Ma non è come sempre. La gente sbarca, si saluta. Per non vedersi più, forse. Forse sì. Ma questo viaggio, quello pensato, diverso da quello progettato, diverso da quello fatto, dunque questi viaggi, sono conclusi.
A cosa si pensa dopo un viaggio concluso? Cosa c’è oltre una prua giunta all’ormeggio?