Verifica

La vita. Vista (in questo caso) dalla Boqueria.

E quindi? E ora? Questo ci si deve chiedere quando qualcosa è stato fatto, quando si è presa quella decisione, a lungo vagheggiata, che tanto sembrava urgente. Sembrava che ne avessimo diritto, ci siamo caricati dentro chiamandola proprio così: un nostro diritto! Pareva che fosse un gesto di liberazione perfino, qualcosa di necessario, da cui dipendeva tutta la nostra dignità. Non era quella, in fondo, la causa di tutti i nostri problemi? Bisognava metter fine a quella cosa! Ci avevamo pensato, l’avevamo sentita sorgere dentro, forse ne avevamo anche parlato con qualcuno, amico buono o amico falso, che infatti ci aveva detto cose diverse. Quello falso non ci aveva messo in guardia di alcune possibili conseguenze, non ci aveva parlato delle cause, guarda caso…

Ed eccole, il giorno dopo. Le conseguenze. Finalmente misurabili: e ora? E adesso? Che prospettive abbiamo costruito? Dovrebbero spalancarsi delle porte, direi, se la decisione era quella giusta. No?! Dovremmo avere più opportunità, dovremmo aver liberato energie imboccando una strada finalmente nostra, vera, adatta. Si aprono? Si spalancano? Fammi vedere ora quanto sei felice, quanto stai meglio. Sorridi, fammi vedere come voli. Di più… Ancora di più…!

La verifica. Quanto poco la amiamo. Quanto la tralasciamo. Quanto la temiamo… Eppure è essenziale. Pratica sempre diffusa tra le anime oneste: ho preso questa decisione, e il giorno dopo misuro che, in effetti, sto meglio, vedo molte cose, noto che la mia prospettiva è stata potenziata, ho aumentato, fatto crescere, posso finalmente decollare. Oppure no… No?! E allora, mi spiace ammetterlo, ma qualcosa non è andato, qualcosa che ho detto o fatto mi ha diminuito, ha ridotto, ha limitato. Ho dato soluzione sbagliata a problema giusto, perché ho travisato le cause. Dunque ciò che ho fatto era un errore. Lo registro, lo ammetto, me ne faccio carico. Punto.

Qualcuno mi ha stimolato a prendere quella decisione, senza parlarmi dei rischi? Pessimo amico. Punto. Oppure qualcuno me lo aveva detto, anche male, anche solo a modo suo? Ottimo amico, persona franca, sincera, adulta. Punto. Ecco una cosa ben fatta dopo un errore: la verifica. Ho appena guadagnato qualcosa… Fosse anche solo un amico.

Quanti dati, quante informazioni! Basta analizzarle, non chiudere gli occhi, non evitare di dirsi ciò che è accaduto con la stessa franchezza che ha sempre la realtà, se la guardi. Se la guardi davvero. E da quei dati posso capire tanto, per non rifare l’errore, ad esempio, domani, o per capire l’esatta dislocazione della causa del problema, che si è rivelata altrove, non fuori, spesso dentro….
“Mi ha reso più povero dire o fare quella certa cosa. Ora ho meno prospettive. Pensavo sarei stato meglio, e invece…”. Ecco l’inizio di una vita migliore. Ma senza dir questo, senza vedere la realtà, senza il coraggio di misurarla spietatamente, è solo un anello. L’anello identico al precedente, identico al susseguente, della stessa medesima catena di sempre. Proprio quella catena che ci eravamo convinti di spezzare facendo o dicendo qual che abbiamo fatto e detto.

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Formidabili quegli uomini

Anni duri. Ma non sono più duri gli anni del silenzio del pensiero e della parola?

Ho fatto un incontro, in questi giorni, su “La Nave dei Libri” per Barcellona. Ho incontrato un uomo che, a 24 anni, col megafono in pugno (l’arma della parola…) un giorno urlò alla polizia schierata in assetto antisommossa: “Avete cinque minuti per arrendervi!“. Questa battuta, così controintuitiva, pronunciata verso una polizia repressiva e braccio armato di un potere duro, all’epoca, l’avrebbe potuta pronunciare solo il mio Gregorio (il protagonista di “Un uomo temporaneo“). Quest’uomo si chiama Mario Capanna, di cui trovate tutto sul web (per chi ha meno di quarant’anni almeno, gli altri se lo ricordano bene). Un omone alto e grosso, con due occhi pieni di passione ed emozione, la cultura di chi ha studiato (“la regola fondamentale che ci davamo era: studiare, studiare, studiare. Per essere i primi nella lotta, dovevamo essere i primi nello studio“), l’uso della parola di chi ha sempre pensato, intuito, tentato.

Formidabili quegli anni“, libro irrinunciabile, leggetelo. Ma anche “Lettera a mio figlio sul ’68” e poi questo ultimo, appena uscito, che leggo a breve: “Noi Tutti“. Fu uno dei primi e massimi leader del Movimento Studentesco tra ’68 e ’69, tanto durò il fenomeno in Italia (il Maggio francese durò venti giorni, e in Germania e altrove, altrettanto). Fu consigliere regionale, poi parlamentare europeo, poi deputato. Fondò DP, Democrazia Proletaria. Ripudiava la violenza in un’epoca in cui fare il passo e andare oltre pareva (e fu) per tantissimi inevitabile (“ci aiutò molto il dialogo coi partigiani, che ci ammonivano a stare lontani dalla violenza, che è una spirale da cui non esci più”). Raccontando, si commuove ancora oggi. Sintonia immediata tra noi.

Gli ho mosso una critica, sul poco peso dato all’azione individuale, tutti presi da quella collettiva (i cattolici per la comunità, i marxisti per la classe). Credo molto in questo punto. Ne ho fatto una filosofia di vita. Ma poi me ne sono pentito (anche se lui, disponibilissimo, ha accettato e argomentato).
Me ne sono pentito perché quest’uomo ha detto, studiato, e soprattutto fatto tanto, è stato tre volte in galera senza aver commesso furti o violenze, perché all’epoca la lotta era pericolosa, e si rischiava di persona. Ha dialogato con le teste più attive di un ventennio, e dato tutto il suo contributo, fino al ’92, quando si è ritirato dalla politica praticata e si è messo a lavorare su temi ambientali. E chi sono io per muovere critiche a chi ha fatto tanto, azione diretta, concreta, sulla propria pelle? Ho sempre odiato chi viene lì e ti dice che potevi fare di più… mi verrebbe da dirgli: “ma perché, tu che mi critichi, che cazzo hai fatto intanto?”.

Molto dialogo tra noi. Tanta intesa, di energia e ispirazione. Formidabili quegli uomini, in quell’epoca. Noi oggi cloroformizzati, stanchi prima di sudare, immobili, salvo rarissimi casi. Impauriti di tutto, della nostra ombra vuota, mentre il mondo ci muore sotto i piedi. E come al solito, quando siamo andati via, l’ho salutato con un profondo languore, nella pancia, nella mente, per quanto potremmo fare, per quanto siamo fragili, per quante cazzate ci raccontiamo, e per com’erano ambiziosi loro, invece, fratelli maggiori di un’epoca viva. Ma anche con uno stimolo: a studiare di più, a impegnarmi di più, a vivere l’azione diretta, attivisti almeno delle nostre deboli idee col coraggio necessario a non dover rimpiangere, domani, di non essere vissuti.

Che ricchezza incontrare uomini così, che impulso sanno ancora offrire a noi! E che bella la parola, il pensiero, gli sguardi, che ci possono unire, ci possono collegare. Quante miserie di bassa lega hanno spazzato via dal mio cuore, quegli sguardi vivi, giochetti e presunzioni che nascono dalla mediocrità…

Grazie alla vita, per uomini e incontri così.

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La linea

 

linee sottili, più resistenti di una cima d’ormeggio

Mi sono accorto della linea solo dopo averla percorsa. L’ho guardata sul plotter, quello della foto qui sopra: arcuata, spezzata, fatta di continue correzioni di rotta, tutto fuorché facile, dritta, lineare. E solo in quel momento l’ho capita. Una rotta sottile, nera, un filo, apparentemente fragile, eppure solidissimo. Partiva da Beirut e finiva a Haifa, due paesi in guerra da molti anni, che proprio di recente si sono lanciati missili, che non si possono neppure sentire nominare l’un l’altro. E quella linea, oltre a molte miglia, molte ore di navigazione, problemi con le guardie di frontiera, qualche rischio… significava qualcosa, era simbolica, metaforica.

Ma alla pace, all’unione tra opposti che quella linea simboleggiava, a come imbarcazione Mediterranea stia riuscendo nel suo intento di cucire, incontrare, forse suturare, forse avviare… ho pensato soltanto dopo. Quando l’ho guardata sul plotter, col maestrale che saliva, le onde che si alzavano e accorciavano, ricordandomi quanto è stretta l’entrata del porto di Herzliya, ai pericoli che stavamo per fronteggiare, quella linea mi è sembrata solo una cosa mia. Una sigla, la cifra dell’essere arrivato fin qui come uomo prima che come marinaio. Si riferiva al posto da cui sono partito tanti anni fa, al significato che ha per una persona trovarsi dove un giorno aveva pensato che si sarebbe trovata. Mi sono messo a ragionare sulla forma di quella linea: una parentesi aperta, o una “C”, o un orecchio, dunque l’inizio di una spiegazione (la parentesi), o la “C” della parola Coraggio, o l’ascolto (l’orecchio). Cose buone che mi servono anche adesso, nella mia vita presente e futura. Dotazioni obbligatorie.

Ho collegato cose distanti tra loro. Ho salutato le persone che c’erano durante questo percorso. Sono stato serenamente certo che avrebbero sorriso vedendomi qui. Ho capito, soprattutto, che per unire Libano e Israele in una rotta simbolica, significativa, che onora questa barca e me che sono al comando e il suo equipaggio coraggioso, in un gesto raro, voluto, contro ogni evidenza, a testimoniare che qualcosa è sempre possibile con coraggio e spirito d’avventura, con passione e tenacia… ecco, per fare tutto questo, serve aver fatto molte cose prima. Qui non ci arriva chi abbia a cuore la pace, o il dialogo, che sono cose fuori, altre, della società. Ci arriva chi si è occupato di sé, cioè chi ha fatto il lavoro più importante di quella società: emancipare se stesso, rendersi il più libero possibile, cercare l’autenticità, fare ciò che è adatto a sé, interrompere l’insensatezza di altre occupazioni, interrompere lavori dannosi, interrompere l’emorragia del tempo. Quell’uomo, che qualcuno avrebbe potuto giudicare egoista perché si è occupato di sé, è l’unico che può occuparsi dei simboli, delle metafore, cioè del mondo intorno a sé. Pochi lo fanno. Per questo il mondo va così male.

Ecco cosa c’era disegnato su quella carta nautica: un filo. Una linea. Un profilo in cui, forse, davvero, riconoscersi.

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Un sorriso prima di morire

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Dentex Ipercubicus – Rigore nella preparazione del piano. Poi, andare.

Essere in movimento deve sovrastare la paura. Il gusto di sentirsi in evoluzione, intendo. Mai fermi, mai fermi, e mai paura. Non quella che inchioda, perlomeno. E “in movimento” non vuol dire ipercinesi, naturalmente. Conosco persone che saltano, fanno caos, dichiarano, grandi sorrisi… Tutte cazzate. Eruzioni di una frenesia. Gratti, e sotto non c’è niente. Le considero un danno, perché qualcuno che ci crede, per fragilità magari, lo trovano sempre. No, io parlo di non impantanarsi nello “space between” tra paura e inerzia. Perché, non so se avete notato, la vita va.

In questi ultimi mesi ho affrontato cose grosse, che mi terrorizzavano. Lo faccio ancora, ma molto meno. Con coraggio, piano piano, non senza disperarmi, non senza temere, non senza l’istinto di mollare, sono andato avanti. E sono qui. Non mi ha sdraiato fronteggiare i miei mostri. E ora si procede. Decisioni che diventano realtà. Ho delle certezze? Naturalmente no. Ma neppure parto sconfitto. Ogni partenza è buona, meglio se senza una conclusione certa. Cosa accadrà? Un mucchio di cose belle. E chi lo dice? Io. Io è solo me, dunque niente di infallibile, ma non è neanche “nessuno”.

Ora io già so che questa cosa, che mi ha fatto paura, che ho scalpellato con pazienza e che adesso faccio, è una di quelle a cui penserò con un sorriso prima di morire. Ecco la faccenda. Accumulare immagini così, quelle dove c’eravamo, dove abbiamo tentato, dove c’era qualche buon motivo per non muoversi, e invece siamo andati, perché abbiamo visto (sentito…) una ragione in più per farlo. Non ci si muove senza un buon motivo. E neppure avendo solo certezze. All’inizio c’è un buon sogno. In mezzo c’è il coraggio. Alla fine un sorriso.

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