Un podcast bello lungo. Per voi.

Ecco qui, su Spotify, un lungo podcast (1h e 37′) parte della serie “L’Ultima Domanda“.

Tema complessivo, a ampio raggio, in cui viene fuori un po’ di tutto sui temi più attuali.
Pensavo che qualcosa lo tagliassero, non fosse altro che per stringerlo, e invece no, hanno lasciato proprio tutto… Ma forse è meglio così, restituisce il senso anche del tono.
 
Non devo dirvi io, ancora, quanto questi pensieri siano urgenti, necessari, e come proporsi, sottoporsi, suscitare a se stessi una nuova opzione di vita, sia ormai diventato una necessità (era un’opportunità, ai tempi, ma le cose cambiano).
 
Buon ascolto.
 
#laltravia
 
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Il Cantiere Filosofico


Cosa?
– lavorare al primo cantiere filosofico del Mediterraneo
– che vuol dire: lavorare imparando mille e una cosa su come si ristruttura una piccola casetta di pietra. Insieme. Dunque imparando anche io con chi ci sarà
– ma anche: incontrarsi, comunicare, parlare, ascoltare, conoscersi, affrontare mille e un tema sulla filosofia applicata delle nostre vite, alle nostre scelte, oggi.

Quando, dove e come:
– aprile e maggio (forse primi giorni di giugno, ma forse no)
– sull’isola (per sapere quale sia bisogna aver seguito questa pagina, oppure aver letto “L’Altra Via”. Un’isola si cerca, non viene rivelata)
– il giorno prima, chi vorrà manderà un messaggio a me: “domani si lavora?”
– Se la risposta sarà “sì”, ci si vedrà il giorno seguente alle 9.00. Caffè e poi al lavoro.

Dotazioni:
– mani, braccia, mente, cuore, gambe, ascolto, riflessione, energia… ognuno metterà quelli che ha
– pala, piccone, cazzuola, materiali saranno già disponibili al cantiere
– portarsi abiti da lavoro. Meglio se anche scarpe antinfortunistiche e guanti.

Perché:
– Perché le mani, saperle usare, mettersi lì con cura a fare un intonaco, o un muretto, lavorando legna, pietra, ferro, ci salverà
– Perché mente, cuore, il nostro equilibrio generale… sono muscoli. E la funzione sviluppa l’organo. È una legge.

– Perché un’isola del Mediterraneo è di per sé un eremo, un convento laico, dove per pregare bisogna proprio lavorare e parlarsi.

Certezze e desideri:
– c’e qualche certezza in tutto questo? Nessuna. A nessuno. Da parte di nessuno
– Chi verrà sull’isola lo farà perché vuole venire sull’isola, viverla, vederla, sentirla, viverci. Di sua libera sponte. Dunque a prescindere da ogni eventuale altro motivo. Senza nessun impegno con me, né io con nessuno. Liberi.
– E tuttavia, ogni giorno potrà essere un’opportunità per lavorare e comunicare insieme, oppure no. Le cose migliori si scelgono, non si eseguono. Ogni mattino.
– È un lavoro questo? No.
– È volontariato? No.
– Qualcuno ne ha bisogno? No (voi potete fare filosofia in mille modi, io posso costruirmi questa casetta da solo, con F).
– Qualcuno ne avrà un beneficio? Tutti, comunque vada.
– Ciò che vale davvero qualcosa, e la pena di essere perseguito, è sempre e solo il frutto di un eventuale desiderio, volontario e libero.

Somiglia a qualcosa tutto questo?
– Spero di no.
– Se avete notizia di uno schema del genere, non simile o assimilabile, proprio questo, ditemelo che annullo tutto.
Alla via così.

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Aprirò un cantiere-filosofico

Io e F, da aprile circa, apriremo il cantiere-filosofico sull’isola. Verso le 9 la mattina. Fino a una certa ora. Poi pausa sotto la pergola, acqua (vino) cibo e chiacchiere filosofiche. Rigenerazione fisica e mentale. A tutti gli effetti un campo di lavoro per la mente e per le braccia, cioè qualcosa per imparare dalla fatica e dal dialogo.

Poi, ognuno per le sue vie. Mezza giornata almeno, ogni giorno, bisogna stare da soli (cantiere filosofico già iniziato, con questa affermazione…).

Per quanto tempo starà aperto il cantiere-filosofico?
E chi lo sa. Vedremo. Credo tre mesi circa, aprile-giugno. Ma forse meno, chiuderemo prima, oppure più avanti. Quando si inizia a costruire, non si può mai dire quanto dureranno i lavori. Anche perché non lavoreremo tutti i giorni. Cercheremo di dare continuità, ma senza imperativi categorici.
Regole: non daremo alcun alloggio (oh signore, aiutaci…!), semmai cucineremo insieme e faremo spesa insieme. Offriremo la nostra esperienza, la nostra disponibilità, le nostre parole. Apriremo a alcuni il teatro de “L’Altra Via”. Una testimonianza, dunque. Una circostanza di vita.
Chi vorrà fare un viaggio su un’isola, lo deciderà lui e lo farà lui. Sarà una sua decisione, com’è giusto che sia. Qui non vengono villeggianti, nessun turista. E nessuno verrà per noi, ma una volta tanto, per sé. Nessuno sarà ingaggiato, saremo noi ingaggiati.
Dunque: se qualcuno verrà sull’isola, deciderà: se invece che starsene tutto il tempo al mare, a girare, a leggere, a mangiare in trattoria, a fare l’amore, a nuotare, a pescare… vorrà lavorare di pala, cazzuola, fracasso, cervello, cuore e anima (un giorno soltanto, o due, o tutti e sette i giorni della sua settimana), basterà mandare un messaggio a me, e attendere. Se per il giorno seguente è previsto del lavoro, vorrà dire che il “cantiere filosofico” è aperto. E allora sarà il benvenuto.
Un’isola, il mare di fronte, il Mediterraneo dovunque. Nelle mani, qualcosa con cui riflettere.
(nella foto: Chirashi con funghi Shitake, gamberi, surimi, alga wakame. I funghi li produce Basilio Busà sull’Etna. Me li ha mandati perché ha intuito che mi piacciono. Deliziosi. E lui deve essere un tipo molto interessante…)
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Un anno straordinario

Sarà uno splendido anno. Io certe cose le sento. Sarà che ci sto su con tutti i sensi, in continuo, percepire è un’ambizione, una specie di vocazione.

Circolano un bel po’ di lacrime, quelle che affiorano appena, che spingono da sotto gli occhi. Dolenze latenti, anchilosamenti, aderenze che intralciano i movimenti, stanno lavorando ai fianchi già da un po’.
Ma il sole sorge ogni giorno, cupo o luminoso, come sempre. E sorgerà ogni giorno per tutto l’anno a venire, da domani, ancora e ancora. Le dolenze, le lacrime impellenti, troveranno un canale dove scorrere. Lo fanno sempre. Non le puoi fermare.
Qualcuno si è molto depresso in questi tempi. Forse non si aspettava variazioni così importanti. Forse si è convinto che qualcosa sia cambiato definitivamente. Non era come pensava, non sarà come teme.
Il mondo viaggia per un’unica ragione: l’energia. Quella che non sappiamo, quella dei cuori, quelle delle menti. Cose che devono accadere perché sono fatali, inevitabilmente avverranno. Accadranno anche cose che non sarebbero accadute, perché l’energia trattenuta, come nel Tantra, poi rompe i blocchi e si sfoga. Finalmente, qualcuno ha preso coscienza della fine. Era così triste vedere come la ignorava. E anche del tempo. Era così preoccupante osservare come lo sprecava.
Non c’è niente di produttivo come la cognizione della morte, per la vita.
Sarà dura per molti, questo è inevitabile. Non si potrà dimenticare in un lampo ciò che è stato detto, ciò che è stato pensato, né come ha reagito. Parlo degli estremi, sapete cosa intendo.
E chi non ha sbordato si ritroverà punto di riferimento, che lo sapesse o no, che lo volesse o no. Una grande responsabilità, un’élite inconsapevole fino a ieri, diventata oggi ufficiale, a cui sono appese molte delle sorti planetarie.
In ogni caso, per tutti, sarà un anno di recuperi, di scelte, di opportunità, di bivi. Cioè di luoghi e momenti di velocizzazione del processo, di compimento del percorso, di nuovo inizio. Una circostanza benedetta, credetemi. A fine vita intere schiere darebbero ogni cosa per un momento come questo, che in molte sorti tarda a manifestarsi. Oggi invece lo vivremo tutti. Esistenzialmente, un dono.
E sarà a portata di mano, per tutti!
Basterà spingersi un millimetro oltre le inerzie, oltre le paure, oltre i vincoli che ieri sembravano insolvibili, e che ora possono finalmente essere sciolti. Un millimetro appena separa molti, moltissimi, da nuovi destini: nuovi incontri, nuovi luoghi, nuove albe affrescate di occasioni.
Un passo appena, il gesto di allungare un braccio, di dire la parola mai detta: “eccomi…” oppure “vado, ciao…”.
Anche gli inconsapevoli, i meccanicistici, i sempliciotti, i divertentisti, cioè tutti quelli che negano, o che non hanno familiarità con i confini invisibili… si troveranno a doverli (o volerli) attraversare.
Unica dotazione necessaria, da non dimenticare fuori dallo zaino: un briciolo di voglia di lasciarsi andare. L’arma più affilata, quella del minimo coraggio, che risiede nel nostro cuore.
Siamo a un piede appena di distanza dal gradino. L’occasione di quest’anno è tutta lì, in quella distanza minima, nella fessura della porta, nella fettina sottilissima di visuale che offre il lungo vicolo buio, ormai già quasi tutto percorso.
Sarà un grande anno. Fidatevi di me.
Avverranno un mucchio di cose sorprendenti. Mi aspetto di fare incontri straordinari, di condividere il sentiero con sconosciuti che mai avrei incontrato, per luoghi fino a ieri inaccessibili. L’energia, la grande madre della madre della madre della vita, agirà. In me. In noi tutti. La sua forza è straordinaria. Anche se non lo capite, anche se sareste pronti a dire il contrario, abbiate fede: è così.
Non c’è niente di meglio del limite, della prossimità del confine, del vaso pieno fino all’orlo, dello svuotamento improvviso. L’ordine immutabile non consente mai niente, cristallizza, mentre la burrasca favorisce, perché quando spiana, improvvisamente, tutte le barche salpano, i porti blindati si aprono, e sulla banchina c’è fermento, voci, materiali, uomini, cime che strappavano ora allascano, si sciolgono, filano in acqua a barca in lento movimento.
Forza e coraggio dunque. C’è un mucchio di roba da fare. C’è una vita non già “ancora possibile” ma “finalmente possibile”, piena di sfide, vergine di azione. Tutta da vivere. Adesso.
Buon ultimo giorno di un anno difficile, eppure splendido nella sua tragica potenza. C’è un nuovo giorno di un anno fuori dall’ordinario che tardava a venire, e invece ora è lì, ci aspetta. Domani.
(nella foto, PettiMosso. L’ho chiamato così perché non stava fermo un attimo, a un metro da me, mentre lavoravo)

 

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Tutto si compie

A inizio giostra, a marzo e aprile 2020, scrissi che questa sarebbe stata una svolta. Feci addirittura un diagrammino per spiegare che il pensiero dominante si evolve grazie a una minoranza attiva che esplora nuove soluzioni. Scrissi che la minoranza-guida avrebbe colto l’occasione e cambiato vita proprio adesso (https://www.facebook.com/photo/?fbid=10220116741176047&set=a.1221728150603)
Quasi nessuno era d’accordo con me… Voi tutti, ammettetelo (e soprattutto ricordatevelo), mi davate del visionario: “Ma va, simone, sei un illuso! Tutto rimarrà come prima! Vedrai!”
Ora perfino La Repubblica constata il cambiamento.
Il fatto è che tralasciavate una questione: “come prima” non è possibile mai. L’acqua del fiume sembra sempre uguale, ma è altra acqua. Le cose cambiano, e non accorgersene è solo un problema di chi non sa guardare.
Dunque:
– puntuale come un orologio svizzero, dal tema pensioni fino a quello (assai più edificante) del senso del lavorare, dell’abitare e del vivere, ciò che nel 2008 scrivevo in “Adesso basta” si è realizzato definitivamente in questi anni: il mito del denaro, della ricchezza, del consumo, dei simboli, è al tramonto. Oggi, semmai, si lotta per un po’ di pace, per qualcosa che abbia senso, e per un’ora d’amore.
– Ciò he ho immaginato un mese dopo l’inizio della pandemia si sta puntualmente mostrando in tutta la sua evidenza in queste settimane.
E adesso?
Ora non resta che attendere che avvenga quel che descrivo e illustro ne “L’Altra Via“. Anche quel prossimo futuro è chiaro e visibile, basta solo volerlo vedere. E magari, nei prossimi cinque anni, spicciarsi a tenerne conto per interpretare futuro, scelte, urgenze.
Consapevoli che, stavolta, quando tutto si mostrerà nella sua manifesta evidenza, la faccenda sarà molto più seria

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Il mito 2.0

A un certo punto è nata, gloriosa, nuova, eccitante, la “voce popolare”. Il consiglio di chi aveva già usato quel prodotto, o la sapeva lunga per qualche ragione. L’opinione da bar, o che apprendevamo da un collega, da un amico, da qualcuno che consideravamo esperto. La stessa. Ma molto, molto più grande! Planetaria! Fin anche in tutte le lingue, ormai tradotte (bene? male?) da un algoritmo, dunque comprensibili a tutti. Universali quindi! La voce popolare del mondo sotto forma di commento, valutazione, con tanto di stelle, tre, cinque, a significare il “verbo di Dio”, perché il popolo è sovrano, o almeno, lo è diventato online, perché off line non lo era mica più tanto… Ma è tornata a contare l’opinione della gente. La gente, come riempie bene la bocca questa parola n’è? Ecco finalmente estinta la truffa delle aziende! Mai più potranno fregare il cliente. Ecco svelate tutte le magagne dei prodotti, tutti i problemi dei servizi, e tutto quel che c’è da sapere, perché è “la gente che fa la storia (la storia siamo noi) e nessuno la può fermare.

Solo che piano piano si è capito meglio qualcosa. E cioè che la gente non è il verbo, anzi… Non mi sono mai fidato del parere degli altri, per un semplice ragionamento logico: sapevo chi fossero? Conoscevo cosa volessero? So come la vedono su un argomento, su un altro? Con quali strumenti critici, quale esperienza? Non dovrei prima sapere questo, per poi tenere in considerazione la loro opinione?
Non ho mai guardato i giudizi degli utilizzatori finali. Anzi, ho sempre fatto un lavoro opposto: leggere i commenti ai prodotti che usavo già, quelli che conoscevo bene, per studiare la gente. In pratica ho fatto come i salmoni, che vanno controcorrente: non le opinioni delle persone per scegliere i prodotti, ma le opinioni sui prodotti per capire le persone.

E ho scoperto ciò che sapevo già: che quei giudizi non sono i miei, viaggiano per stereotipi che non ho (o che ho anch’io), con un occhio al valore del denaro che non è quasi mai il mio; con un’idea sull’uso che non pratico; con speranze e sospetti che non provo. In ogni caso quel coro è fatto da voci diverse dalla mia: c’è quello che considera uno sbuffo di vapore della macchinetta del caffè “un’esplosione”, e lo scrive dicendo “non compratela; c’è chi mette una stella perché il pacco gli è arrivato aperto (ma che c’entra col prodotto?); c’è chi considera “uso professionale” quel che io considero hobby, e viceversa; c’è chi parla di cose che non ha mai visto, sentito, praticato; c’è chi definisce “pulita” una stanza che io giudicherei un porcile, perché a casa siamo abituati a due forme d’igiene diversa; che chi dice che oggi c’è in atto una dittatura (lo dico solo per esempio, non vi arrabbiate); c’è chi la sa lunghissima, ma sta accanto a chi non ne sa nulla, perché sul web “uno vale uno”, solo che la loro è una “media a due”.

Ma c’è dell’altro. Si è saputo che ci sono scrittori che comprano like, stelle, commenti, e finiscono primi in classifica. Poi ristoratori che organizzano decine di recensioni negative per il concorrente che hanno accanto. Poi negozianti che fanno sconti se fai la recensione. Poi alberghi che ti ridanno la caparra solo se gli “dai” cinque stelle. E poi recensioni di posti mai visti, da non viaggiatori, di alberghi mai frequentati, libri mai letti, prodotti mai acquistati, solo per denaro, sempre per interesse. “In quel ristorante si mangia male” detto da uno che non sa fare due uova al tegamino.
Insomma, diciamocelo francamente: la “vox populi” è un disastro. Pessima e basta, quando va bene, fuorviante per dolo quando va male, dannosa e truffaldina in numero crescente. Perché coi like si fanno i soldi: li fanno le aziende, i clienti, e anche chi stava solo passando di là. Influencer prezzolati dai produttori, clienti non lucidi o che razzolano centesimi di euro. E tu, che stai solo cercando un phon, o una spillatrice, o una motosega, o un romanzo… costretto a passare ore a leggere banalità, o falsità fuori controllo, opinioni mitizzate dalla tecnocrazia, e finirai col prendere qualcosa di sbagliato seguendo il giudizio sbagliato di un sistema sbagliato.

In tutto ciò va messa anche la sottile coercizione dei “tutorial”. Pagati anche loro, ormai in larga misura; o frutto del narcisismo di incapaci, che non mostrano tutto il video, solo quello che funziona; oppure di improvvisati, quelli dei sentito dire, più bisognosi di te che hai bisogno di loro. Il web esprime expertise generalizzate, ormai, e non in quanto expertise, ma in quanto web. Se mostri “come si fa” su qualche sito o social… sei un maestro. Tanti proveranno, e attribuiranno a loro stessi il fallimento, a te i meriti. Una deregulation dell’autostima che non genera techné, cioè che lascia ignoranti, un po’ come quando raggiungi una località seguendo il gps: sei arrivato, è vero, ma non sapresti mai rifare quella strada. Perché non l’hai scovata, l’hai solo eseguita. Non l’hai cercata, te l’hanno mostrata. Non hai deciso, hai obbedito.

C’era una volta (come nelle favole) l’uomo che doveva costruire una propria opinione usando segnali deboli, cercando di immaginare, facendo scommesse senza rete, o dando credito solo a Mario, l’artigiano che ha la bottega in fondo al paese. Lui sì che si sapeva per certo quanto fosse bravo. Altrimenti si rischiava. Che brivido questa parola: rischiare. Si rischiava un’idea, una visione-delle-cose, perché ti eri convinto che fosse proprio così, lo “volevi”. Ci si struggeva per capire non “com’è lui” (il prodotto) ma chi sei tu che lo vuoi, cosa devi fare per usarlo, cosa ti serve per il tuo lavoro, sperando di trovare qualcosa in una giungla tua, quella dei dubbi e delle certezze, sbagliando da solo, perché per farlo non c’era bisogno di alcun aiuto, eravamo già bravi abbastanza. Tempi in cui bisognava “sapere in una stanza dov’è il nord”, e che uomo si stava girando su se stesso per indicarlo. E erano bei tempi, oh sì, perché chi sbagliava aveva comunque fatto un passo avanti. Aveva capito se non altro se stesso, cioè chi era “l’uomo della scelta”, magari sbagliata ma propria. Quell’uomo si era sforzato di “farsi un’idea originale” ad alto tasso di immaginazione, e quando ci azzeccava, provava orgoglio vero.
Non come la sensazione di essere tutti inevitabilmente dei coglioni… cioè quella che ci pervade, quasi sempre, oggi.

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Farsi le canne da soli

L’incannicciata costa tanto. Troppo. Allora penso; me la faccio da me. Chiedo sull’isola: “dove si comprano le canne?” . Risposta: “ma mica si comprano. Stanno in molti punti, lungo i rivi, andiamo tutti lì quando ci servono, e le prendiamo. Sono di tutti.”

E allora vado con la fida F. Un culo immane. Le canne sono enormi, sembrano bamboo. Dure, alte tra i 4 e i 6 metri. Quelle al Fienile sembrano stuzzicadenti in confronto. Ma non basta. Le canne dritte sostanzialmente non esistono. Sono una proiezione iperurania, o una promessa commerciale. Dunque allestire un’incannicciata diventa un’opera di meccanica quantistica: “la canna dritta non esiste ma in determinate condizioni può diventarlo”. Cinema…

Morale: dita le cui falangi superiori non sento praticamente più. Epicondilite a nastro. Schiena. Tempo. E pensieri… Ma enorme orgoglio. Sotto questa Pergola, che copre la cucina esterna con ipnotica vista sul mare, avverranno cose. Mente a quelle cose, non al progetto, mentre si lavora, mi raccomando. Chi fa le cose precisine e non pensa “a quelle cose” è un maniaco. Prima o poi entra in un Eurospin con un kalashnikov. Le cose “servono a”, oppure sono fatica sprecata, e gesto nevrotico. (Per chi ha letto Stojan Decu: “occasioni per le emozioni“).

Ora bevo un sorso di vino. Stanco. Seduto. E guardo F che si incaponisce su un restauro. Quel portellone dice cose sul tempo. E lei le sta cercando. Le troverà? Io la guardo. Non so se riesco a capire. Però qualcosa sento. Dunque forse sì.

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αντίθεση (antitesi)

Ho scritto due brevi brani in questi giorni. Senza un progetto, lo giuro.
Ne è nato uno specchio che rimanda infiniti riflessi, antitetici e dunque in grado di rivelare molte cose. Avvicino qui i due brevi brani. Credo siano utili.


Stare

Bisogna stare fermi. Smetterla di ronzare. Smettere l’abitudine di scendere, salire, lamentarsi perché il pullman non arriva, perché l’aereo è in ritardo. Quell’aereo non porta da nessuna parte.
Andiamo, certo. Andare è bello, ci mancherebbe… Ma poi stiamo là. Se ci siamo andati un motivo c’è. Cerchiamolo.
Succhiamo, lecchiamo, digeriamo, facciamoci rivenire fame quando tutto ci ha saziati. Aspettiamo. Stiamo mesi, non ore, non poveri sterili inutili giorni. La temporaneità si acquisisce stando. Comprendendo. Perché quel primo giudizio non vale niente. Lo dà un uomo ancora altrove, ancora “non giunto”. Invece per capire bisogna cambiare quanto basta per assumere le categorie di sé in un luogo che non è più noi. Non è ancora noi.
L’irrequietezza mi è sempre stata amica. Ma è una pratica affilata, pericolosa per chi non sa maneggiarla. Con l’irrequietezza si fanno un mucchio di cose belle, ma non è roba da dilettanti, o da equilibristi. Per andarsene bisogna esercitarsi. Bisogna aver letto, capito, sentito. Si parla dopo i silenzi, non durante.

Bisogna smettere. Stare fermi. Solo da fermi si va.

Muoversi

Fermi non vuole dire immobili. Vuol dire profondi, dentro, in contatto. Ecco perché bisogna muoversi.
Muoversi non è sciamare, semmai vedere. Osservare come fosse lì qualcosa che ancora non c’è: ecco l’essenza del moto. La sua causa. Andare perché si è già visto, figurandosi ancora e ancora; fare perché abbiamo già messo insieme pezzi, con le mani della fantasia; dire qualcosa che abbiamo studiato e ristudiato come pronunciare, con le ali precise del silenzio e del cuore.
In movimento non è andare continuamente, da qui a lì. Non è alzarsi dopo poco che ci si è seduti, non è arrivare, ripartire, riandare. Muoversi non è fare mille cose inutili, semmai fare fino in fondo e costantemente e onestamente e quotidianamente qualcosa che abbia un valore.
Muoversi, dunque, è iniziare. Muoversi è esserci, prima di arrivare, scomparire prima di essere partiti. È avere pensiero lungo per la grande rotta, medio per ciò che ce la impedirà, breve per il primo salto.
Muoversi è sapere che la vita si suona a dieci dita, non solo con due indici tremanti, ingredienti tutti, non soltanto uno. Muoversi è percepire il tempo come una misura di valore, come l’acqua, come il cibo, come l’aria, qualcosa da salvaguardare. Muoversi è rispetto e considerazione per l’energia, da produrre, da rigenerare.
Muoversi è non cedere alla malattia del tempo, l’ignavia accidiosa della noia.
Muoversi è non avere per faro la comodità, ma la vita. Muoversi è adorare l’atto di pagare con la moneta della vita.
Muoversi è sentire che arriva il giorno in cui bisogna partire per andare là dove qualcosa risuona. Dove potremo ridurre raggio e circonferenza per stare e operare.
Muoversi è il nemico giurato del falso movimento, quello che disprezza il senso, che non ha la religione dell’economia delle energie, che arriva distrutto la sera non per aver fatto, ma per aver sprecato.Muoversi è colorare il disegno, prima crearlo, prima sentirlo.
Muoversi è farsi trovare intenti, applicati, concentrati. Muoversi è essere attratti, quindi è essenzialmente vedere, notare, cogliere. Muoversi è sempre dettaglio, dunque occhi, dunque cura. Dunque sentimento.
Muoversi è curiosità. Muoversi è ipotesi. Curiosità più ipotesi è cambiare.
Muoversi è fuggire l’alibi della comprensione non di ciò che viene detto, ma di ciò che vogliamo capire. Per questo muoversi non ha per opposto l’immobilità, ma l’onestà. E allora muoversi è partecipare, spendersi, senza mentire, senza raccontarsi che siamo quello che non siamo. Essere qualcosa è il movimento che facciamo veramente per diventarlo, prima ancora di esserlo.
Muoversi, per queste ragioni, è assumersi la responsabilità del vero, quello che sappiamo solo noi.
E viverlo.
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Non da morenti

Nel caso circolasse una sensazione di instabilità, e forse di grande vuoto interno ed esterno, non preoccupiamoci troppo.
È normale. Per dure ragioni.
La prima è che la vita è fatta in modo davvero approssimativo. L’avessi fatta io l’avrei fatta decisamente meglio. E tanti che conosco l’avrebbero organizzata anche meglio di me.
La seconda è che oggi si paga tutto ciò che non è stato fatto prima. Troppo tempo buttato via. Troppe occasioni mancate. Troppo trascinarsi senza rotta di qua e di là. Naturale sentirsi perduti quando servirebbe aggrapparsi a ciò che si doveva costruire.
Se ne deduce (per piana logica) che l’opportunità, oggi, è duplice:
– da un lato, come antidoto al vuoto, bisogna mettersi a costruire qualcosa che serva. Un modello, uno schema, ciò che è necessario per parare i colpi. E da fare, come sappiamo, ce n’è tantissimo.
– da un altro, costruendo oggi, lavorando con impegno a consolidare, modificare, cambiare, non ci troveremo più, già domani o dopodomani, con questa rinnovata e aggiornata sensazione di spaesamento.
Ma c’è dell’altro.
Comprendere questo è già passare dal vuoto al pieno.
Dunque, prima ancora dell’azione, il pensiero di essa è già una salvezza.
Va da sé che questo schema e questa progettualità, andranno poi abbandonati. Prevengo l’obiezione. Non si vive bene nel dualismo dialettico basato solo sulla volontà.
E tuttavia, prima di abbandonare, bisogna acquisire. Prima di cambiare bisogna scegliere. Mentre mi pare che la maggior parte delle persone sia ferma sulla soglia del luogo da cui dovrebbe evadere. E questo non va bene.Serve dunque conoscenza del proprio perimetro, prima di ogni altra cosa. Serve aver fatto passi (soprattutto uno: il primo), serve aver capito limiti e possibilità di cui possiamo disporre e che dobbiamo temere. Serve aver attivato un circuito d’energia e di concatenazione tra desideri, progettualità, possibilità… prima di avere la forza di accettare, di convivere, di rifiutare.
Non si convive con l’assurdo (né lo si abbandona) da morenti.
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Da Alessandro Milan su “L’Altra Via”

Intervista di Alessandro Milan, nella sua bella trasmissione “Uno, Nessuno, 100Milan” su Radio24, in margine all’uscita del mio ultimo libro “L’Altra Via” (Solferino)

Buon ascolto!

 

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