Anche TV7 (RAI1) sul Downshifting

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Adesso Basta al Tg1

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Prego!

«Misure inevitabili, si è speso troppo» 			 Fantastico. Il Berlusconi è davvero un genio. Lo stesso uomo che fece fare lo spot con il “Grazie!” (ve lo ricordate? C’era un uomo che incrociava passanti che lo ringraziavano per aver acquistato qualcosa, sostenendo così l’economia italiana. “Comprate! Con fiducia!”) ora ci dice che abbiamo speso troppo, abbiamo vissuto sopra le nostre possibilità e dobbiamo spendere meno. Meraviglioso.

Ahimé ha ragione, come allora aveva torto. Vado sostenendo da tempo che dobbiamo vivere in modo più sobrio, per essere liberi, per dedicarci con calma a quello che vogliamo essere, riducendo il tempo del lavoro a favore delle cose che per ognuno contano maggiormente. Liberi dal consumismo, liberi dai simboli, in grado di vivere immobili, se serve, in silenzio, di nulla. Almeno capaci di farlo, che sarebbe già molto. Ora invece scopriamo che spendere meno è diventata un’esigenza del Sistema Paese. Come cambiano le cose nella vita…

Cambiano anche i miti. Così come, da qualche tempo, è alla moda, è un progressista, chi fa la raccolta differenziata, mangia sano, fa sport, non inquina inutilmente, così da oggi sarà trendy chi spende poco, chi in questo modo dimostrerà di voler aiutare il Paese. O per amore o per senso dello Stato, dunque.

Il problema è che ancora una volta si parla solo di denaro, e non di cose da fare, cose da essere. Spendete tanto! Spendete poco! Manca, tra poco, che ci esortino a spendere medio, poi ci avranno invitato a far tutto. Nessuno, naturalmente, invita a fermarsi, rallentare, riprendere fiato, tempo, ragionare sul nostro equilibrio, su come rafforzarci, come raggiungere un po’ di armonia con noi stessi, col mondo, con gli altri. Nel far questo saremmo presissimi, concentrati, indaffarati. Non avremmo tempo di fare shopping compulsivo… Altro che “Grazie!”.

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Spezie

Polpettone di carni miste ai gamberi rossi. Ricetta su questo sito, alla pagina "Cibo"

Polpettone di carni miste ai gamberi rossi. Ricetta su questo sito, alla pagina "Cibo"

Per preparare un’ottima spezia agli agrumi occorre prendere la buccia di arance e limoni, togliere il bianco col coltello, far disidratare al forno a bassa temperatura e poi frullare fino a rendere il tutto una polvere grossolana. Per chi vuole di più, si può anche aggiungere poco pepe e poco sale. Comunque, anche nature, questa spezia è ideale per profumare un carpaccio di spada (2 etti per due persone).

In condizioni normali la faccenda potrebbe esaurirsi in una questione gastronomica, come (a prima vista) per la vongola di qualche giorno fa. Ma non è così. Cucinare bene, con pochi soldi (il carpaccio descritto può raggiungere il folle costo di 2 euro a persona) è un ottimo esempio di sobrietà creativa. Se dici a qualcuno che mangi pesce quello subito pensa “Ah, ci trattiamo bene, eh?! Alla faccia del downshifting!” Naturalmente quello che conta non sono i soldi…

Mangiare bene ha a che fare con la creatività, normali strategie d’acquisto, la voglia di festeggiare. Assai meno col denaro. Un chilo di acciughe, a Spezia (ma anche a Ragusa, e perfino nella ricca Pesaro) oscilla tra i 3 e i 4,5 euro. E dico: un chilo (sapete quant’è un chilo di acciughe?). Lo stesso per i totani (4-5 euro al chilo), per gli sgombri (ottimi al vapore, spinati, coperti con una robusta vinaigrette di cipolla di tropea) etc. In stagione, le seppie possono arrivare a 7 euro al chilo, e una volta, per festeggiare, si possono anche comprare (pulitele di ogni pellicola, lavatele, fatele a fettine sottilissime, un velo, e poi mescolatele a fettine identiche di lardo di colonnata, olio e pepe). Quelli che pensano male di voi che comprate il pesce, generalmente, acquistano insalata già lavata a 11 euro al chilo senza neppure saperlo.

Se hai soldi ma la fantasia latita, non mangi quasi mai bene. Come se hai il lavoro, guadagni, e non sai cosa farci con quei soldi. Come se hai tutto e non noti che non sei felice. Come se non sei felice e non ti chiedi il perché. Forse, semplicemente, perché mangi male. A casa e al ristorante, dove per altro spendi molto, dunque devi lavorare, guadagnare, etc etc. Quasi tutti quelli di cui non condivido le idee, del resto, mangiano male. Chi mangia male pensa male, e vive male. Era così no?!

Stasera, invece, un’enorme coppa di fave (le mie, 40 centimetri. L’orgoglio dell'”ortolano”) e un tozzo di pecorino, guardando Ballarò (il programma). Col sole, la Val di Vara sfavillava così tanto che non serviva neppure sforzarsi in ricette elaborate. Uscire da Milano alle 8.30 (ogni tanto ci casco ancora…) mi era costato un’ora nel traffico. Alle 14.00 invece, in mare, ero solo, il golfo deserto, e tutto si è ricomposto. La sera, qui, nel verde, ogni altra questione del mondo era lontana (inclusi gli echi di guerra della triste giornata finanziaria tra manovre da 25miliardi e crolli in borsa ascoltati in radio, guidando).

Mentre masticavo lentamente mi è venuto in mente che domani, con le altre fave rimaste, potrei fare un purè e surgelarlo. Nelle fredde serate invernali mi stupirà (me ne sarò certamente dimenticato) e sarà un modo per ricordare questa serata, libera, gustosa, di buoni pensieri.

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Il guscio

La vongola si è aperta. Finalmente.
Si era discusso sull’opportunità di mangiare la carne di un mollusco rimasto chiuso durante la cottura. Ma si tratta solo di un guscio vuoto. Così, apparentemente, non c’è più problema e mia madre continua ad arrotolare i suoi spaghetti.

Mia madre ha smesso di interessarsi alla vongola quando questa ha dimenticato se stessa. Tuttavia, la vongola chiusa era una vongola a tutti gli effetti, in quanto esisteva come possibilità. E’ stata mia madre a farla cessare di esistere e a farla passare per falsa. Quella vongola che non c’era esisteva tramite il guscio. Ma se la vongola era il suo guscio mia madre avrebbe dovuto mangiarla.

Ho pensato altre volte a quegli spaghetti. All’idea che mia madre aveva del mollusco e a quella diversa che il mollusco aveva di sé. Ciò che mia madre non ha considerato abbastanza è stato quello che invece la vongola era unicamente. Un guscio.

Per questo genere animale, oltre a una marcata predilezione gastronomica, ho sempre nutrito un certo ulteriore interesse. La sua collocazione sociale nel mondo ittico è quella della solitudine monadica, segno di solidità e autosufficienza interiore. Di contro, la vongola vive in gruppo, tenendosi ad una costante equidistanza dal simile di cui, si intuisce, ignora l’esistenza. E’ lo stupore, più che il disgusto dell’altro, a far strabuzzare gli occhi e la lingua delle vongole nel marasma del lavandino in cui le precipitiamo prima della cottura. Si suppone che si tocchino sul guscio l’una con l’altra, per la prima volta, riconoscendosi dure e impenetrabili e al contempo tenere e gioviali, ricche di una profondità insospettabile per degli esseri di superficie.

Tutte insieme, le vongole vivono nell’arenile immerso, al limitare tra gli abissi e le sabbie calde della prima terraferma. Con quella loro linguina giallognola e tenera, sembra che tastino millimetro per millimetro i granelli infiniti della spiaggia su cui hanno perduto le tracce di chissà cosa. E’ come se questi molluschi dal cuore tenero – convinti come sono di essere soli al mondo per via del pesante guscio che da esso li separa – cercassero pazientemente un simile a cui raccontare un segreto senza origine.

Sta di fatto che da sempre, allungandomi sulla sabbia tiepida della prima mattina estiva e guardando il mare, ho immaginato il brulichìo delle vongole sotto il pelo dell’acqua e il velo di sabbia che le nasconde alla vista. Mi sono parse loro la vera sintesi di questo confine mobile tra gli abissi della terra, del cielo e del mare.
Un guscio che rende invisibile il mondo e un cuore che si strugge in cerca di compagnia.

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Cose grandi…

 

La vita è bastantemente lunga, per gli uomini grandi, per fare grandi cose. Ancora lui, Seneca. Ancora una delle sue massime controintuitive. Ma come, si dice sempre che la vita è breve! Col cavolo. La vita è lunga. E’ breve se butti via. Seneca aggiungeva, infatti: Tutto il resto non è vita, ma tempo. Il tempo si butta via, la vita si vive.

Sono in mare da tre giorni, e ancora fino a domenica. Stamani grigio, poi sole. Poi mentre navigavo un groppo improvviso: da 15 a 40 nodi in un attimo. Ho pensato di ridurre la vela, una mano, poi due mani, poi di ammainare, il tutto in meno di dieci secondi, tanto è stato improvviso il colpo. Fantastico. Il mare ribolliva, era bianco di schiuma. Avevo guardato a prua pochi istanti prima, niente. Dopo un attimo, bam! Pioggia battente, vento teso, onda corta. Un inferno.

Dal pomeriggio, invece, Caraibi. Sole caldo, bruciava sulla pelle. Cielo azzurro intenso. Tutta la baia di Spezia, il golfo più profondo e bello d’Italia, sfolgorava. Ora in barca, quasi sera. Silenzio, qualche drizza che canta, qualche cima che stride. Ho comprato due cose buone per cena. Ravioli di borraggine e un pesce. Scriverò, sentirò musica, leggerò. Eccolo Adesso Basta, eccolo qui. Tutto è stato sognato, ordito, progettato per questo. Per questi momenti di gioia intensa, incontenibile. Per giornate come oggi, per il confronto duro col mare. Uno contro l’altro, uno come l’altro.

Questo non è tempo, ma vita. E’ la mia vita, le mie cose, che sanno sempre di sale e di sole, che sanno di solitudine, di pensieri, di parole. Ecco il tempo che non vola, ma vive. Ecco come faccio io a sentirmi un grande uomo. Non un grande uomo in assoluto, quanti sono più grandi di me… e poi cosa vuole dire grandi?! Ma grande all’interno della mia storia, dove sarebbe da piccolo uomo sprecare vita, farla essere solo tempo. Dove sarebbe penoso non tentare la via dell’autenticità. Dove in una sera così potrei avere rimpianti. Che non ho.

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Di nuovo…

“Io li ho visti…
Quel 15 settembre ero là, a Times Square, Manhattan, NYC. Passeggiavo, ho visto il clamore delle telecamere, la gente… Ero lì di fronte, per caso, alle 13.10 del giorno fatale…
Mi sono avvicinato all’entrata del grattacielo grigio azzurro della Lehman Brothers.
C’era una gran folla, come la piazza assiepata che assiste morbosa alla decapitazione del condannato… e li ho visti…
Li ho visti scendere dalle scale mobili, uscire sulla strada… in lacrime… portavano in braccio la triste dote di anni di lavoro: uno scatolone pieno di cianfrusaglie…
I giovani ridevano nervosi, passo veloce, quasi tutti a coppie, o in piccoli gruppi… andavano verso un futuro che non c’era con l’arrogante baldanza della loro età… Quelli più anziani avevano lo sguardo perduto, gli occhi rossi dalla disperazione, la testa bassa dalla vergogna…
Quel giorno, devo confessarlo, non ho provato compassione
.” (dal reading di “Adesso Basta”, Milano 19 gennaio 2010, Libreria Fnac, insieme a Daniele Biacchessi).

E sapete perché non l’ho provata? Perché non vale stare dentro finché tutto va bene e poi pietire compassione quando il sistema crolla. E’ un po’ come per i risparmiatori colpiti da crack Cirio, o dal default argentino. Loro volevano speculare, rischiavano, attratti dal desiderio di guadagni molto forti, e allora quando poi va tutto a rotoli non ci si può lamentare. Erano avidi, un guadagno normale non gli bastava.

Lehman Brothers era uno dei simboli. Too Big To Fail, come si diceva dei Big Four, i quattro templi del capitalismo finanziario. E invece è andata come è andata. Pare che, tra l’altro, tutto sia accaduto per il ritardo di un’informazione, il solito pressapochista che doveva avvisare la vigilanza inglese e se ne dimenticò.

Pochi giorni fa sul Financial Times una notiziola. Me l’hanno raccontata (mi guardo bene dal leggere ancora il FT). Pare che vi si riferisse che gli americani hanno ripreso a consumare facendo uso del debito. In pratica spendono soldi che non hanno grazie alle carte di credito. Il giornale era incerto se questa fosse da considerare una buona notizia oppure no. Ottimo. Di nuovo. Riprendiamo l’assurda corsa all’acquisto di oggetti che non daranno felicità, semmai ne ruberanno. Ricomincia la produzione di schiavi, il metodico lavoro per evitare la libertà, incuneati nel consumismo più vieto, incapaci di prendere coscienza di quello che siamo, di cosa ci serve, di come ottenerlo. Fino al burrone della prossima bolla, della prossima crisi, mentre ancora questa morde i polpacci…

Uomini senza vento, gente immobile, questo siamo veramente?! E’ inevitabile? No che non lo è. Molti mi dicono: “hai avuto coraggio!“. Non sono d’accordo. Il coraggio, striato di follia, ce l’ha chi continua ogni giorno a correre verso il burrone. Sempre più velocemente, sempre più velocemente. Intanto la vita va via. Oggi. Adesso. Basta…

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(Mala)Fede

La resistenza al cambiamento è sorprendente. Tu pensi che sia forte, che opporrà resistenza dura, ma non puoi immaginare quanto. E rendertene conto è uno choc.

Non si tratta solo di dire “non ce la farò mai”, che è la paura più diffusa (la sensazione di essere inadatti, di non potere, di non sapere come fare, di non poter contare sulle proprie forze). Se si trattasse di questo le cose sarebbero più semplici. Basterebbe cimentarsi, provare, osservare come nella nostra vita (anche solo statisticamente) una serie di azioni intraprese, di sfide raccolte, siano andate a buon fine. Dall’esame della quinta elementare, a quello di terza media, alla maturità, per alcuni anche dopo, università, master, e poi colloqui di lavoro, patente di guida, patente nautica, riunioni di lavoro complesse, e perfino la sfida (per nulla semplice) di attrarre qualcuno, di farsi dire di sì da un uomo o da una donna, di convincere qualcuno di un’opinione, di una proposta, di un progetto qualunque. Statisticamente, milioni di persone sono riuscite in gran parte di queste attività, a dimostrazione che se ci si mettevano, se si impegnavano, le cose nella loro vita più o meno accadevano. Accadevano con una percentuale di errore o di successo nella media, intendo. Cosa non da poco, se ci pensiamo, perché la nostra paura poggia proprio sulla convinzione opposta, e cioè che se la media può aspirare a riuscire in quella data azione, noi, invece, tapini, non ce la faremo. Ragionare su questa evidenza, fare una propria “check list del possibile” aiuta molto a relativizzare e razionalizzare le nostre paure.

Ma purtroppo la resistenza al cambiamento ha la straordinaria facoltà di riuscire a mistificare, mescolare le carte, diventare altro ogni volta. Tra tutte, la paura di “non potere” potrà essere forse la fondamentale, ma il suo vestito cambia spesso, a seconda della nostra intelligenza, del timore di venire scoperta e battuta, delle condizioni esterne nelle quali ci troviamo. Ad esempio, ci si manifesta come sospetto. Per evitare di doverci cimentare, tendiamo spesso a sospettare che chi ce l’ha fatta abbia barato. Se lui bara, vuol dire che siamo in salvo, perché quella certa azione si rivelerebbe effettivamente impossibile per tutti e fattibile solo barando (cosa che noi non possiamo fare oggettivamente). Un esempio: se qualcuno vince un concorso, sospettiamo subito che sia stato raccomandato. In questo modo, sprovvisti noi di una raccomandazione (fattore estraneo alle nostre capacità), non tentiamo neppure, “tanto sarebbe inutile”. Non ci sfiora neppure per un attimo l’idea di tentare comunque, di credere che bastino le capacità. Non tentare essendo al riparo da critiche ci soddisfa e ci avanza. La nostra paura ha vinto. Badate al processo, non al fatto in sé (a volte le raccomandazioni sono effettivamente l’unica via).

Un’altra manifestazione della resistenza al cambiamento è che “costi troppo” (troppo tempo, troppi soldi, troppo impegno, troppa pazienza…) e che dunque chi l’ha fatto sia più ricco, più dotato, più…qualcosa di noi. In quel caso tentare sarebbe una follia, cioè cosa da persone non raziocinanti. Ancora una volta siamo al sicuro.
La più diffusa manifestazione, la più raffinata, è quella culturale, politica, intellettuale. Se un certo principio di cambiamento fosse ingiusto e si basasse su presupposti politici e culturali da noi ritenuti non validi, potremmo sottrarci al cambiamento facilmente, e per di più con tutti gli onori. Pensare a un mondo diverso, a un sistema migliore, ne è un classico esempio. Se noi crediamo nella rivoluzione, ad esempio, non abbiamo che da attendere che avvenga. L’ipotesi di cominciare noi, da soli, a rivoluzionare il nostro mondo cambiando vita, consumi, abitudini, verificando quanto sia possibile, facendo testimonianza diretta, etc… lo bolliamo come “scelta individuale”, come “fuga nel privato” o addirittura come egoismo. Declassiamo il valore intellettuale e politico di quella scelta per rendere meritevole la nostra attesa di Godot. Meglio aspettare la rivoluzione, cioè aspettare ab aeterno. Così nel frattempo siamo al riparo dalla fatica di darci da fare.

Chi fa le spese di tutto ciò è l’avventura della vita, che è attività da noi non scelta (fatale…), per di più insensata (moriremo), e che dunque ci impone almeno (durante) la ricerca del piacere, del benessere, della gioia, dell’equilibrio, dell’armonia. Anche in questo caso la “responsabilità” di questa occasione mancata non è la nostra. Vi ricordate Alberto Sordi? “A me m’ha rovinato la malattia!”. Come dire: “Se non avessi avuto quel tale impedimento… chissà cosa avrei fatto!”. Ma la malattia (grazie al cielo [o purtroppo?]) la stragrande maggioranza della gente non ce l’ha. Anzi, è sanissima… (almeno in apparenza…).

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