Càpita

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Malaga. Qualche giorno fa. Ma qui è lo stesso.

Tornando indietro molte cose non le rifarei. Non in quel modo, non con quella casualità. “Ti aspettavo” è la frase migliore da dire, se è vera, in un incontro. Solo che per aspettare qualcosa occorre sapere che esiste, crederci senza prova, avere fiducia che avverrà. Che poi accada, è faccenda del tutto diversa. Che poi non accada, non conta. Non si vive sulle certezze, perché il punto non è l’avvenimento, ma chi sei stato fin lì, cosa credevi quando credevi. Il fatto è che nel rumore non ci riesci.

Scrivo ormai da più di tre settimane, ogni giorno. Non vedo nessuno, non parlo con nessuno, solo pensiero libero, sentimento del mondo che occupa ogni spazio, poi poca musica, del cibo, il fuoco, gli alberi. Il temperino del tempo e della solitudine hanno reso acuminata la sensibilità. Sono così costernato quando mi accorgo che onda immensa di pensieri, sensazioni, sentimenti si impadronisce di un essere solitario, silenzioso, presente. Costernato dalla consapevolezza di cosa accade là fuori. Ogni distrazione, ogni incombenza, ogni scadenza, perfino le relazioni quotidiane imposte dai luoghi e dal dovere, anestetizzano, riempiono di schiuma. Fanno sentire pieni e gonfi anche se abbiamo dato solo un piccolo morso all’esistenza. La stanchezza della sera non è prova di alcuna vera azione, semmai del falso movimento. Quante inutili faccende affollano lo spazio dell’essenza. Non c’è spazio per nulla. 

Oggi ho salutato il tempo. Passava qui davanti, ci siamo fatti un cenno. Mi ha guardato nervoso, corrucciato. Mi è spiaciuto non farlo entrare, ma era attorniato di secondi, minuti, ore inutili, e non volevo confusione in casa. E’ stato un po’ lì, nel vialetto, fumava una sigaretta dietro l’altra. Il vociare mi ha attratto, ho avuto la tentazione di uscire, fare due chiacchiere, invitare tutti a prendere un caffè. Poi grazie al cielo se n’è andato, con tutto il suo codazzo di normalità. E’ stato utile vedere quella processione d’impiegati e operai del nulla che si allontanava, bello ritrovare la quiete e l’immobilità. Mi ero distratto, ieri l’altro. Càpita. Bisogna che ci stia più attento.

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Un giorno

Il mio tavolo da lavoro

Il mio tavolo da lavoro

Sveglia prima che il sole canti, il bosco quasi invisibile ancora, gli scoiattoli che saltano di ramo in ramo, il silenzio, soprattutto, il vociante silenzio che inizia il suo monologo intenso, caffè, due passi tra gli alberi, la prima sigaretta, le cinquanta pagine del mattino, per sognare sulle solitudini di un altro uomo, e poi il mondo dell’immaginazione che si apre nella gola profonda del grande viaggio, la creazione dei personaggi che si rianima, si svegliano anche loro, ricominciano l’opera di cui sono l’estensore passivo, a tratti soltanto il testimone, succube prima che attore, disperso nelle membra di ognuno di loro, a mescolare realtà e ipotesi, la carne e i nervi della mia vita, le mie private beghe con i grandi fatti della storia, una mota a volte putrescente, una salsa a tratti profumata, per poi perdere contatto, gradualmente, alle luci alte del giorno, il frastuono dell’orchestra della vita che si leva, rende impossibile ogni comprensione, necessita l’azione manuale, per scaricare la fantasia dal carro della sensibilità, una giornata della mia vita, qualcosa di così grande da non saperlo comprendere, tanto meno vivere, dunque il resto del giorno è lavoro, legna, cibo, decori, arte, pezzi da mettere insieme secondo un altro principio creativo, ma sempre col pensiero che vaga, si insinua nella vita della gente amata, progetta ipotesi inconcepibili, si eccita di immagini irriferibili, un viaggio assurdo, parallelo, in cui càpita ogni cosa desiderata, e càpita adesso, funestato dai mostri di ciò che non deve accadere, che pure vanno accolti, fatti entrare, perché non passino la vita alla porta, sempre da solo, ma insieme come non sono stato mai, ipersensibile, “uno così sta male”, certo, perché l’oblio del vuoto insensato invece è da “uno che sta bene”! e quindi anche le risate, la bocca che lascia intravedere i denti, per poi sfinire nel pomeriggio, ancora i libri, il fuoco (che compagno amato!), il cibo, stavolta con qualche maestria, le notizie, altre storie inventate in un film, le parole dette al telefono, così preziose, vitali! fino a che l’ultima pagina è stata letta, l’ultimo messaggio è stato mandato, l’ultimo film è stato visto, e la domanda, quella che il rumore per tutti ha evitato ancora una volta, quella che solo a brevi tratti qui è scomparsa, nel buio, prima di dormire, inevitabilmente, riappare.

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Otto

Otto anni fa, nel primo pomeriggio del 13 gennaio 2008, uscivo dall’ufficio in via Moscova. Per l’ultima volta. Mi sono tolto la cravatta (che non ho mai più indossato) mi sono messo a passeggiare lentamente per Milano, e ho pensato che ogni possibile ritorno, da quel momento, era impensabile. Ero perfettamente consapevole di quello che stavo facendo. Non avevo mai praticato una vita diversa, ma sulle faccende riguardanti la libertà, per oltre tredici anni di pensieri, calcoli, progetti, speranze, letture, scritti, avevo diritto a una mia opinione. E a tentare di metterla in pratica.

E’ accaduto di tutto in questi otto anni. Io non sono morto di fame, e a parte cinquemila euro che ho dovuto sottrarre ai miei magri risparmi (che non posso toccare, non avrò la pensione, come credo si sappia), mi sono sempre mantenuto facendo ogni cosa possibile, dal cuoco agli aperitivi, dalla guida turistica al lavabarche, ma soprattutto scrivendo, navigando, e con le mie sculture. La mia fonte di reddito maggiore è stata tuttavia l’autofinanziamento: economie, bassi consumi, autoproduzione, comportamenti diversi, in tempi e luoghi altri.

Non un giorno ho pensato di tornare indietro. Non un momento. A volte stento a credere di essere vissuto diversamente da così. Per crederci devo guardare delle fotografie, o cercare su Google. L’uomo-che-tenta-di-essere-libero è la mia condizione naturale. Scrivere e navigare, la mia linea di minore resistenza.

Sono salito sul tetto, poco fa, a fare lo spazzacamino. Mi sono guardato intorno, in questo mercoledì 13 gennaio 2016, anniversario di otto anni fa. Tutto era bellissimo. il sole era pulito, la val di Vara immobile. E io mi sono sentito orgoglioso di ogni cosa tentata, da questo fienile ristrutturato alle mie questioni più personali. Morissi domani, cosa sempre possibile, la mia vita avrebbe avuto senso anche solo per questi otto anni. Stasera brindo alla libertà, a chi la tenta, sempre, con coraggio e consapevolezza. A chi si guarda indietro e nell’orizzonte degli ultimi otto anni vede se stesso. Cazzate a parte, o forse incluse le cazzate, quell’uomo sono io. Tanto o poco che sia. Con tutto l’impegno e l’energia e la creatività che posso.

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Poi, dopo…, è arrivato lui.

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Boschi, sentieri e porte

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Cartagena, pochi giorni fa.

Secondo Oliver Burkeman del Guardian, stando al numero di ricerche effettuate su Google, la poesia “La strada che non presi” di Robert Frost (quella sul sentiero che si biforca nel bosco) è la più famosa della storia moderna. Con qualche salto acrobatico, Burkeman arriva a parlare della famosa “crisi di mezza età”, definendola come un momento di svolta obbligato dovuto al fatto che la nostra condizione di uomini e donne è immutata da sempre mentre la vecchia vita sembra non avere più senso. Ne occorre una nuova.

Frost, nella nota poesia, pare ad alcuni volutamente imperscrutabile. I due sentieri si somigliano, nessuno dei due è vergine; nessuno potrà dire, se non troppo tardi, quale fosse la scelta migliore; tutto sommato, le cose nella vita si equivalgono, dunque è inutile sbattersi eccessivamente; le decisioni cruciali possono anche palesarsi irrilevanti (o cambiare tutto). La cosa migliore del pezzo di Burkeman è la chiusa: “Comunque, non è per fare il guastafeste, ma nessuno esce mai vivo da quel bosco”.

Pensavo a questo poco fa, trasportando legna dal bosco verso il Fienile. Accidenti alla Liguria che non ha un metro di pianura, solo salite (e le salite, solo in Liguria, non diventano mai discese). Sono qui per una scelta che ha cambiato ogni cosa nella mia vita, o quasi. Dunque i miei mostri quotidiani cosa sono: l’occulta vita che non avrei mai fronteggiato? E sarebbe stato meglio o peggio non scegliere? Oppure segnano il confine che avrei dovuto attraversare comunque? Sfide diverse, per una diversa vita, o vita diversa per identiche sfide? In sostanza: cambiare ogni cosa della mia esistenza che valore ha avuto? 

Conosco un uomo assai ottuso, una specie di mulo che sbatte testardamente contro una porta serrata sostenendo che sbaglia lei ad essere chiusa. Il suo problema è tutt’altro, ma lui non lo saprà mai, non ci arriva. Dunque cambiare sentiero, con buona pace di Frost, serve a smettere di sbattere la testa sulla porta sbagliata? E sbattere la testa su una porta giusta, fa meno male? Direi di no, almeno fino a che non la buttiamo giù. Solo che fino a che non cede somiglia in tutto e per tutto all’altra.

Nel bosco mi sono fermato, ansimante. Non c’erano sentieri che si biforcano. Semmai, parecchie porte. E la testa mi faceva un po’ male.

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La dignità salva la vita (e rende liberi)

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Arrojado, toro libero

Questo toro si chiama Arrojado, è morto sei mesi fa, ed era diventato un toro libero (sopravvivendo a morte certa) nel 2011, a Siviglia. Lo eleggo il mio personaggio di riferimento della settimana.

Durante la corrida in cui, nei venticinque minuti canonici, doveva essere ucciso dal torero con un colpo di spada tra le scapole, Arrojado si è comportato con tanto coraggio, tanta determinazione e soprattutto tanta nobiltà da far invocare per lui l’indulto, cioè la rarissima decisione da parte del Presidente della Plaza de Toro di fargli salva la vita. Pubblico e torero hanno sostenuto questa eccezionale volontà, e così è andata. L’ultimo e unico precedente si era verificato nel 1914.

Arrojado è stato dunque salvato, è vissuto curato,  accudito e libero nelle pianure andaluse, per morire appena sei mesi fa di morte naturale.

Mi colpisce che la nostra nobiltà e dignità possa garantirci salvamento e libertà. Mi colpisce e lo condivido. Molte cose ci capitano, e fa grande differenza il modo in cui ci comportiamo. Io che ho commesso errori recenti e non mi sono per nulla piaciuto in un paio di occasioni negli anni scorsi, lo dico per tutti ma anche per me.

Non piegare la testa, non accettare compromessi, non farsi dire cazzate senza manifestare il proprio disappunto, non stare zitti quando si deve parlare, non mancare di testimoniare, avere dunque dignità e coraggio, salvano la vita. E ci rendono liberi. Perfino se siamo in un’arena, senza via di scampo, morituri designati, di fronte al fatale momento della verità. Se ha avuto una speranza lui, direi che ne abbiamo sempre una anche noi. Grazie a questo toro andaluso di avercelo mostrato.

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