Tanto, ma lì.

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Ieri l’altro. Alimia. Egeo sudorientale. Io in posti così divento una ventina di uomini che sentono ognuno come cento…

Devo dire qualcosa sul rumore, sul volume a cui parliamo tutti. Devo dire un mucchio di cose sulla questione del razzismo e della violenza di questi giorni. Devo dire molte cose sull’affollamento estivo del mare. Devo dire molte cose sul concetto di “vacanza”, cioè tecnicamente un’“assenza” (semmai dovrebbe essere una forma di “presenza“!). Devo dire molte cose sul vento apparente, risultato vettoriale tra vento reale e vento di velocità, e sul fatto che il marinaio naviga con l’apparente, dunque non è uomo che si occupi della realtà, ma della sua proiezione diversa per intensità e direzione (avete idea, per metafora, quante ne ho da dire su questo applicato alla vita!?). Devo dire molte cose ancora sui roditori che per fare le proprie cose sfruttano le relazioni degli altri senza vergogna o rispetto di sé. Devo dire un mucchio di cose sui pirati. Devo parlare del caldo, della sua taumaturgica facoltà mitopoietica. Devo dire una cosa che non posso dire, un progetto artistico che andrò a realizzare a breve, che trovo eccitante. Devo dire una gran quantità di cose su Mediterranea, su alcune cose dette a bordo che mi hanno fatto capire che non basta una barca e un po’ di marinai per vivere la magia in mare, serve anche un concetto, un’idea, un sistema di valori che diano senso al tempo: una spedizione con idee originali, non rubacchiate, proprie, non altrui, e una rotta, non dei giretti. Devo dire alcune cose sulla selettività delle relazioni, e sulle illusioni. Devo dire qualcosa sul cambiamento, sui momenti in cui diventa inevitabile, quando ci si accorge che è troppo tempo che ci giriamo intorno, forza! Devo dire due o tre cosette sul cibo. Devo raccontare di pirati, carte segrete, storie andate e ancora vive. Ho cose da dire sulle isole. E molto da riferire sul tempo. Inevitabile che io abbia anche cose da dire sull’amore.

Ma sto scrivendo. Questo groviglio di pensieri, emozioni, sentimenti, lo infilo lì.

Poi, riprendo.

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Entra…

 

Frammento

Una mappa. Per arrivare lì…

Dragut è lì, di fronte al portale del castello, entra Dragut, entra, prima volta che trema, chi può far tremare il rais? una donna, no non è quella donna che lo fa tremare, e allora cosa? il portale, il niente di legno di un ingresso che una mazza farebbe esplodere di schegge, una soglia, un altro passaggio, la linea che demarca i mondi, anche se Dragut i mondi non li conosce, sa solo il suo, ma oltre c’è qualcosa, è come scomparire, contumace, assente, mai stato, fuori dalla bolgia orrenda dell’odio della memoria e della morte, finalmente un altrove senza l’urlo della follia del mondo e la cassa di risonanza del cuore, l’anta del portale che scricchiola, l’uscio che cede, un passo verso l’ignoto, e l’esperienza del giorno è che ci vuole più coraggio a varcare una soglia che ad uccidere, a incontrare il proprio destino che ad avere un nemico, a fronteggiare una donna che un esercito, donna che non puoi rapire, donna che non puoi offendere, donna che non puoi stuprare, incatenare, dare in pasto ai cani, perché morderebbero te, metteresti te stesso ai ferri, donna che devi, non donna che deve, l’ultimo scorcio sacro dell’adolescenza perduta, l’altro raggio di luce, che offusca il faro ormai perduto della madre, a questo pensa Dragut, solo che non sa pensarci, non sa capire, almeno fino a che sale la scala condotto da un’ancella impaurita, percorre in solitudine l’ultimo budello tra le mura, fa ingresso nella grande stanza, e finalmente la vede.

(mentre monto il mio nuovo romanzo…)

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Un giorno

Il mio tavolo da lavoro

Il mio tavolo da lavoro

Sveglia prima che il sole canti, il bosco quasi invisibile ancora, gli scoiattoli che saltano di ramo in ramo, il silenzio, soprattutto, il vociante silenzio che inizia il suo monologo intenso, caffè, due passi tra gli alberi, la prima sigaretta, le cinquanta pagine del mattino, per sognare sulle solitudini di un altro uomo, e poi il mondo dell’immaginazione che si apre nella gola profonda del grande viaggio, la creazione dei personaggi che si rianima, si svegliano anche loro, ricominciano l’opera di cui sono l’estensore passivo, a tratti soltanto il testimone, succube prima che attore, disperso nelle membra di ognuno di loro, a mescolare realtà e ipotesi, la carne e i nervi della mia vita, le mie private beghe con i grandi fatti della storia, una mota a volte putrescente, una salsa a tratti profumata, per poi perdere contatto, gradualmente, alle luci alte del giorno, il frastuono dell’orchestra della vita che si leva, rende impossibile ogni comprensione, necessita l’azione manuale, per scaricare la fantasia dal carro della sensibilità, una giornata della mia vita, qualcosa di così grande da non saperlo comprendere, tanto meno vivere, dunque il resto del giorno è lavoro, legna, cibo, decori, arte, pezzi da mettere insieme secondo un altro principio creativo, ma sempre col pensiero che vaga, si insinua nella vita della gente amata, progetta ipotesi inconcepibili, si eccita di immagini irriferibili, un viaggio assurdo, parallelo, in cui càpita ogni cosa desiderata, e càpita adesso, funestato dai mostri di ciò che non deve accadere, che pure vanno accolti, fatti entrare, perché non passino la vita alla porta, sempre da solo, ma insieme come non sono stato mai, ipersensibile, “uno così sta male”, certo, perché l’oblio del vuoto insensato invece è da “uno che sta bene”! e quindi anche le risate, la bocca che lascia intravedere i denti, per poi sfinire nel pomeriggio, ancora i libri, il fuoco (che compagno amato!), il cibo, stavolta con qualche maestria, le notizie, altre storie inventate in un film, le parole dette al telefono, così preziose, vitali! fino a che l’ultima pagina è stata letta, l’ultimo messaggio è stato mandato, l’ultimo film è stato visto, e la domanda, quella che il rumore per tutti ha evitato ancora una volta, quella che solo a brevi tratti qui è scomparsa, nel buio, prima di dormire, inevitabilmente, riappare.

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