Se fosse vero

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Bisogna accompagnare questa riflessione, necessariamente, con qualcosa di buono, altrimenti è troppo dura, troppo aspra, perché è inclementemente vera. Se cliccate sulla foto trovate anche la ricetta.

Tutte le volte che diciamo “non posso”, tutte le volte che diciamo “io sono fatto così”, tutte le volte che diciamo “lui”, cioè tutte le volte che non diciamo “IO”, tutte le volte che vediamo fuori distogliendo gli occhi da dentro, tutte le volte che vinciamo, che pensiamo di essere a posto, tutte le volte che alla via complessa di vivisezionare quello che abbiamo fatto, pensato, detto, preferiamo la via del giudizio di quello che è stato fatto, pensato, detto da altri, tutte le volte che non capiamo che ciò che ci infastidisce ci sta mostrando i cantieri da aprire, tutte le volte che per una cosa che “io” mandiamo a puttane una cosa che “noi”, tutte le volte che restiamo soli, seduti per terra, piangenti, in un deserto di ragioni sacrosante, di “rifarei tutto se tornassi indietro”, di “io ho la coscienza a posto”, di “se però lui avesse fatto, detto, ascoltato, capito”, ogni volta che ci avviciniamo al lago dei nostri diritti, ci immergiamo nella contezza di “come si fa” e anneghiamo nei “sono tutti stronzi”, e soprattutto quando ci accorgiamo che con le nostre ragioni, i nostri ottimi motivi, le nostre abitudini, abbiamo fatto il vuoto, detestabili proprio perché consequenziali, coerenti, immutabili, e ancor di più ogni volta che non capiamo che la ragione di oggi è la premessa della sconfitta di domani, solo che oggi era un ostacolo superabile, domani sarà ineluttabile, e ci arriveremo certamente dalla parte opposta del torto, perché la somma di tante piccole buone ragioni dell’IO partorisce il ciclopico muro tra NOI, e ogni volta che i nostri limiti mettono un mattone a quello sbarramento, le nostre doti migliori allungano una mano per toglierlo, se solo glielo lasciamo fare, e se quel muro sale mostra a tutti (tranne che a noi!) l’evidenza che a guidarci sono i nostri bisogni, e non, come dicevamo, tutte quelle buone intenzioni, perché ciò che ci distrugge è proprio la giustizia solitaria, che poi sono le buone intenzioni mai diventate buona azione, ostacolate sempre dall’altro, e ci mancherebbe!, l’altro che è sempre cattivo, limitato, è sempre parziale, scappa, fugge, e quindi deve essere proprio uno stronzo, a meno che non ci rendessimo conto che poteva restare, che potevamo farlo restare, che uno resta se sta bene, di solito, anche lui, se solo avessimo ascoltato, se solo avessimo capito, se solo avessimo smesso, per una volta, di seguire il copione da dentro a fuori che da sempre, infatti, ci danneggia, ci invecchia, ci ruga, e basterebbe rendersene conto per cambiarlo, capovolgerlo da fuori a dentro, almeno se fosse vero (se fosse vero…!), che siamo migliori, che sappiamo evolverci, ma soprattutto (soprattutto…!) che vogliamo essere felici.

NB: A tutti quelli che parlano di denaro: il downshifting, nel caso non lo aveste ancora capito, è questo. Il resto, per esprimermi in termini socioeconomici corretti, sono cagate.
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Il salto

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Questa faccenda dell’asticella mi ricordo di averla pensata un giorno di grecale teso e buono…

Qualcuno, rassicurato, vede nella mia inquietudine la prova che cambiare vita è impossibile, o almeno rischioso e potenzialmente dannoso. Una chimera che porta alla distruzione. Era molto preoccupato che vi fosse una possibilità, e ogni volta che gioisco, da anni, delle mie conquiste di libertà, patisce, oppure prova a smontarle, fino ad accusarmi di falsa coscienza, falsa testimonianza, ed ogni altro abominevole peccato di cui viene da sempre tacciato chi propone (e vive!) un’idea diversa dal conformismo che schiaccia ma anche, tanto, protegge. Se c’è una possibilità di fuga dal carcere, infatti, la popolazione carceraria si divide sempre in due: una minoranza spera e si adopera per tentare la sua evasione. La maggioranza invece soffre dovendo constatare che ha due vie di fronte: tentare, faticando e rischiando, oppure ammettere che potrebbe ma non ci prova, dunque che di fatto non ha a cuore la libertà come diceva, come giurava. E stare in carcere senza potersi più lamentare della mancata liberazione equivale a morire.

Chi strumentalizza, in questo modo, i disagi della vita, le complessità, le inevitabili sconfitte e i timori ineludibili, dimentica che l’inquietudine non è la mia, ma è dell’uomo. La differenza sta solo in un fatto: gli uomini liberi se la concedono, ci giocano tra le dita, prevalgono o ne escono sconfitti, ma consapevolmente, vivendo la reale natura delle cose. Gli altri invece la negano, drogandosi nei modi più adatti alla bisogna (lavoro, routine, consumo, farmaci, droghe, falsi movimenti…), fingendo che vada bene come va. Del resto, per chi ha problemi col coraggio e con la libertà, è sempre meglio una buona bugia che una cattiva verità.

Mi sono convinto che si tratti di una questione di ambizione. L’asticella cade se tenti di superarla col tuo miglior balzo, ma il fatto che cada è sia prova del fallimento del salto sia prova della meraviglia di aver tentato. Una vita da sportivi restando alla base di quella rampa, immobili, a guardare un’asticella che non cade solo perché mai un balzo verrà tentato, è per molti una rassicurazione. Per un saltatore in alto è il totem della sconfitta. Il punto di quell’asticella, naturalmente, non è superarla (anche se questo ha un suo grande senso) ma il salto. Ma se la questione maggiore risiede nel salto, solo chi non stacca la sua ombra da terra è fallito. Chi supera o non supera l’asticella, ce l’ha fatta.

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Idee e sudore

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Il Fienile dell’Anima

Arrivai a Cuba, molti anni fa, e in tutte le tv accese nei locali Fidel parlava con tono appassionato. Chiesi di che si trattasse. Mi risposero: “è l’appello per la Zafra!”. Ogni anno Fidel invocava la mobilitazione generale per la raccolta della canna da zucchero. In pieno embargo, era la grande fonte di reddito cubana, e anche solo portare la raccolta al 25% dell’intera produzione disponibile, rispetto al solito 20%, avrebbe significato grandi risorse in più. Mi colpì che un Capo di Stato fosse così accorato parlando della raccolta di un “frutto”. Per lui era la chiave della libertà dell’isola.

Quel concetto l’ho mutuato per il Fienile dell’Anima. Per una scommessa ideologica e di stile di vita questa casa si riscalda solo a legna, no gas, no gasolio, e la legna non la compro: viene dal piccolo boschetto che l’attornia. Devo tagliare gli alberi o potarli prima della vegetazione primaverile. Li lascio a terra fino all’estate e poi li faccio a pezzi. Poi devo trasportare in salita i ciocchi fino alla casa, che sta su un crinale, disporli in legnaie dove in teoria dovrebbe stare un anno a seccare per bene. Ogni anno dovrei bruciare quella dell’anno precedente. E’ la mia “Zafra” annuale, che non manco di indire facendo un grande e accorato discorso ai cittadini quivi residenti: me. Lo corredo di grandi concetti come le fonti rinnovabili, l’autosufficienza energetica, la libertà. Scoiattoli, gatti, cinghiali, daini, scorpioni e potamon fluviatilis (le popolazioni più rappresentate del luogo), mi ascoltano con apparente interesse.

La fatica, l’impegno, la caparbietà con cui per nove inverni ho mantenuto fede a un concetto, sono fattori essenziali per la mia libertà. L’orgoglio di accendere il fuoco nei primi giorni freddi dell’anno, ricordando ogni singolo pezzo di legno, la fatica costata, il valore che ha in quel momento, sono un gesto rituale e sapido, l’atto finale di un ciclo fatto di idee e sudore. Ecco i due ingredienti della libertà, almeno di alcune sue declinazioni fondamentali: le idee, perché occorre prima sempre pensare qualcosa di nuovo, proprio, adeguato, e poi farlo; il sudore, cioè compromettersi personalmente, fare a mano direttamente, bagnare la maglietta con ciò che promana dal nostro corpo che fatica.

Il decimo inverno è “alle porte”. Ancora una volta il gesto di essere autonomo dal punto di vista energetico mi riempie di considerazione e rispetto per me e per questo luogo carico di magia. Me lo ripeto, come Fidel, prima di rimettermi all’opera, come ogni giorno, appena smetto di scrivere, portando su le cinque tonnellate della mia legna che mi serviranno.

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Un bosco in salita è durissimo da lavorare…

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Non quando ci sei

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Devo pensare, riflettere come fare.

Mi sto rendendo sempre più conto del grande dislivello di vite che facciamo. Chi ha tempo, chi segue la mente e il cuore nella fitta concatenazione quotidiana delle emozioni e dei sentimenti, che seguono cronologie e tipologie insondabili, si ritrova solo. Chi ha da fare scorre, sbatte, si stanca, si distrae, parla, parla, parla, e poi si deve riposare, stanco. E quando ha tempo è distratto, si perde molte cose, soggiace a bisogni inevitabili, compressi nel tempo e nello spazio. La libertà rende spesso soli, costringe a vivere in sé e con sé i momenti che vorrebbe condividere, è soggetta a ritmi non suoi, che non può non rispettare. Costruire, progettare, o anche solo sentire, essere parte del flusso emotivo, sensoriale e psicologico che conduce non dove dobbiamo, ma dove siamo, non sono accessori, sono la vita, ed è dura poterla mettere in comune, raccontarla, farla e viverla insieme quando accade, perché bisognerà farla e viverla quando si potrà. Cioè quando, magari, quell’emozione non ci sarà più, e ci si dovrà sforzare. Neppure l’amore facciamo quando ne abbiamo voglia, tanto che spesso la voglia non ce la facciamo neanche venire quando non si può. E quei momenti di desiderio non tornano.

Incapaci di concepirci liberi, imberbi dell’autenticità, quasi non ci pensiamo a questo. Forse neppure lo sappiamo. Distratti da mille altri problemi, non immaginiamo che si possa esistere assecondando ciò che si sente quando lo si sente, o quando sarebbe bello donarci a chi sente, regalargli ciò che lui sente, nel momento in cui lo vive. Già riuscire ad avere tempo per fare qualcosa quando si può, ci pare tanto. Compriamo biglietti con mesi di anticipo: e se quel giorno non mi andrà di viaggiare? Prenotiamo ristoranti: e se non avrò fame? Rimandiamo a quando avremo tempo e modo l’amore, le parole, il nostro tempo finalmente “libero”: e se quella settimana avrò voglia di lavorare? Non si vive quando si è vivi, ma quando qualcuno ha deciso che è opportuno.

Ecco la lunga mano del sistema imperante, che ti raggiunge comunque, anche se ti sfili. Ecco dove prende le sue rivincite, costringendoti a essere solo quando vorresti qualcuno accanto, o quando ti porta a condividere le cose di maggior valore nei momenti “utili”, non nei migliori. E’ una tragica consapevolezza questa, su cui bisogna lavorare. Devo studiare, capire come sia possibile contrastare questo colpo di coda del grande scorpione dorato. Non può tollerare di essere stato battuto. Cerca, e trova, ogni giorno, la sua rivincita.

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Un altro giro di giostra

Tornano, perché prima o dopo devono farlo, e iniziano sempre dopo la metà d’agosto, i primi, poi verso la fine, il grosso, e gli ultimi a settembre, tornano con le vacanze sulle spalle, e il peso sembra che sia triplicato rispetto a quello insostenibile di prima di partire, che uno si chiede: ma se le vacanze il peso lo triplicano, non era meglio restare a lavorare? così sarebbe stato un terzo di quello che hanno ora addosso, e il problema non è mica tornare a lavorare, lavorare di per sé non è brutto, io sto lavorando, da mesi, dieci ore al giorno di media, tra quando scrivevo sette a ora che correggo tredici, qualcuno che ama il suo lavoro c’è, pochi, ma per gli altri è disumano due sole settimane l’anno di vacanza, chi ama quel che fa potrebbe non stancarsi mai, ma loro sì, dovrebbero averne una ogni tre, almeno! e in ogni caso, anche fosse, il problema è vivere, come, dove, facendo che, alienati da che, staccati da che, perché quel peso non ha niente a che vedere con l’ufficio, con il capo, con le riunioni in cravatta intorno a un tavolo, quel peso è dentro, triplica dentro, germina dentro, e riguarda tutto, fare notte a compilare excel o a dormire, una moglie amata o il disamore, un tempo speso o sprecato, rapporti umani inutili con gente che non amano, che non li ama, il cane da portare a pisciare, sogni che non hanno, ma più tragicamente che non vivono, posti che fanno schifo, perché non siamo una cosa soltanto, ma un insieme, e mi scrivono, in tanti, iniziano sempre ora, intorno al diciassette agosto, il giorno dopo, the day after, e mi fanno tenerezza, a qualcuno rispondo, non a tutti, vorrei ma non posto, anche perché quello che mi verrebbe da dire è meglio che non lo dica, per me è facile, adesso, ma io ci sono stato come stanno loro, e mi ricordo, e magari avessi avuto uno che mi alzava dalla sedia con tre parole dure messe bene, ma comunque non le dico quelle tre parole, perché sono dure per chi legge ma anche per chi scrive, e poi mi sono stufato di sentirmi dire che ci vado giù pesante, come se anche loro non ci andassero pesanti, io almeno lo faccio a parole, osservando, loro con le azioni, vivendo, e c’è una cosa che sa di brutto più delle altre in tutta questa storia, la ritualità del disappunto, il calendario dell’agio e del disagio, condannati a lamentarsi tutti più o meno nello stesso periodo, come se durante l’anno, deciso a tavolino, ci fosse il mese per sperare, quello per temere, poi uno per respirare, e quello vomitare, aprile è il mese per giacere, gennaio per tacere, poi c’è settembre per riprendere ancora, identico rituale, disperata liturgia, ogni anno, ogni mese, ogni giorno, mentre la vita se ne vola via.

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Nei suoi venti

 

Porzione di copertinaScrivo ormai dalle 6 alle 18, pausa breve, o dalle 8 alle 19, come oggi, e presto dovrò iniziare anche la sera. È durissima, mi fa male tutto, non sto più neppure andando a correre. Ho gli occhi in fiamme, le spalle che quasi non le sento più, le dita delle mani anchilosate. Nella testa parole che si schivano, l’angoscia di una ripetizione, il terrore di quella frase che non va, non torna, non viene.

Rais chiede questo per nascere. Vuole sudore, sacrificio, vuole vedermi piegato, capire quanto reggo, fin dove sono disposto a spingermi. Rais vuole vedermi in burrasca, osservarmi che governo col forte. Vuole vedermi ferito, in ginocchio, senza equipaggio, vele che stanno per cedere, senza cibo, senz’acqua.

L’ho sfidato io, non posso neppure lamentarmene. Io ho voluto osare quel che non avevo mai tentato, spingermi per un oceano così immenso, senza carte o strumenti, dovendole disegnare io mentre navigo, semmai. Il rais è duro, violento, abituato allo scontro, e sono nelle sue acque, nelle gole dei suoi venti. Conosce le baie, i ridossi, sa dove fuggire mentre io navigo alla cieca.

Non immaginavo, non credevo di rischiare di soccombere. Le parole sono le mie, la storia è la mia, pensavo. Ma non è così. Un ammutinamento, ben presto, mi ha tolto il comando. I personaggi sono fuggiti di notte, lasciandomi senza battello di servizio, senza armi, si sono impossessati di una galera veloce, hanno issato vela. Sono dovuto salpare, rincorrerli per ogni isola, per canali, mari interni, tener dietro alla loro folle corsa, perlustrando porti, insenature.

Ora sono giorni, settimane, mesi che li tallono. Cercano di darmi i rifiuti del vento, di coprimi quando è debole, spingermi in altura se sale. E sta arrivando la notte decisiva

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Perchè ci paia vero

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Paio vero così!?

E basta con questi selfie, e dai… Ma non lo vedete che siamo patetici, che immortaliamo istanti scelti ad arte per convincerci di qualcosa che non è vero, per dare a qualcuno messaggi di una vita che l’istante prima e l’istante dopo quella foto, invece, nascondiamo, perché ce ne vergogneremmo!? Quelle facce eternamente sorprese, quei volti cristallizzati in smorfie di giubilo sopra-le-righe, sono cartapesta di un carro allegorico, significano quasi sempre qualcosa di metaforicamente opposto, ma lo mascherano per noi, che siamo i primi a non crederci e ci fotografiamo perché ci paia vero. Nel farsi una fotografia ogni tanto non c’è nulla di male, ma come diceva il vecchio Compay Segundo: “si può fare tutto, per tutta la vita, ma senza esagerare”. Non così, non a comporre una cronistoria da ipertiroidei esaltati, finti cocainomani dell’ego che cercano di dimostrarsi vite movimentate, affascinanti, esilaranti, avventurose, piene di massime da filosofi de no’antri, nel tentativo di negarsi e negare che nella vita, come nella musica, contano più le pause delle note.

Non c’è niente di particolarmente interessante in questi nostri autoritratti, non so se ci è chiaro, e questo sì che combacia con le nostre vite. Sono tutte pose vacanziere, da reclusi nell’ora d’aria, in cui l’unica cosa interessante, di cui resta il perenne languore, sono le altre foto, quelle che non ci sono perché non le scattiamo o pubblichiamo mai, cioè il racconto delle sequenze escluse dal romanzo, le sole che potrebbero dire qualcosa di vero.

Pippe. Onanismo iconografico. Autoerotismo della finzione, il decadente affresco di un’epoca di perpetua esaltazione emotiva farlocca, accompagnato sempre (o quasi sempre) da frasi d’altri, prese su Google, non certo da un libro che si sta leggendo, per comporre un quadro che non è il proprio, ricchi di una saggezza non nostra, confusionaria, raffazzonata, che non sa davvero di noi, e che purtroppo, nella maggior parte dei casi, non somiglia neppure all’aforisma di ciò che vorremmo diventare. Ritratti di persone che non siamo, ricche di un acume che non dimostriamo dal vivo. Invocando inutilmente, sempre più debolmente, un’autenticità che a furia di fotografarci non ritrarremo mai.

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Piccola e fragile (EU)

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Secondo me stiamo facendo la figura degli psicotici, e ci stiamo facendo prendere per i fondelli da noi stessi.

Siamo quelli che escono senza alcun timore in macchina nonostante l’anno scorso si siano verificati in Italia 177.031 incidenti stradali con lesioni, che hanno provocato la morte di 3.381 persone e il ferimento di altre 251.147. Una strage. Nella vita domestica saliamo senza tema su un seggiolino per prendere la farina lassù in alto pur sapendo che sono 7.378.000 ogni anno gli accessi in pronto soccorso causati da incidenti e violenza, di cui oltre 1.825.000 avvenuti in casa (Istat). Eppure nessuno si spaventa, pur sapendo che si farà certamente male così, e forse morirà. 

Al cospetto di ciò, che non genera alcuno schiamazzo, nessun commento accorato, i morti per terrorismo quanti sono? Dunque, di che cosa stiamo parlando? Cos’è questo allarme, che genera invettive, litigi sui social, stati d’ansia collettiva? Perché c’è gente che in un aeroporto si guarda intorno terrorizzata, sta spalle al muro, nonostante in migliaia di aeroporti transitino decine di milioni di persone al giorno senza neppure mai farsi un graffio? Perché i politici invocano la pena di morte, l’espulsione in massa di tutti i non italiani? Io, ad esempio, ho paura degli italiani quando guidano, e la statistica mi dà ragione. Allora che vogliamo fare, espellere tutti gli italiani perché guidano male e mettono a repentaglio la mia preziosissima vita? Se fossi un extracomunitario lo direi: “Italiani, per strada ho paura di voi!”.

Nelle liste dei problemi gli psicotici non partono mai dall’alto. E noi? Ogni anno muoiono circa 180 donne, uccise da uomini, una vittima ogni due giorni (Eures). Ignoriamo le ventinove cause di morte più gravi per occuparci in massa della trentesima. Perché!?

Ottanta morti a Nizza, sono tanti. Un buon numero tra Parigi, la Germania e altrove. Tragedie, beninteso. Tutte (o quasi) vittime per causa di cittadini europei. Non venga a nessuno in mente di chiamarli diversamente, perché sono nati e vissuti in Europa, sono andati a scuola qui, hanno lavorato qui. E allora? E’ brutto, è grave, ma è anche evidente che si tratta di emuli raccattati nei bassifondi della follia e del disinserimento sociale. E’ evidente che la comunicazione allarmata e clamorosa che stiamo facendo li innesca, perché gli concede il momento eroico, invece del momento del coglione, per farla finita. Se i telegiornali smettessero di fare dirette fiume a ogni atto terroristico, in sei mesi sarebbe finito tutto. Idem se qualche poliziotto belga o francese facesse il suo lavoro decentemente. Se la televisione dedicasse la stessa enfasi ai tagli da lamierino aprendo le scatolette di tonno, le aziende di scatolame fallirebbero, e i tonni vivrebbero felici e contenti.

Se seicento italiani muoiono in un anno cadendo da un treppiede fatto in oriente nessuno ci bada, la notizia non c’è e soprattutto nessuno titola: “Siamo in guerra. La Cina ci vuole morti”. Se quattro imbecilli emuli sparano e fanno morire dieci connazionali se ne parla per settimane, a reti unificate. L’Isis ride a crepapelle, nonostante rivendichi l’attentato solo quando è certa che un minimo appiglio ci sia. E noi crediamo che ci sia una rete, una trama, un collegamento in grado di minare l’Europa. E’ come se io domani rivendicassi l’aggressione a un capoufficio stronzo da parte di un manager saudita esasperato che gli ha spaccato la testa a colpi di MontBlanc. Avendo scritto libri sul tema “lavoro” voglio un titolo a nove colonne sul Corriere di Rihad e un’indagine internazionale a mio carico. Ma sai le risate dell’Interpol…!?

Si può essere più fragili di così? Ci sgretoliamo sotto i colpi dei media che noi stessi gestiamo. Ma se siamo fragili, vogliamo chiederci perché? Vogliamo prendere atto con calma che qualcosa nella società, nella nostra cultura, non va? Se andasse, non avremmo tutti questi matti in giro… Ma vogliamo farlo con calma, perché non c’è alcuna guerra!? E’ semplice terrorismo, lo abbiamo avuto in casa per due decenni, ben più grave e letale. Il Generale Dalla Chiesa, alla fine, lo sgominò. Vogliamo fare altrettanto, e ragionarci su? Così magari non ci distraiamo dalle nefandezze assai più gravi che avvengono nei nostri paesi, e che qualcuno, secondo me, è ben lieto che passino in secondo piano nascoste dietro la Guerra Santa.

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