Li invidio

Albero, tramonto e laguna in Mozambico. Uno dei luoghi…

Tutti gli autori hanno una città. Una soltanto loro. La NY di Allen, la Marsiglia di Izzo, la Istanbul di Pamuk, la Lisbona di Pessoa. Ma non è prerogativa solo dei grandi autori, vale per tantissimi, quasi per tutti, anzi, soprattutto per i “minori”. E non si fermano a una città, spesso hanno perfino un quartiere definito, addirittura una strada di quel quartiere, intorno alla quale ruota la loro vita o comunque giostrano le loro storie. Ognuno di loro ha un bar di riferimento, che dopo morti viene visitato dalle generazioni future di lettori affezionati. Tantissimi hanno fin anche un personaggio, sempre lo stesso, nome e cognome, sintesi e testimone delle loro strade, dei loro quartieri, delle città, delle culture. E hanno un registro per raccontarne le avventure, una voce definita, riconoscibile, che conforta i lettori bramosi di rileggere dieci, cento volte la storia amata, con cui raccontano storie identificative, inconfondibili. Solo pochi scrittori non si identificano con una nazione precisa, con una cultura. Talmente pochi che non me ne viene in mente uno così, all’impronta.

Pensavo tempo fa che io ho solo una lingua, mi esprimo per puro caso in italiano, anche se quando un libro viene tradotto la mia lingua scompare. Per il resto non ho una nazione, la mia patria è solo mare, dove non c’è che cittadinanza di umiltà e rispetto; abitante tra le isole, in quel dovunque mediterraneo delle valli dell’immediato entroterra, delle coste, delle baie in cui di volta in volta mi trovo. E poi non ho registri, la mia sintassi cambia sempre, le parole e le forme con cui racconto storie diverse è sempre un altro, perché ogni storia ha il diritto di scegliersi il proprio narratore. Non ho città, se cammino per una di esse sono un ospite temporaneo. Dunque non ho quartieri, né bar, né strade. Non ho personaggi, nessun cognome ricorrente. Ci ho provato una volta, ma era un po’ come commettere un furto. In alcune delle mie storie il protagonista un nome neppure ce l’ha, in molte non ha neppure un volto, convinto come sono che ci sia solo un uomo al mondo, lo stesso da sempre, al centro di infinite avventure.

Guardo le vie della cittadina, quando mi capita di andarci. Guardo i borghi oltre lo schermo magico del finestrino di un treno in corsa. Guardo nelle cucine accese di notte. Guardo la gente sotto un lampione, o le formiche che siamo visti dal cielo. Cerco d’immaginare ogni volta quale sarebbe il mio luogo, se ne avessi uno soltanto, e mi chiedo perché non ce l’ho. Mi struggo a domandarmi come fanno altri ad averne uno così preciso, come riescono a ignorare quello accanto, quello della via adiacente, del quartiere limitrofo, come non siano ogni volta aggrediti dalla brama di entrare con la penna fin dentro ad altre vite, identiche e nuove, depositarie ognuna di un pezzo di realtà. La nostra. La loro. La mia.

Guardo, e resto un po’ sgomento. Li invidio. Come ho sempre invidiato i collezionisti di francobolli, capaci di concentrare su un quadratino di carta l’interesse intero per il mondo, riparandosi da qualunque altro sconcerto. O chi cresce e muore nel posto dov’è nato, che sa resistere all’irrefrenabile curiosità di sentirsi un altro rinascendo una, due, dieci volte altrove. Mi pare di vederli, ma di non riuscire a sentirli miei simili, inossidabili come sono alla più ancestrale smania di vedersi e sentirsi diversi in altri mondi, come Ulisse, Ibn Battuta, o Giasone, Zeng He, Colombo, Polo, Caboto. Il bisogno ancora identico a quello del primo uomo, dell’ultimo uomo, dell’ultima donna, vestali dell’eterna porta socchiusa, sacerdoti del desiderio latente che un giorno si compie e diventa gesto: la mano, ferma da anni, che si solleva e quella porta spalanca, e tutto diventa solo una partenza. Senza ritorno.

Share Button

Sottomesso

Equilibri

Navigando, quasi sempre, si comprende, e lo si fa per necessità ed evidenza, in modo quasi pre-razionale. L’azione spinge a officiare una quotidiana liturgia, che è inevitabile, della quale si è necessariamente esecutori, senza indugio, senza che altro si frapponga. Non si fa ciò che si vuole, neppure quando lo si desidera, semplicemente tutto avviene, occorre eseguire ciò che va fatto, indifferibilmente. Il marinaio, che tutti stimano libero e svincolato, è un servo, un attendente, vicario del mare. Lo è, in modo identico, il compositore, l’autore che da fuori pare il Re delle parole, Imperatore delle storie, onnipotente tanto da far vivere o morire, e invece lava i piedi ai suoi personaggi, inginocchiato, bacia quotidianamente il libro sacro sull’altare della creazione di cui è solo parzialmente artefice.

Non mi basterà tutta la vita, per comprendere il modello del Mediterraneo. Ma uno dei suoi componenti essenziali l’ho sperimentato e assunto: il riconoscimento del proprio umanissimo sacro, e l’accettazione felicemente condivisa dell’esserne il celebrante. L’uomo del Mediterraneo è devoto, che per il suo etimo (lat. devotus, part. pass. di devovere «promettere con voto, consacrare») è consacrato, cioè “si è interamente dedicato a qualche cosa” (Treccani). Nutre dunque sottomessa affezione per un’entità, un luogo, una condizione, una persona. L’uomo del Mediterraneo in questo è diverso dallo zeitgeist, lo spirito che permea questo nostro tempo: non combatte contro la sua sottomissione al mare, ai ritmi naturali del suo mondo, anzi, la riconosce coerente con sé, dunque l’accoglie, la sceglie, e per questo devotamente la celebra. In questo, annulla ogni tedio, ogni sensazione di sradicamento, di assenza di significato.

Quando scrivo, nell’atto della composizione, così come quando navigo, nell’infinito e incessante governo dell’imbarcazione, mi sento sottomesso al mare e alla parola. Devotamente celebro entrambi, mi dedico, e coerentemente fatico per essi. E in questo mi trovo, mi ri-conosco. Ecco, forse cos’è l’identità: conoscere la propria fatica, perché la si fa, il senso che ci dona farla.

(considerazioni in margine ad “Atlante delle isole del Mediterraneo” e “Rais“)
Share Button

De-finire

Re-ti.

“Perché leggere e parlare di RAIS, il nuovo poderoso romanzo di Simone Perotti? Anzitutto per scoprire un autore che non è solo (non più, in ogni caso) il profeta del downshifting in Italia, ma uno scrittore completo, con idee ben chiare sul tipo di letteratura che vuole leggere e proporre. Idee coraggiose che sfidano le leggi del mercato (in un tempo in cui il mercato del libro è talmente fermo che anche i format triti e ritriti faticano ad affermarsi); idee che lasciano basito il lettore e lo portano a sfidare se stesso, la propria concentrazione, la propria pazienza anche; idee letterarie che affondano piedi e radici nella storia misconosciuta e reietta (lo possiamo dire?) del Mediterraneo, che è e rimane Mare Nostrum anche non ce lo vogliamo ricordare…” (Qui tutto l’articolo)

Finalmente… qualche critico che riesce a svincolarsi dalle idee fisse e preconcette. In Italia se fai un salto mortale su una spiaggia, così, tanto perché ti gira e ti sei iscritto a ginnastica artistica, per tutta la vita resti “quello del salto mortale“. E questo vale per tutto, nel male e nel bene. Ma soprattutto per la scrittura. Che pena…

Solo che io non sono uno, come per altro chi legge. E i miei “tanti” continueranno sempre a cercarsi, trovando invece altro ancora di inopinato ma vero. Ne nascerà sempre un coacervo indefinibile, forse, ma che avrà almeno una virtù: rendere ridicole le definizioni sul mio lavoro. De-finisce, chi non vuole neppure iniziare. E io sono almeno a metà…

Share Button

Dentro

Spaghetto della consegna. Sugo. Particolare.

Che i percorsi sono tutti veri, il sudore bagna, le lacrime anche, e la mente vola. Che avere una rotta è tantissimo, e se anche da quella parte il mare è scuro e agitato, è meglio che girarsi di qua e di là guardando ebeti l’orizzonte, senza sapere dove dirigere la prua. Che c’è un’etica nelle scelte, e bisogna sempre riprendere tutto da sopra, dalla cima, da chi sei te, dove vuoi andare, a che uomo vuoi somigliare. Che tutto questo non è obbligatorio, ma è necessario, almeno per alcuni sedicenti portatori di dignità. Che io sono uno di questi. Che poi, quando hai rimesso le cose in fila, sei orgoglioso, almeno per dieci minuti. Che quando scrivi la parola fine a una storia scritta per molti mesi, da ottobre, è sempre un momento emozionante, di quelli che segnano la tua vita e che non dimentichi più. Che subito dopo consegni all’editore, e le emozioni si impadroniscono di te. Che il tredicesimo libro ti è venuto molto bene, ha senso nel tuo percorso di ricerca, e ti piace, forse, speriamo… Che domani mattina ti sentirai un po’ disorientato. Che, ammettilo, stai pensando contemporaneamente a Rais, al tuo Atlante ma anche a un’altra storia, oggi hai perfino immaginato un dialogo, dillo! Che sì, lo ammetto. Che dopodomani sono a bordo, e ne ho veramente una gran voglia, bisogno di mare, di viaggio, di avventura. Che però non è facile lasciare casa e famiglia. Che è sempre così… almeno quando sei vivo. Che essere vivo è una buona cosa. Che lo spaghetto del festeggiamento tête-à-tête con te stesso, nel merito, è: pomodorini spaccati in quattro, aglio, rosmarino fresco tritato, olio d’oliva, peperoncino habanero, acciughe dello Ionio marinate da te, presa di sale, coriandolo fresco tritato, e bisogna che ti ricordi come ti è sembrato un dono mangiarlo con gusto, poco fa, pensando e ripensando che sono anni ormai che scrivi senza quasi fermarti mai, ogni mattina, sempre dentro, dentro, dentro. Che chissà perché scrivi. Che non è così importante, tanto non puoi evitarlo, e non è la sera adatta per le domande del cazzo. Che invece sono proprio questi i momenti per le domande del cazzo. Che scrivere ti ha salvato la vita, e questo lo sai. Che chissà cosa sarebbe successo se non avessi scritto. Che chissene frega, stasera festeggio un altro passo importante per me, mica per il mondo, per la mia piccola vita, che però è una cosa grossa, visto che è mia, e occuparsene, curarla, costruendo momenti di festeggiamento col piccolo immenso orgoglio di aver portato a termine una storia, beh…, un po’ mi commuove. Che sei un pirla a commuoverti. Che, senti… pazienza.

Share Button

Dove siete?

cropped-banner-per-sito-4.jpg

Vedere la poppa…

Come il primo giorno di vacanza, dopo la scuola, come il primo giorno dopo gli esami, alla maturità o all’università, come il primo giorno dopo l’ultimo di lavoro, quella prima estate, come il giorno dopo la fine del militare, come il giorno dopo il bachelor, come il primo giorno delle ferie d’inverno, come il giorno dopo quel matrimonio sbagliato, ma grazie al quale ho capito cosa non sono, come il giorno dopo essere entrato al Fienile dell’anima, che mi pareva d’aver finito e non avevo neanche ancora cominciato, come il giorno dopo aver detto quella cosa che avevo qui, come il giorno dopo essere salpato per la prima volta da solo, io e il mare, e tutto il mondo fuori.

Visto-si-stampi, come fosse una sola parola lunga, così si chiama quello che è successo ieri a Segrate. Me lo hanno strappato dalle mani, io che imploravo ancora ventiquattr’ore, ma non c’erano: “Salta tutto Simone…”, o ieri o niente, e allora è andato. Nove anni, mentre pensavo studiavo e scrivevo anche altro, ma un pezzo di me sempre lì, a provare a figurarmi il suo viso, la sua testa, da dove venisse la sua assurda cattiveria. E gli altri, immaginare per anni anche loro, dalla spia a Colombo, fino all’ultima nata, che poi ha preso in mano tutto, come fanno le donne quando c’è confusione: Bora. E poi fitto fitto per un anno intero, ogni mattina, ogni mattina alle 6.00, come si fa ogni cosa buona, con l’intensità dello sportivo, la ripetizione assidua e fedele del monaco, l’operosità intenta dell’artigiano, sette giorni su sette, a volte otto, due turni, anche il pomeriggio, fino a ieri. Non si può spiegare…

Dov’è l’amicizia tradita, dov’è l’amore, dov’è il nemico, dov’è il segreto, dov’è il mistero, dunque com’è andata? Dove se n’è andato Dragut, la sua galera ieri ha intuito bene il vento, mi ha preso dieci miglia, poi venti, poi il largo, guidone bianco e azzurro con la mezzaluna gialla al centro che volava alto, fino a che non s’è fatto punto, poi idea, poi ricordo, poi nulla; dove se n’è andato Keithab, dov’è Arslan, dov’è Khaled Imari, dov’è Bora, di cui non si trova più neppure la tomba nel paese dove nessuno si ricorda di lei; dov’è Ariadeno, Kahir al-Din, dov’è Occhialì, dove sono Andrea, il geniale Cristoforo, Carlo, dov’è La Vallette, dov’è il cipriota con le spalle larghe che le ha prese di santa ragione, dov’è lo Zoppo… Erano qui, talmente accanto da essere dentro, per mesi, anni, e ora… Dove sono andate le migliaia, centinaia di migliaia di marinai senza nome con cui ho navigato anni, dove sono andate le loro isole sicure, la loro brama di ritorno, dov’è finito Piri Rais, dove sono ora i teschi della “Torre dei crani”, teste anonime decollate sulla spiaggia di Gerba, una catasta alta dieci piedi, con una circonferenza di centodieci, visibile dal mare, che rimase su quella spiaggia dal 1546 alla metà dell’800. Tutti viaTutti salpati per proseguire un viaggio che senza di me non avrebbero mai intrapreso. Irriconoscenti, dimentichi, insensibili come tutti i figli. Dove sono andato io…, disperso nei loro lineamenti, nelle palpitazioni asincrone dei loro cuori tamburi sotto la pioggia grossa che sa di sale. Dove siete adesso? E dove sono io, ora…?

Share Button

Nei suoi venti

 

Porzione di copertinaScrivo ormai dalle 6 alle 18, pausa breve, o dalle 8 alle 19, come oggi, e presto dovrò iniziare anche la sera. È durissima, mi fa male tutto, non sto più neppure andando a correre. Ho gli occhi in fiamme, le spalle che quasi non le sento più, le dita delle mani anchilosate. Nella testa parole che si schivano, l’angoscia di una ripetizione, il terrore di quella frase che non va, non torna, non viene.

Rais chiede questo per nascere. Vuole sudore, sacrificio, vuole vedermi piegato, capire quanto reggo, fin dove sono disposto a spingermi. Rais vuole vedermi in burrasca, osservarmi che governo col forte. Vuole vedermi ferito, in ginocchio, senza equipaggio, vele che stanno per cedere, senza cibo, senz’acqua.

L’ho sfidato io, non posso neppure lamentarmene. Io ho voluto osare quel che non avevo mai tentato, spingermi per un oceano così immenso, senza carte o strumenti, dovendole disegnare io mentre navigo, semmai. Il rais è duro, violento, abituato allo scontro, e sono nelle sue acque, nelle gole dei suoi venti. Conosce le baie, i ridossi, sa dove fuggire mentre io navigo alla cieca.

Non immaginavo, non credevo di rischiare di soccombere. Le parole sono le mie, la storia è la mia, pensavo. Ma non è così. Un ammutinamento, ben presto, mi ha tolto il comando. I personaggi sono fuggiti di notte, lasciandomi senza battello di servizio, senza armi, si sono impossessati di una galera veloce, hanno issato vela. Sono dovuto salpare, rincorrerli per ogni isola, per canali, mari interni, tener dietro alla loro folle corsa, perlustrando porti, insenature.

Ora sono giorni, settimane, mesi che li tallono. Cercano di darmi i rifiuti del vento, di coprimi quando è debole, spingermi in altura se sale. E sta arrivando la notte decisiva

Share Button

E se non mi fermassi più?

dalla finestra

Scrivo sui tetti, come i gatti…

Scrivere è come navigare. Salpi con una rotta tua, solo a bordo, ma sai che presto ogni cosa cambierà. Da sotto coperta, come fantasmi, sorgono già la prima notte iperborei clandestini. Chi sono? Come sei potuto salpare senza sapere che fossero a bordo? Ti guardano, invocano d’essere assunti nell’equipaggio. Prendono colore al sole del mattino, occhi chiusi, volto al vento, capelli in aria. Toccano le manovre, si adoperano, e presto cominciano a star meglio.

Quando sono apparsi tutti, iniziano a discutere. Ognuno vuole tenere la barra in pugno, qualcuno ha in mente un’altra velatura. Chi dice per di qua, chi indica laggiù. Devi intervenire, sempre, e duramente, e in questi casi vorresti subito atterrare, abbandonare la nave, non vederli più. Ma se vanno d’accordo e il tempo è stabile, sempre pensi che potresti proseguire. Quante volte, navigando nel mare vero, ho detto tra me e al mio equipaggio: “E se andassimo lunghi? Se corressimo ancora avanti, con questo vento amico, e non ci fermassimo mai più?”.

Questo penso, oggi, mentre scrivo, anzi da mesi. Volo con l’inchiostro sulle righe e vedo dipanarsi il filo aggrovigliato ed elzeviro della storia, che si contorce, si accavalla, ma scorre come uno scafo ben bilanciato sul Mar Bianco della pagina. Ogni giorno scrivo pagine, pagine, pagine, sono ormai quasi a un milione di caratteri, che valgono quattro volte il volume del mio ultimo romanzo. E nonostante questo la tentazione di proseguire, come in barca, è forte, quasi irresistibile, e vorrei andare lungo, sereno, con l’aliseo che porta senza raffiche, fin oltre l’orizzonte. Scrivere ancora, e ancora, all’infinito…

A bordo, del resto, l’equipaggio preme. Spinge perché si navighi ancora, perché nessuna fine tolga loro l’ultima parola. Vogliono continuare a bordare le vele del discorso, tendere le scotte della storia, arridare le sartie a giustificazione delle loro azioni, perché reggano al lettore inquisitore che verrà. Io da tempo ormai non parlo più, non do più ordini. So che sarebbero vani, perché l’equipaggio è composto da donne coraggiose, pirati esperti, spie senza scrupoli, furbi contrabbandieri e anime già morte. La galera procede in mani sicure e a questa gente non è facile imporre alcun volere. Talvolta ho perfino paura di aprire bocca: che non si liberino di me, non si ammutinino gettandomi fuori bordo alla minima distrazione…

Da comandante di questo romanzo, oggi sono mozzo della storia. Me ne sto a poppa, seduto al giardinetto, e guardo l’equipaggio che conduce, oppure fuori dalla murata, verso gli orizzonti che sfiliamo. A volte sono malinconico, ma sempre orgoglioso di come vedo che si muovono sul ponte. Mi auguro che la rotta che hanno scelto ci conduca in qualche porto sicuro, dove sia possibile sbarcare, oppure nel mare sempre più alto e aperto dove la barca, a furia di sfregare sull’acqua, si logori, si consumi, si sbricioli, e ci restituisca tutti al mare.

Share Button

Vostra chiunque siate

la Regina studio 1 colore

Per chi ha letto “L’Estate del disincanto”. Schizzo de “La Regina”. Disegno sempre quello che scrivo. Per “smettere di vederlo”.

 

Vivo tra le parole, segreto al mondo, contumace. Seguo tutto, ma sono ostaggio del mio mondo di segni. Parole addosso, come tatuaggi maori, dentro, come suture di antiche operazioni. Sono immerso nella storia, quella grande e la mia, quella dei personaggi che ormai navigano per le pagine come fosse soltanto mare loro, cui posso solo assistere prestando dita su una tastiera a forma di nave.

Vivo dentro un’epoca remota, in cui il mondo era il medesimo di oggi, gli uomini animati dalla stessa brama, disperati della stessa maledizione: la comprensione. Sapere, mentre tutto accade, è ciò che condanna l’uomo. Che peccato che non studiamo la storia: avremmo meno illusioni vane.

Gli echi delle razzie, dei massacri, dei tradimenti del mio romanzo si intersecano con quelli della cronaca. Sangue tra le mie pagine, sangue dallo schermo della televisione. Pirati, terroristi, misteri, servizi segreti, agenti occulti della parte maledetta del mondo, quella che ci sforziamo di ignorare come non fosse attiva e protagonista, tutto si mescola nella solita trama, in cui gli unici a non capire sono le comparse. Noi.

Intanto, come sempre, le occasioni sono oggetto di strage. Non pensate al terrore di una strage, pensate alla strage che compiete. Ieri, mi chiedo sempre mentre scrivo, che è accaduto? Come siamo vissuti? Che abbiamo pensato, poi fatto, cosa abbiamo mancato, pensando che oggi ci sarebbe stato tempo e modo? E quel tempo, quel modo, oggi dove sono? La lama è l’assenza da sé. Il collo è “quello che devo fare”. Così si sgozza il proprio destino.

La mia storia è quasi conclusa. Tra breve smetterà di essere mia. Comincio ad avvertirne il distacco, fatale, inevitabile, crudele. Lo scrittore è un martire, che immola ogni giorno della sua vita per qualcosa che non potrà possedere, che quando sarà pronto non significherà più, diventerà altrui. Quando sarà compiuta, sarà come se mesi, anni di lavoro non fossero mai stati. Diventeranno vostri, e per sommo sacrificio vostri chiunque siate.

In ogni tempo, in nome di princìpi sempre simili, accanto alle guerre manifeste, si compie una battaglia sotterranea, non meno cruenta e impietosa, mutevole al girare del vento, in cui i poteri si affrontano dove non c’è onore, dove non vale la politica e non c’è costrizione al rispetto di alcuna regola, dove quindi tutto vale e nessuno può lamentare tradimenti e scorrettezze, dove non c’è diritto né limite. Il campo delle peggiori azioni umane è quello, in cui vivono e agiscono gli esseri più efferati e senz’anima, vengono impartiti ordini che alla luce del sole sarebbero impronunziabili, e che fa impallidire i massacri compiuti in regolari battaglie. Jihad e Santa Inquisizione, società segrete e custodi del Tempio, banche e potenti: un fuoco che mai si sopisce e che lavora a minare le fondamenta del mondo. La guerra esplicita, fatta dagli eserciti, dichiarata ufficialmente, è la parte illuminata della luna, ma dietro di essa v’è l’altro lato, la zona d’ombra, ciò che è necessario compiere per interessi che non possono essere spiegati. Il mondo di sopra, sulla superficie, in cui si accapigliano storici, intellettuali e diplomazie, poco sa, o spesso nulla, del mondo sotterraneo, che nessuno vuole svelare per non perdervi la propria cittadinanza”.

(da “Rais”, SP)

Share Button

Comporre

IMG-20140521-01976

Ciò che occorre trovare in questa immagine, ciò che la definisce e che dobbiamo descrivere, è ciò che non riusciamo a vedere

Scrivere è come immergersi, apnea in cui è necessario uscire da sé, perché il sé consuma ossigeno, invoca l’aria, distoglie dal mondo delle profondità, pretende che il corpo faccia ciò che lui impone, mentre comporre è fingersi altri, altri sé, con altri respiri, altri battiti del cuore, dunque vite parallele, per questo si può fare di tutto nel rumore e nella promiscuità, ma non comporre, non creare, che è condizione vagamente ipnotica, a tratti tragica, quando funziona estatica, che annulla il tempo, fa scomparire lo spazio, modifica luce e ombra, rende circolare ciò che è spezzato, ricongiunge attraverso lo straniamento, come se per capire fosse necessario abbandonare, spostarsi in un altrove che consente di vedere, perché l’angolo fa la visuale, lo scorcio il panorama, almeno tanto quanto il contrario, dunque per perdere luoghi servono luoghi, per i pensieri un pensiero, per uno stato una circostanza, che vuol dire un gran caos, e sarebbe bello se ci fosse una formula, se si potesse fare click compiutamente sulle cose raffinate, sofisticate (su quelle semplici, meccaniche [anche belle ci mancherebbe] l’interruttore c’è) per potervi accedere a comando, ma non c’è, anzi, ogni cosa intensa, che si anima di “un’altra vita”, in cui si tocca il cielo, si procede oltre ogni arcobaleno, si supera il limite di sé, onanismo esistenziale e basta, è il risultato di un processo, un percorso, segni che si aggiungono a comporre una figura, note che si affastellano alla volta di una melodia, attimi che disegnano un’epoca, gesti che provano a manifestare ciò che le parole non spiegano, e la sua metafora, un libro, quella rappresentazione straordinaria della realtà in cui riusciamo a emozionarci anche se non siamo lì, non fa differenza, anzi, ne è l’eruzione, qualcosa di più vero della realtà, solo che non è reale, o forse sì, un filo nero che corre, corre, corre, si dipana su una pagina bianca, tracciato per anni, ogni giorno, ogni giorno, e che non si può interrompere per non dissiparne la magia, e insegue immagini insensate, idee, sogni… ed è finito.

Share Button

Ricomincio a scrivere

IMG_20151207_120348_edit

Da qui

Tornare a casa, lupo solitario che rivà nella tana, in viaggio sempre, qui come per le rotte mediterranee, a braccetto con i mostri e gli angeli, inevitabilmente, mai al riparo dalle emozioni, mai dietro il separè dell’irrealtà. Ritrovare il Fienile dell’Anima, il luogo dove si deve essere, stare, per poi riandare, unico luogo a cui tornare. Ogni uomo deve avere una bitta a cui dar volta con la cima del senso. Per non naufragare.

Metà del romanzo, ed oltre, da costruire. E ora c’è una data, che cambia tutto. La seconda metà, quella più difficile. Nella prima i personaggi ti rincorrono, faticano a starti dietro. Nella seconda tu corri dietro a loro, scompostamente, difficilmente, trappole narrative che si moltiplicano, rischio di perdersi. I personaggi che hai creato, che pure sono appesi al filo della tua penna, vivono di vita propria, scelgono inopinatamente, differentemente. Cattivi che si rivelano migliori, buoni che si rivelano orribili. Amore che genera disamore, vita che genera morte. Sogni. Che romanzo scrive un autore? Quello che i suoi personaggi decidono. i suoi infiniti sé a confronto. Difficile spiegare. Dare vita impone il rispetto della vita data. Anche perché non c’è alternativa.

Come i monaci. Ogni mattina alle 6.00. Ogni giorno fino a sole alto, quando si perde tutto, quando la spossatezza intorpidisce la visione. Pieno di errori, perché l’alba è il tempo dell’immaginazione e dell’imperfezione. E poi ogni pomeriggio, quando non sapresti creare neppure un’immagine, ma sai correggere, smontare, rimontare. Lo scrittore immagina al mattino, aggiusta nel pomeriggio. Architetto e artigiano. Poi passeggia nei boschi, costruisce oggetti, ripara. E la sera, di fronte al fuoco, nella solitudine assoluta, nel silenzio inviolato, patisce, accarezza la stanchezza a volte affranta, a volte esaltata, del procreatore. Scrivere è fare l’amore, tantrica e saltuaria eiaculazione d’inchiostro.

In mare a lungo, mesi, per anni. Nella cristallizzata perfezione di questo luogo che ho costruito, a lungo anche qui. Molteplicità che non deve negarsi, non deve nascondersi: eccolo il privilegio di cui essere orgogliosi. Qui nascono le immagini, i pensieri. Qui nascono i personaggi. Qui si traccia il filo sottile delle storie. A seguirlo, non si va verso l’autore, tuttavia. Ci si immerge nell’abisso del proprio mondo negato.

Ho ricominciato a scrivere.

Share Button