Il salto

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Questa faccenda dell’asticella mi ricordo di averla pensata un giorno di grecale teso e buono…

Qualcuno, rassicurato, vede nella mia inquietudine la prova che cambiare vita è impossibile, o almeno rischioso e potenzialmente dannoso. Una chimera che porta alla distruzione. Era molto preoccupato che vi fosse una possibilità, e ogni volta che gioisco, da anni, delle mie conquiste di libertà, patisce, oppure prova a smontarle, fino ad accusarmi di falsa coscienza, falsa testimonianza, ed ogni altro abominevole peccato di cui viene da sempre tacciato chi propone (e vive!) un’idea diversa dal conformismo che schiaccia ma anche, tanto, protegge. Se c’è una possibilità di fuga dal carcere, infatti, la popolazione carceraria si divide sempre in due: una minoranza spera e si adopera per tentare la sua evasione. La maggioranza invece soffre dovendo constatare che ha due vie di fronte: tentare, faticando e rischiando, oppure ammettere che potrebbe ma non ci prova, dunque che di fatto non ha a cuore la libertà come diceva, come giurava. E stare in carcere senza potersi più lamentare della mancata liberazione equivale a morire.

Chi strumentalizza, in questo modo, i disagi della vita, le complessità, le inevitabili sconfitte e i timori ineludibili, dimentica che l’inquietudine non è la mia, ma è dell’uomo. La differenza sta solo in un fatto: gli uomini liberi se la concedono, ci giocano tra le dita, prevalgono o ne escono sconfitti, ma consapevolmente, vivendo la reale natura delle cose. Gli altri invece la negano, drogandosi nei modi più adatti alla bisogna (lavoro, routine, consumo, farmaci, droghe, falsi movimenti…), fingendo che vada bene come va. Del resto, per chi ha problemi col coraggio e con la libertà, è sempre meglio una buona bugia che una cattiva verità.

Mi sono convinto che si tratti di una questione di ambizione. L’asticella cade se tenti di superarla col tuo miglior balzo, ma il fatto che cada è sia prova del fallimento del salto sia prova della meraviglia di aver tentato. Una vita da sportivi restando alla base di quella rampa, immobili, a guardare un’asticella che non cade solo perché mai un balzo verrà tentato, è per molti una rassicurazione. Per un saltatore in alto è il totem della sconfitta. Il punto di quell’asticella, naturalmente, non è superarla (anche se questo ha un suo grande senso) ma il salto. Ma se la questione maggiore risiede nel salto, solo chi non stacca la sua ombra da terra è fallito. Chi supera o non supera l’asticella, ce l’ha fatta.

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Idee e sudore

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Il Fienile dell’Anima

Arrivai a Cuba, molti anni fa, e in tutte le tv accese nei locali Fidel parlava con tono appassionato. Chiesi di che si trattasse. Mi risposero: “è l’appello per la Zafra!”. Ogni anno Fidel invocava la mobilitazione generale per la raccolta della canna da zucchero. In pieno embargo, era la grande fonte di reddito cubana, e anche solo portare la raccolta al 25% dell’intera produzione disponibile, rispetto al solito 20%, avrebbe significato grandi risorse in più. Mi colpì che un Capo di Stato fosse così accorato parlando della raccolta di un “frutto”. Per lui era la chiave della libertà dell’isola.

Quel concetto l’ho mutuato per il Fienile dell’Anima. Per una scommessa ideologica e di stile di vita questa casa si riscalda solo a legna, no gas, no gasolio, e la legna non la compro: viene dal piccolo boschetto che l’attornia. Devo tagliare gli alberi o potarli prima della vegetazione primaverile. Li lascio a terra fino all’estate e poi li faccio a pezzi. Poi devo trasportare in salita i ciocchi fino alla casa, che sta su un crinale, disporli in legnaie dove in teoria dovrebbe stare un anno a seccare per bene. Ogni anno dovrei bruciare quella dell’anno precedente. E’ la mia “Zafra” annuale, che non manco di indire facendo un grande e accorato discorso ai cittadini quivi residenti: me. Lo corredo di grandi concetti come le fonti rinnovabili, l’autosufficienza energetica, la libertà. Scoiattoli, gatti, cinghiali, daini, scorpioni e potamon fluviatilis (le popolazioni più rappresentate del luogo), mi ascoltano con apparente interesse.

La fatica, l’impegno, la caparbietà con cui per nove inverni ho mantenuto fede a un concetto, sono fattori essenziali per la mia libertà. L’orgoglio di accendere il fuoco nei primi giorni freddi dell’anno, ricordando ogni singolo pezzo di legno, la fatica costata, il valore che ha in quel momento, sono un gesto rituale e sapido, l’atto finale di un ciclo fatto di idee e sudore. Ecco i due ingredienti della libertà, almeno di alcune sue declinazioni fondamentali: le idee, perché occorre prima sempre pensare qualcosa di nuovo, proprio, adeguato, e poi farlo; il sudore, cioè compromettersi personalmente, fare a mano direttamente, bagnare la maglietta con ciò che promana dal nostro corpo che fatica.

Il decimo inverno è “alle porte”. Ancora una volta il gesto di essere autonomo dal punto di vista energetico mi riempie di considerazione e rispetto per me e per questo luogo carico di magia. Me lo ripeto, come Fidel, prima di rimettermi all’opera, come ogni giorno, appena smetto di scrivere, portando su le cinque tonnellate della mia legna che mi serviranno.

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Un bosco in salita è durissimo da lavorare…

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Non quando ci sei

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Devo pensare, riflettere come fare.

Mi sto rendendo sempre più conto del grande dislivello di vite che facciamo. Chi ha tempo, chi segue la mente e il cuore nella fitta concatenazione quotidiana delle emozioni e dei sentimenti, che seguono cronologie e tipologie insondabili, si ritrova solo. Chi ha da fare scorre, sbatte, si stanca, si distrae, parla, parla, parla, e poi si deve riposare, stanco. E quando ha tempo è distratto, si perde molte cose, soggiace a bisogni inevitabili, compressi nel tempo e nello spazio. La libertà rende spesso soli, costringe a vivere in sé e con sé i momenti che vorrebbe condividere, è soggetta a ritmi non suoi, che non può non rispettare. Costruire, progettare, o anche solo sentire, essere parte del flusso emotivo, sensoriale e psicologico che conduce non dove dobbiamo, ma dove siamo, non sono accessori, sono la vita, ed è dura poterla mettere in comune, raccontarla, farla e viverla insieme quando accade, perché bisognerà farla e viverla quando si potrà. Cioè quando, magari, quell’emozione non ci sarà più, e ci si dovrà sforzare. Neppure l’amore facciamo quando ne abbiamo voglia, tanto che spesso la voglia non ce la facciamo neanche venire quando non si può. E quei momenti di desiderio non tornano.

Incapaci di concepirci liberi, imberbi dell’autenticità, quasi non ci pensiamo a questo. Forse neppure lo sappiamo. Distratti da mille altri problemi, non immaginiamo che si possa esistere assecondando ciò che si sente quando lo si sente, o quando sarebbe bello donarci a chi sente, regalargli ciò che lui sente, nel momento in cui lo vive. Già riuscire ad avere tempo per fare qualcosa quando si può, ci pare tanto. Compriamo biglietti con mesi di anticipo: e se quel giorno non mi andrà di viaggiare? Prenotiamo ristoranti: e se non avrò fame? Rimandiamo a quando avremo tempo e modo l’amore, le parole, il nostro tempo finalmente “libero”: e se quella settimana avrò voglia di lavorare? Non si vive quando si è vivi, ma quando qualcuno ha deciso che è opportuno.

Ecco la lunga mano del sistema imperante, che ti raggiunge comunque, anche se ti sfili. Ecco dove prende le sue rivincite, costringendoti a essere solo quando vorresti qualcuno accanto, o quando ti porta a condividere le cose di maggior valore nei momenti “utili”, non nei migliori. E’ una tragica consapevolezza questa, su cui bisogna lavorare. Devo studiare, capire come sia possibile contrastare questo colpo di coda del grande scorpione dorato. Non può tollerare di essere stato battuto. Cerca, e trova, ogni giorno, la sua rivincita.

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Un altro giro di giostra

Tornano, perché prima o dopo devono farlo, e iniziano sempre dopo la metà d’agosto, i primi, poi verso la fine, il grosso, e gli ultimi a settembre, tornano con le vacanze sulle spalle, e il peso sembra che sia triplicato rispetto a quello insostenibile di prima di partire, che uno si chiede: ma se le vacanze il peso lo triplicano, non era meglio restare a lavorare? così sarebbe stato un terzo di quello che hanno ora addosso, e il problema non è mica tornare a lavorare, lavorare di per sé non è brutto, io sto lavorando, da mesi, dieci ore al giorno di media, tra quando scrivevo sette a ora che correggo tredici, qualcuno che ama il suo lavoro c’è, pochi, ma per gli altri è disumano due sole settimane l’anno di vacanza, chi ama quel che fa potrebbe non stancarsi mai, ma loro sì, dovrebbero averne una ogni tre, almeno! e in ogni caso, anche fosse, il problema è vivere, come, dove, facendo che, alienati da che, staccati da che, perché quel peso non ha niente a che vedere con l’ufficio, con il capo, con le riunioni in cravatta intorno a un tavolo, quel peso è dentro, triplica dentro, germina dentro, e riguarda tutto, fare notte a compilare excel o a dormire, una moglie amata o il disamore, un tempo speso o sprecato, rapporti umani inutili con gente che non amano, che non li ama, il cane da portare a pisciare, sogni che non hanno, ma più tragicamente che non vivono, posti che fanno schifo, perché non siamo una cosa soltanto, ma un insieme, e mi scrivono, in tanti, iniziano sempre ora, intorno al diciassette agosto, il giorno dopo, the day after, e mi fanno tenerezza, a qualcuno rispondo, non a tutti, vorrei ma non posto, anche perché quello che mi verrebbe da dire è meglio che non lo dica, per me è facile, adesso, ma io ci sono stato come stanno loro, e mi ricordo, e magari avessi avuto uno che mi alzava dalla sedia con tre parole dure messe bene, ma comunque non le dico quelle tre parole, perché sono dure per chi legge ma anche per chi scrive, e poi mi sono stufato di sentirmi dire che ci vado giù pesante, come se anche loro non ci andassero pesanti, io almeno lo faccio a parole, osservando, loro con le azioni, vivendo, e c’è una cosa che sa di brutto più delle altre in tutta questa storia, la ritualità del disappunto, il calendario dell’agio e del disagio, condannati a lamentarsi tutti più o meno nello stesso periodo, come se durante l’anno, deciso a tavolino, ci fosse il mese per sperare, quello per temere, poi uno per respirare, e quello vomitare, aprile è il mese per giacere, gennaio per tacere, poi c’è settembre per riprendere ancora, identico rituale, disperata liturgia, ogni anno, ogni mese, ogni giorno, mentre la vita se ne vola via.

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Perchè ci paia vero

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Paio vero così!?

E basta con questi selfie, e dai… Ma non lo vedete che siamo patetici, che immortaliamo istanti scelti ad arte per convincerci di qualcosa che non è vero, per dare a qualcuno messaggi di una vita che l’istante prima e l’istante dopo quella foto, invece, nascondiamo, perché ce ne vergogneremmo!? Quelle facce eternamente sorprese, quei volti cristallizzati in smorfie di giubilo sopra-le-righe, sono cartapesta di un carro allegorico, significano quasi sempre qualcosa di metaforicamente opposto, ma lo mascherano per noi, che siamo i primi a non crederci e ci fotografiamo perché ci paia vero. Nel farsi una fotografia ogni tanto non c’è nulla di male, ma come diceva il vecchio Compay Segundo: “si può fare tutto, per tutta la vita, ma senza esagerare”. Non così, non a comporre una cronistoria da ipertiroidei esaltati, finti cocainomani dell’ego che cercano di dimostrarsi vite movimentate, affascinanti, esilaranti, avventurose, piene di massime da filosofi de no’antri, nel tentativo di negarsi e negare che nella vita, come nella musica, contano più le pause delle note.

Non c’è niente di particolarmente interessante in questi nostri autoritratti, non so se ci è chiaro, e questo sì che combacia con le nostre vite. Sono tutte pose vacanziere, da reclusi nell’ora d’aria, in cui l’unica cosa interessante, di cui resta il perenne languore, sono le altre foto, quelle che non ci sono perché non le scattiamo o pubblichiamo mai, cioè il racconto delle sequenze escluse dal romanzo, le sole che potrebbero dire qualcosa di vero.

Pippe. Onanismo iconografico. Autoerotismo della finzione, il decadente affresco di un’epoca di perpetua esaltazione emotiva farlocca, accompagnato sempre (o quasi sempre) da frasi d’altri, prese su Google, non certo da un libro che si sta leggendo, per comporre un quadro che non è il proprio, ricchi di una saggezza non nostra, confusionaria, raffazzonata, che non sa davvero di noi, e che purtroppo, nella maggior parte dei casi, non somiglia neppure all’aforisma di ciò che vorremmo diventare. Ritratti di persone che non siamo, ricche di un acume che non dimostriamo dal vivo. Invocando inutilmente, sempre più debolmente, un’autenticità che a furia di fotografarci non ritrarremo mai.

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A partire da oggi
per due settimane potete aiutarci a scegliere la copertina di RAIS, il mio nuovo
romanzo, da ottobre in libreria.

Votate, basta andare su questo link di facebook e mettere un “mi piace” sulla copertina che preferite. Se poi volete condividerlo, aumentiamo la base dei votanti.

Se volete, prima, guardate il video sul romanzo e anche il video  su questo sondaggio.

Ciao, grazie. Simone

 

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Non vi innamorate mai…

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Esiste, lo so, la spiaggia della compassione e del dialogo. Dove nessuno cerca un nemico, un cattivo che ci faccia sembrare buoni. La più volgare, semplice, dannosa, involuta delle soluzioni…

Il tempo rivela tutto. Animi, pensieri, comportamenti. Il che facilita terribilmente le cose. Quello che accade mostra quel che c’è da sapere. Solo un consiglio, ma non per me o per lui, per voi, e per il futuro: non vi innamorate mai di una versione dei fatti. Potete essere certi che non è andata così.

In quell’altra parte della storia, quella che avete eliminato, dimenticato, nascosto, che non volete ricordare, che non avete ancora rivelato, quella che non ammettete per salvarvi il culo dalla colpa, c’è un pezzo di come sono andate le cose, e di voi che così le avete condotte. Un brano essenziale della storia. C’eravate voi lì, non solo gli altri, non dimenticatevelo. Voi con i silenzi, con le parole non dette, il contributo non dato. Voi con la vostra quiescente distrazione, con le cose che avete fatto finta di non vedere, che vi faceva comodo non notare, quelle che sapevate ma avete fatto finta di non sapere, quelle che non avete voluto ascoltare, i gesti che avete compiuto accanto ai vostri atti mancati. E’ lì che risiede la vostra, nostra responsabilità su come sono andate le cose. Vale per l’altro, vale per voi. E’ lì dove ci siamo salvati o ci siamo condannati. Ogni volta che vi convincete di poter essere assolti al di là di ogni ragionevole dubbio, a ogni passo della storiella che coi vostri bislacchi avvocati avete architettato ad arte per essere solo la vittima innocente e per fare dell’altro il carnefice, vi state procurando un danno. Siete profondamente responsabili di ogni atto che avete avallato, accettato, reso possibile, generato protetti dal sipario insincero di averlo solo subito. Ogni cosa che ci accade, accade col nostro contributo. Ogni fatto della vostra vita lo avete prodotto, ne siete stati autori, coautori o complici consensuali.

Non perdetevi la grande occasione di vedervi in quei momenti, di capire la vostra diversità da oggi, o la vostra immutabile identità. Le cose (ripetetevelo, fatevi del bene) non sono andate così come le avete imparate a memoria. Sono andate diversamente, dunque non c’è alcuna possibilità di condanna dell’altro e di vostra assoluzione. Come sarebbe utile, oltre che bello e salvifico, per voi!, per tutti, riuscire a comprendere, potersi raccontare e ascoltare con la comprensione che l’altro complice, palo e ideatore come voi della medesima rapina, così simile a voi nelle sue mediocrità e nella sua gloria, meriterebbe. La stessa comprensione che meritate voi.

Non interessatevi di ciò che avete fatto per bene, perché lì non c’è nulla di utile. Anche l’altro ha fatto cose per bene, voi ne avete goduto, e in ciò anche lui non può trovare alcuna consolazione. Una buona storia per assolvervi oggi è una sentenza di ripetizione dell’errore domani. Domani è il giorno in cui occorrerà essere diversi, per vivere le nostre vite possibili invece dell’unica che reiteriamo da sempre, ma è oggi che la costruiamo. Dove abbiamo accusato, guardiamoci. Dove avete perdonato, analizzate con obiettività i fatti, alla ricerca di ciò che effettivamente non vi riguarda. Dove tutti si sono manifestati solo comprensivi e partigiani, dove siete stati solo consolati, dove avete assistito alle accuse di chi ne sapeva ancor meno di voi e non poteva giudicare neanche volendo, dove per onestà e amicizia avrebbero dovuto dirvi le cose scomode che voi non volevate ascoltare, non c’è stata qualità, nessuna umanità. Se nessuno al mondo vi ostacola, se nessuno al mondo vi critica, chiedetevi dove avete sbagliato. Ma se qualcuno lo fa, almeno di nascosto, pensateci.

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Tanto, ma lì.

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Ieri l’altro. Alimia. Egeo sudorientale. Io in posti così divento una ventina di uomini che sentono ognuno come cento…

Devo dire qualcosa sul rumore, sul volume a cui parliamo tutti. Devo dire un mucchio di cose sulla questione del razzismo e della violenza di questi giorni. Devo dire molte cose sull’affollamento estivo del mare. Devo dire molte cose sul concetto di “vacanza”, cioè tecnicamente un’“assenza” (semmai dovrebbe essere una forma di “presenza“!). Devo dire molte cose sul vento apparente, risultato vettoriale tra vento reale e vento di velocità, e sul fatto che il marinaio naviga con l’apparente, dunque non è uomo che si occupi della realtà, ma della sua proiezione diversa per intensità e direzione (avete idea, per metafora, quante ne ho da dire su questo applicato alla vita!?). Devo dire molte cose ancora sui roditori che per fare le proprie cose sfruttano le relazioni degli altri senza vergogna o rispetto di sé. Devo dire un mucchio di cose sui pirati. Devo parlare del caldo, della sua taumaturgica facoltà mitopoietica. Devo dire una cosa che non posso dire, un progetto artistico che andrò a realizzare a breve, che trovo eccitante. Devo dire una gran quantità di cose su Mediterranea, su alcune cose dette a bordo che mi hanno fatto capire che non basta una barca e un po’ di marinai per vivere la magia in mare, serve anche un concetto, un’idea, un sistema di valori che diano senso al tempo: una spedizione con idee originali, non rubacchiate, proprie, non altrui, e una rotta, non dei giretti. Devo dire alcune cose sulla selettività delle relazioni, e sulle illusioni. Devo dire qualcosa sul cambiamento, sui momenti in cui diventa inevitabile, quando ci si accorge che è troppo tempo che ci giriamo intorno, forza! Devo dire due o tre cosette sul cibo. Devo raccontare di pirati, carte segrete, storie andate e ancora vive. Ho cose da dire sulle isole. E molto da riferire sul tempo. Inevitabile che io abbia anche cose da dire sull’amore.

Ma sto scrivendo. Questo groviglio di pensieri, emozioni, sentimenti, lo infilo lì.

Poi, riprendo.

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Sul filo

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Kos

Quando sono entrato qui, nel porto antico di Kos, l’altro ieri, ho avuto la mia vibrazione, un lieve formicolio tra orecchie, collo, nuca. Da quando faccio il comandante sulle barche è la mia stella polare. La mattina mi sveglio, e se ho quel formicolio sta per capitare qualcosa. E’ quasi sempre riferito alla meteorologia, ma non solo. Un mese e mezzo fa sono salpato da Kalymnos e ho detto all’equipaggio: “ragazzi stiamo all’occhio che ho il formicolio”. Detto fatto, fuori dal porto la barca non sale di giri. Una rete nell’elica. Bagno, coltello e via. Formicolio sparito. L’altro ieri entrando stessa scena. Pensavo fosse perché qui tutti si danno catena addosso ormeggiando. Invece oggi faccio per salpare e ho un’avaria all’impianto elettrico. Motore non parte, mentre sale vento e rischio un po’ nell’ancoraggio. Metto in sicurezza la barca e faccio check generale. Individuo il problema. Stasera alle 19.00 dovrei risolverlo. Intanto il formicolio si attenua, va a scomparire. Sono certo che l’ultima vibrazione si dileguerà a lavoro finito.

Ora attendiamo i pezzi di ricambio. Dunque giornata senza occupazioni. Farò piccoli lavoretti, scriverò, leggerò, altro. Il tempo ritrovato, come lo chiamava un francese amante del tè e dei salotti, cioè tempo che non avrei avuto qui e che invece appare per incanto. Come quando attendiamo qualcuno che non arriva. Non è tempo perso, ma liberato, ritrovato, apparso. Le cose per mare cambiano, senza preavviso. Come nella vita. Tutto si evolve, muta, e va sempre come deve andare. Ogni cosa che possiamo e dobbiamo e soprattutto vogliamo consolidare, far evolvere con sogni, passione, progetti, coinvolgendoci, compromettendoci, coinvolgendo, si sviluppa in quel senso. Il resto si spegne, si distanzia, si liquefà. Salvo i colpi di mano della sorte, che può sconvolgere tutto inopinatamente, costringendoci ad ampi fuori rotta o a constatare di aver perduto l’attimo.

Il tempo. Ci rifletto ora, in questo bar sulla marina. Ne parlavo anche ieri con F., passeggiando. Sperperarlo e iperutilizzarlo sono i due estremi, mentre sul filo sottile tra utilizzo e spreco il tempo rivela la sua natura possibile. Prima che tutto cambi, che sia tardi per ogni cosa, occorre usarlo, masticarlo, gustarlo, inghiottirlo. Eppure, non dobbiamo farci prendere dall’ansia di fare, progettare, lavorare, foss’anche ai nostri sogni. Cosa deve prevalere, relax o azione, attesa o marcia, progetto o libertà dai vincoli dell’immaginazione? Noi che siamo qui, dobbiamo restarci o andare? E quando saremo lì, dovremo sostare o muoverci? Cos’è “presto”, il fratello o il nemico di “tardi”? Domande. Sul filo.

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Poli

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La rete mi affascina da sempre. Trattiene, ma ha molti buchi. Come me.

L’epoca polarizza. Da un lato i nuovi violenti, così antichi…, che dalla complessità e dalle sfide si sentono autorizzati all’urlo, all’invettiva, strappano e spingono; dall’altro i nuovi guru, quelli che sorridono a tutto, quelli che tutto è uno e uno è tutto, che hanno trovato la via. Capita spesso quando le cose cambiano e la scelta estrema è la via più semplice. La prima è uno sfogo, l’altra una fuga.

In mezzo c’era e resta questa vita, la solita di sempre, dove cercare l’armonia è tutto fuorché evadere nell’indignazione odiosa o rifugiarsi nell’atarassia. Le passioni vanno vissute, non bisogna cedergli né bisogna illudersi di annullarle. Il coraggio serve a scegliere, non a far finta di niente. Passione, dolore, speranza, ira, frustrazione, sogno, ci possono abbattere o sollevare. Sono i cromosomi dell’esistenza, non cambiano, sono sempre lì dall’alba dei tempi. Nessun violento e nessun santo ha mai cambiato una virgola di questo. L’uomo accanto a noi sembra sereno, quello poco indietro agitato. E noi…

Diffido di chiunque urli, e di chiunque non lo faccia mai. Diffido di chiunque non accetti e di chiunque accetti tutto. Diffido di chi sorride sempre, e di chi ha sempre il grugno. Diffido di chiunque parli di felicità, segreto della vita, soluzione, e di chiunque non veda che nero. Diffido di chi dà consigli, perché sa per certo come si fa, e di chi non parli mai di sé, non testimoni con azioni e parole ciò che sa. Diffido di chi giudica, perché mente occultando, come di chi non ha opinioni, perché mente tacendo. Sono tutti cattivi maestri, che abbandono mentre li trovo, quelli che è facile seguire pur di evitare di alzarsi e andare. La speranza non cresce mai, è una fanciulla che muore eternamente bambina, stuprata dalla realtà. Però c’è la vita, che non è né come sembra né come ce la immaginiamo, in cui è possibile far coincidere ragione e sentimento all’infinito, ed essere coerenti tanto con ciò che purtroppo siamo quanto con ciò che purtroppo non saremo mai o potremmo diventare.

Ogni volta che diciamo: avrei dovuto fare un’altra cosa, dovremmo dire: avrei dovuto essere consapevole di quello che facevoaccettarlo, goderne e patirlo, perché c’era un senso, una ragione, e non è aver fatto, il problema, ma non aver capito, e ora negare. Raccontarsi bugie è la più antica delle assoluzioni, ed è quel che avviene sempre quando cediamo all’odio o fuggiamo nel Nirvana. Non accogliamo nessuna dottrina, non affidiamoci ad alcuna pratica altrui. Le cose più adatte a noi non si e-seguono. Si creano.

Cancellate questo post.

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